Che cosa: La copia infedele di Stefano Trinchero (66thand2nd) inizia con un incidente: Gonzalo Malagutti, calciatore di punta della Lungodoriana, viene investito da un’auto pirata ed entra in coma. Riberto – annoiato cronista sportivo senza talento né passione – è giudice e boia della fantomatica terza squadra torinese. La testata su cui scrive è infima, la leggono in pochissimi, e il giornalista fa presto a guadagnarsi l’odio di tifosi frustrati e per questo insospettabilmente polemici. Per compiacere il suo direttore, Riberto indaga senza convinzione sul fatto di cronaca, con l’aiuto dell’imperturbabile collega Pasquotto.

«Non era un autista particolarmente esperto e lo si vedeva dalla cautela che usava nel sedersi al posto di guida di un’utilitaria troppo piccola per la sua stazza, dentro la quale a malapena riusciva a inserire il torace, costringendolo nello spazio esiguo compreso tra il volante e il sedile. Rimbalzava un paio di volte per posizionare correttamente il fondoschiena e una volta messo in moto aveva la tendenza a conservare la stessa postura rigida e la stessa concentrazione inamovibile che dedicava ogni giorno allo schermo piatto del suo computer.» [pp. 164 – 165]

I due, quasi per caso, scoprono che l’incidente è solo l’ultimo di una serie di casi simili, in cui sono coinvolti periti, carrozzieri e assicuratori. Ma Riberto e Pasquotto non sono i soli a indagare. Fabrizio Dominici, esperto di truffe assicurative e uomo dallo stucchevole rigore morale, è alla ricerca di prove per le ipotesi che lo stesso Riberto gli ha suggerito. Affiancato dal colluso Fasano, si adopera per fare luce sul caso e inchiodare i responsabili di un’associazione a delinquere, ormai troppo evidente per essere ignorata.

Che cos’altro: fino a qui sembra non esserci proprio niente di speciale. Ma La copia infedele di Stefano Trinchero non è un noir come gli altri. E se durante la lettura non si ha tempo per accorgersene, perché i continui battibecchi fra i suoi protagonisti rendono l’esperienza estremamente piacevole, la conclusione non lascia dubbi: come nella migliore tradizione del romanzo psicologico gaddianamente camuffato da “qualcos’altro”, la verità è lasciata alla confessione di un personaggio secondario, lontana anni luce dalla logica stringente che accompagna le deduzioni.

Come, dunque: ho chiesto a Stefano Trinchero come ha costruito la trama del romanzo e quali trasformazioni esso ha subìto prima di diventare quello che leggiamo noi oggi.


 

Stefano Trinchero: Ho scritto prima la seconda parte della storia, quella che ha come protagonista Fabrizio Dominici e il suo aiutante Fasano. In teoria l’intera indagine doveva essere portata avanti da questi due personaggi. Poi mi sono accorto che la storia non funzionava e ho scelto di inserire quello che è poi diventato il vero protagonista della storia, ossia Riberto, il giornalista che indaga sull’incidente di Malagutti e che, via via che scrivevo, si è conquistato sempre più spazio.

Carolina Crespi: Riberto è a tutti gli effetti il protagonista della storia. Per questo leggere una conclusione che non lo chiama in causa mi ha spiazzato. Mi sono convinta che fosse stata una scelta dovuta a una necessità non di trama, bensì di senso. È così?

Le ultime parole e la conclusione della storia le ho lasciate ad Alessio e all’amico-nemico Diego. Alessio è il personaggio che con le sue azioni e i suoi pensieri mi ha portato a dare questo titolo al libro: nella prima stesura era lui il mio protagonista – insieme a Dominici – e anche ora continua a custodire il senso del libro, le motivazioni per cui l’ho scritto. Doveva intitolarsi L’invasione degli onirodonti, che poi è il titolo della commedia di fantascienza che ho inserito nella seconda parte del romanzo. Nella versione che è andata in stampa, Alessio ha una parte marginale e con lui anche tutte le scene relative al teatro. Per questo ho scelto un altro titolo, anche forse perché il primo non era per nulla immediato. Credo che il “dimagrimento” della figura di Alessio derivi dal fatto che tutt’oggi non lo considero un personaggio riuscito: mentre scrivevo, facevo sempre più fatica a inquadrarlo. Nonostante ci provassi continuamene, Alessio restava sempre per qualche motivo fuori fuoco. Nonostante ciò, ho sempre creduto che dovesse essere lui a raccontare, con una confessione, la sua versione dei fatti. Alla base ci sono il costante senso di inadeguatezza che lo inibisce dall’agire sul reale come vorrebbe, e l’immediato bisogno di modificare la propria vita almeno attraverso una sua rappresentazione. Come se un disegno fosse in grado di avvicinare la vita vissuta a quella che lui ha sempre immaginato per sé.

L’ispettore-liquidatore Fabrizio Dominici è uno specialista nello smascheramento di truffe finanziarie legate al mondo delle assicurazioni. Un uomo di poche parole, con una fede cieca che la verità esista e sia una. Quando lo incontriamo per la prima volta, egli sta per raggiungere Riberto nei pressi della redazione del giornale dove il ragazzo lavora. Dopo un breve scambio, Dominici se ne va, lasciando Riberto da solo a guardarlo mentre si allontana.

«Inchiodato dentro il cappotto di lana grigia, a ogni passo la sua figura guadagnava in affilatezza. Invece di rimpicciolire, come sarebbe stato naturale che fosse, sembrava allungarsi in rapporto ai giganteschi spazi vuoti che lo circondavano. Si appuntiva in direzione della nuca ricoperta da un folto strato di capelli cortissimi, asserragliati intorno a un accenno di stempiatura, indecisi sulla tonalità di grigio destinata a sostituire il castano originario.» [p. 83]

La rigidità e l’austerità di Dominici erano tali che, a un certo punto, ho addirittura pensato di eliminarlo completamente dalla trama e affidare l’indagine al vicecomandante dei vigili che compare nel quinto capitolo, come se la colpa della mia insoddisfazione fosse tutta dell’ispettore!

Come accennato, l’indagine viene portata avanti da due coppie di personaggi che, in modo indipendente, cercano di avvalorare le proprie ipotesi. Da una parte vi sono Riberto e Pasquotto, dall’altra Dominici e Fasano. Pasquotto e Fasano hanno entrambi il ruolo dell’aiutante e, dalla descrizione che ne fai, sembrano l’uno l’antitesi dell’altro. Riservato e silenzioso il primo, ingenuo e caciarone il secondo. Come sono nati questi personaggi?

Pasquotto è stato introdotto alla fine, e per fine intendo pochi mesi prima di consegnare. All’inizio Pasquotto era semplicemente un collega di Riberto e nella seconda parte del romanzo non ha alcun ruolo. Fasano invece è un agente di commercio, uno di quei personaggi che si incontrano spesso in provincia e che, soprattutto in questa fase di contrazione del mercato, sono abituati a cavarsela in ogni situazione anche a costo di mettere in dubbio la propria moralità. Doppiogiochista e superficiale, ha dalla sua una loquacità quasi mitica che gli permette di cambiare le carte in ogni momento; così, nonostante Fasano sia di fatto colpevole, il lettore è portato a considerarlo vittima di un disegno più grande, all’interno del quale ognuno cerca di sgraffignare quel che può. Lo stesso Dominici se ne serve per i suoi scopi (che egli considera più alti poiché servono la giustizia). Questo non fa che rincarare l’idea che Fasano sia vittima reale e fittizia, di un meccanismo che non gli lascia alcuno spazio di azione. Lui e Dominici sono stati i primi personaggi che ho scritto, sono molto affezionato a entrambi.

C’è un’immagine nel testo che torna spesso: è quella dell’arpionare l’obiettivo, la realtà, le cose che ci sfuggono.

La copia infedele racconta del divario tra la realtà e le persone che la vivono, e credo che questa figura dell’arpione descriva proprio la necessità di questi personaggi di aggrapparsi al mondo, di ritrovare un contatto con la realtà. Sia Riberto che Alessio, per esempio, non sono personaggi sereni, ma uomini per i quali vivere è un disagio. Riberto, che è forse il primo a parlare di questo concetto dell’arpionare, è un uomo tendente alla depressione e all’alcolismo: per lui il fatto di restare aggrappato alla vita, alla città, al lavoro è una questione di sopravvivenza e gli richiede uno sforzo enorme.
Mi interessava cogliere questo personaggio proprio nel momento in cui il ricongiungimento ha luogo: Riberto aveva perso ogni interesse per il suo lavoro e, nel momento in cui la storia inizia, il caso Malagutti è qualcosa che lo sprona, obbligandolo a rimettersi in contatto con la propria vita. Questo richiede a Riberto uno sforzo che continua a essere necessario anche dopo, quando per mantenere il contatto conquistato diviene fondamentale immaginare un futuro per sé, avere un obiettivo, arpionarlo e tirarlo verso di sé.

Ritrovo l’immagine dell’arpionare anche da un punto di vista topografico. C’è la Torino costruita a riga e squadra, e poi c’è un’altra Torino, a cui le strade sfuggono dal controllo, irregolari, anormali. Ed è proprio a queste aree che fai riferimento all’interno della storia, quasi che anche le strade, come le persone, necessitassero di rientrare in carreggiata.

Il parco della Colletta è un luogo abbastanza centrale nella storia, i personaggi ci capitano spesso perché è lì che si trova lo stadio della fantomatica Lungodoriana. Questo parco è adiacente a una lunga strada che ha sul lato opposto il Cimitero Monumentale, enorme e squadrato. Il parco è altrettanto enorme e assolutamente irregolare: è il punto in cui convergono la Dora e il Po e mi è sembrato un luogo perfetto per raccontare l’irregolarità.

Nelle tue storie, i personaggi secondari sono sempre introdotti attraverso descrizioni oblique che ne disegnano qualche tratto caratteristico a partire da uno sguardo insolito, spostato, raramente frontale. Chi guarda il mondo spesso “affila” lo sguardo. Sembra quasi che anche questo verbo sia utilizzato con l’intento di riportare le cose alla loro geometria, di normalizzarle.

Io sono miope, chiudo gli occhi per vederci meglio. Nel libro è Alessio, per esempio, ad avere bisogno di “affilare lo sguardo”. Si tratta di un personaggio che si costruisce una propria immagine della realtà, un’immagine sfocata, miope, e cerca di trovare degli espedienti per vederci più chiaro. Lo sguardo affilato è qualcosa che viene soltanto dopo aver osservato le cose a lungo, uno sguardo meno superficiale e più chirurgico, come se la superficie delle cose fosse sezionabile e gli occhi fossero strumenti per osservarne le interiora.

La copia infedele non ha lieto fine. Nessuno dei personaggi che abitano il romanzo ha un obiettivo la cui realizzazione cambierà lo stato delle cose. Si accontentano di avvalorare l’ipotesi parziale che li muove senza che questa debba essere risolutiva anche per le proprie vite. Per questo, pare che i personaggi si disperdano con l’avvicinarsi della conclusione del romanzo, e che alla fine non ne resti che uno, a confessarsi più che confessare.

Alla base del libro c’è l’idea che la verità non interessi realmente a nessuno e che nessuno abbia gli strumenti per trovarla. È un finto noir in cui l’indagine è affidata a degli investigatori incapaci, che non hanno nessun talento, nessun intuito e chi arriva dopo non è un investigatore migliore di chi c’era prima. È per questo che ho voluto affidare il finale non a una deduzione bensì a una confessione.
È un’idea che ho avuto abbastanza tardi ma continuo a esserne molto convinto: nessuno sarebbe arrivato alla verità ma la verità a un tratto si sarebbe manifestata.
Tempo fa avevo seguito un caso di cronaca calcistica e mi aveva colpito che uno dei ricercati fosse andato a costituirsi nella redazione di un giornale sportivo, invece che in un commissariato: aveva letto le cronache della vicenda che lo riguardava su un giornale e aveva pensato di andare in redazione a raccontare la propria versione dei fatti, affinché fosse nota, prima che l’arrestassero.

A tratti la condizione esistenziale dei tuoi personaggi e il loro contesto di azione mi ha ricordato quella di Morte di un uomo felice, l’ultimo romanzo di Giorgio Fontana, Premio Campiello, uscito con Sellerio qualche anno fa. Nonostante il libro di Fontana sia ambientato in un periodo storico già di per sé carico di tensione, ho ritrovato delle assonanze di fondo, in certe convinzioni poco espresse che guidano alcuni dei tuoi personaggi, in particolare Dominici. Quando scrivi delle storie, c’è sempre un mistero da svelare, una verità che non è definitiva, o il tentativo di mettere alla prova un proprio limite?

Tendenzialmente mi piacciono le storie in cui i personaggi devono confrontarsi con la morte senza però essere dei professionisti dell’indagine né tantomeno della morte. Ellroy, Lansdale…  Sono tutte letture che ho fatto molto tempo fa e che oggi ancora mi lavorano sottopelle. Le storie di Ellroy hanno sempre dei legami con il contesto storico politico ma ci sono talmente tante verità e tante versioni dei fatti che si fa fatica a comprendere veramente. Questa comunque è la direzione che mi interessa: la morte, la reazione – qualunque reazione – a essa e spesso mi ritrovo a raccontare vicende intorno a fatti di cronaca.

Mentre scrivevi stavi leggendo qualcosa che ti ha aiutato a entrare e restare nel tuo libro?

Ci ho messo cinque anni a scrivere questo romanzo. Ho letto parecchie cose, in cinque anni. Quando ho cominciato a scrivere ho comprato un libro per diventare perito assicurativo, ero curioso di vedere come erano fatti i test, c’era un po’ di fisica, di geometria, era molto interessante perché è un mestiere che ti costringe a studiare la realtà da un punto di vista giuridico, legale. Periziare il mondo è una sorte di arte; ne si dà una rappresentazione economica, è una stima, che arriva però solo dopo un esame dettagliatissimo di ogni frammento del reale. In rete si trovano moltissime perizie, o casi di cronaca legati a truffe di ogni genere.

E come è stato il lavoro sul testo? Il rapporto con l’editor?

Mi ha seguito Isabella Ferretti, con lei ho lavorato sulla ricostruzione e sul successivo sviluppo di alcune parti del romanzo, soprattutto in relazione alla seconda parte, che era quella più problematica. È stata la prima volta che abbiamo parlato in modo dettagliato dei miei personaggi e lei si è addentrata molto nei loro meccanismi psicologici. Lavorare con lei mi è stato utilissimo, avrei dovuto iniziare a farlo molto prima. Se dovessi riscriverlo oggi, però, cambierei moltissime cose, darei più spazio a personaggi sacrificati, come Remy, il capo della polizia, o lo stesso Malagutti del quale ho raccontato poco. Mi sarebbe piaciuto andare più a fondo, raccontare questa relazione inesistente ma presente tra Riberto e Malagutti.


 

Stefano Trinchero, La copia infedele, 66thand2nd, 2016, 17 €.stefano trinchero - la copia infedele