L’aria che si respira al Festival del cinema di Berlino è fresca e priva di enfasi.
A colpire il visitatore è l’assenza di orpelli, cerimonie inutili o stucchevoli apparati. La città si riversa nei teatri e nelle sale, approfittando di una Berlinale che si conferma evento democratico e accessibile, ben consapevole della sua funzione sociale ancor prima che artistica. Lo ribadisce lo stesso Dieter Kosslick , direttore della manifestazione, definendo il festival come un “sismografo, una discussione e allo stesso tempo uno specchio della realtà”. Gli artisti, secondo Kosslick, offrono una riflessione audio-visiva sul mondo. Un mondo che è in movimento, letteralmente: milioni di persone sono in marcia e molte di esse non per propria scelta. Molti sono fuggitivi. Il direttore ricorda il ruolo particolare rivestito dalla Berlinale, festival nato all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, in una città piena di rifugiati e animata da uno spirito di pace. Quest’anno la manifestazione vuole ribadirlo con forza, con numerosi titoli in concorso che affrontano temi estremamente attuali – non solo in competizione, ma anche nella sezione Forum e Panorama – e raccontano le contraddizioni del presente, nel tentativo di restituire un’immagine il più possibile efficace di un mondo intento a ripetere fatalmente gli stessi errori.

Il cinema si riappropria di una dimensione sociale, quasi educativa, riconfermandosi arte necessaria a conservare la memoria dell’uomo e a mostrargli al contempo i suoi possibili futuri. A testimonianza di questa vocazione spiccano alcune pellicole, come Cartas da guerra, di Ivo M. Ferreira. Il film portoghese in competizione per l’orso d’oro è tra le rivelazioni del festival. Basato sulle lettere realmente scritte da Antonio Lobo Antunes, racconta la storia di un medico militare in Angola, nel 1971, durante una delle guerre coloniali meno note del secolo scorso. Una voce narrante, principalmente femminile – la moglie del dottore destinataria delle lettere – scandisce il tempo della pellicola girata in un elegantissimo bianco e nero, che restituisce un’Africa lussureggiante quanto fredda e distante. L’aspetto visivo è curato in una maniera inattuale, quasi fossimo di fronte a un film uscito negli anni di Casablanca, con luci studiate per comporre volumi di corpi e oggetti, composizioni innaturali delle scene e veri e propri richiami pittorici (il più evidente quello a L’Ultima Cena di Leonardo). L’estetica ricercata non appesantisce il film e pare sposare alla perfezione la scelta un po’ rétro di una narrazione epsitolare. Seguiamo così la lettura dei messaggi che il medico invia alla moglie incinta, testi pieni d’amore e disperazione per una lontananza forzata che non sembra avere fine, causata da un conflitto insensato, fatto di attese estenuanti e agguati improvvisi, in un’atmosfera per certi aspetti simile a quella del Vietnam. La debolezza del film risiede proprio nell’originale scelta narrativa: la storia gira a vuoto, impantanata nel desiderio del dottore di poter riabbracciare l’amata. Il contenuto delle lettere è ripetitivo, quasi ossessivo – com’è normale che sia, trattandosi di lettere scritte da un uomo in guerra – e rischia di ridurre l’opera a un patinato affresco dalle tinte melodrammatiche, se non fosse per la qualità stessa del testo, che riesce a toccare vette di autentico lirismo, come nella sequenza in cui il dottore si cimenta in un elenco vertiginoso di oggetti e fenomeni a cui paragonare la moglie – vero momento di poesia.
Cartas da guerra è dunque un film in bilico tra perfezione estetica e cronaca di una guerra dimenticata troppo in fretta, che trova nell’intimo carteggio tra due amanti, un’insolita voce.

Un’altra pellicola che gioca tra due piani, quello privato e pubblico, è 24 Wochen (24 settimane) di Anne Zohra Berrached, giovane regista di 34 anni, al suo secondo lungometraggio. Si tratta dell’unico film tedesco in concorso e il titolo si riferisce al numero di settimane entro il quale è concesso l’aborto secondo le leggi dello stato tedesco. Protagonisti del film sono una coppia dello spettacolo, lei comica di successo, lui il suo manager. Astrid (Julia Jentsch, già orso d’argento nel 2005) è incinta e mostra fiera la sua gravidanza durante gli show televisivi, fino a quando non scopre che il nascituro è affetto da sindrome di down. La storia segue le delicate fasi affrontate da Astrid e il marito all’indomani delle analisi, in un alternarsi di coraggio e smarrimento, desiderio di maternità e frustrazione. Il film mostra un impianto solido e un cast all’altezza, conservando una sobrietà tutta continentale nel trattare un simile argomento. Rimane forse il rimpianto per non aver sfruttato fino in fondo il conflitto tra vita pubblica e privata della protagonista e di aver trattato la vicenda in modo troppo schematico, affermando eccessivamente un intento puramente educativo della pellicola. Resta comunque un lavoro importante, che fa luce su un tema più che mai controverso senza perdere mai il dovuto equilibrio.

Infine abbiamo Fuocoammare, il film italiano in concorso diretto da Gianfranco Rosi, già vincitore a Venezia con Sacro Gra. Il regista nato ad Asmara, Eritrea, sceglie come soggetto l’isola di Lampedusa e i suoi abitanti. Si Torna quindi al racconto di luoghi che non possono permettersi una narrazione: le terre di confine, le zone di transito dove la vita scorre per raggiungere altre mete, forse una casa. Rosi ha passato svariati mesi sull’isola, a stretto contatto coi locali, raccogliendo quotidianamente del materiale che solo in una seconda fase, quella del montaggio, avrebbe assunto una forma meno magmatica. Il suo è un racconto più per immagini che per dialoghi e come afferma lo stesso Rosi, nel suo campo ci si affida sempre al “dio dei documentaristi”, che in un momento qualunque, concede l’inquadratura perfetta. Rosi tende a immergersi nei luoghi che descrive, quasi a mimetizzarsi, fino a scomparire del tutto. Grazie a questo suo modo discreto di porsi in relazione con il’oggetto delle sue inquadrature, il regista riesce a preservare una naturalezza inattesa nei suoi personaggi e a cogliere momenti di fragorosa verità. Rosi ci introduce nelle case degli isolani, mostra la loro paradossale distanza da ciò che avviene sul mare a pochi chilometri dalla loro abitazione, non per una qualche forma di disinteresse, ma per una netta separazione tra Lampedusa e le vicende del suo mare. Il ragazzino Samuele, la nonna Maria e il medico Bartolo offrono i volti di un microcosmo pieno di umanità e autentica generosità, a pochi metri dall’orrore del mare, descritto anch’esso da Rosi con estremo rispetto, senza però indugiare di fronte all’incubo – la scena dei cadaveri ammassati a decine nella stiva – e stabilire infine un contatto con i migranti, fotografandoli in situazioni privi di ammorbante retorica.

La Berlinale 2016 si conferma quindi festival di film necessari, forse non imprescindibili ma essenziali nel portare nuovi contribuiti sui temi di attualità più dibattuti. Potremmo chiamarlo cinema di servizio, ma non renderebbe giustizia a questi registi in grado di distillare in immagini lo spirito del tempo.