Su questo film si era sollevato un polverone già diverso tempo fa. Pareva infatti che Quentin Tarantino avesse deciso di non girarlo dopo che la bozza della sceneggiatura aveva fatto il giro di mezza Hollywood senza la sua autorizzazione.  Trovata pubblicitaria oppure no, l’episodio confermava quanto poco bastasse per accendere nuovamente i riflettori sul lavoro di Tarantino. Che siano di maniera, carichi di rimandi ad altri film, postmoderni o semplicemente eccessivi, le opere del regista di Django contengono sempre un piccolo saggio, un’invettiva o un manifesto sul cinema. Se Pulp Fiction portava alla ribalta un nuovo genere – quello Pulp per l’appunto – e Kill Bill ricordava il debito verso uno sterminato sottobosco di b-movie, ora sembra che la riflessione sia più profonda e riguardi il materiale stesso con cui si fa cinema. Così viene rispolverata la gloriosa tecnica Panavision 70mm, si invita Morricone a scrivere la colonna sonora e si affronta finalmente il mito di Sergio Leone. The Hateful Eight è infatti il primo vero integrale spaghetti western di Tarantino, benché già alcuni elementi fossero presenti nelle sue precedenti pellicole (in particolare Kill Bill e Unglorious Bastards).

In un’allegorica bufera che si abbatte su una terra abbandonata da dio – il film si apre su un misero crocefisso di legno ricoperto di neve – otto uomini si ritrovano a condividere lo spazio desolante di un emporio per ripararsi dalle intemperie. Tutti diffidano di tutti, la mani pronte sulle colt, mentre fuori ulula un vento terribile, quasi un fratello cattivo del vento che soffiava in C’era una volta il West. John Ruth detto il Boia (Kurt Russel) scorta alla forca l’assassina Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) per fare giustizia e riscuotere la taglia di 10.000 dollari.  Bloccati insieme a lui nell’emporio ci sono un altro cacciatore di taglie, il Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), altri signori poco raccomandabili, tra cui il sedicente nuovo sceriffo di Red Rock (Walton Goggins), il boia di professione Osavldo Mobray (Tim Roth), il mandriano Joe Gage (Michael Madsen), il messicano Bob (Demián Bichir) e il generale sudista Sanford Smithers (Bruce Dern). Qualcuno di loro mente e quello che sembrava un rifugio si trasforma ben presto in un teatro degli inganni, dove nulla è come appare. L’impianto da giallo è estremamente classico, e ricorda da vicino Trappola per topi di Agatha Christie: l’isolamento, il sospetto e il cerchio che lentamente si va restringendo sul colpevole.
Tarantino si cimenta nuovamente in un’operazione di “rimpasto” dei generi, una ricombinazione di temi e atmosfere per dimostrare ancora una volta quanto il cinema debba guardare al suo glorioso passato per sperare in un futuro migliore.

Eppure questa volta sembra aver dimenticato le sue stesse lezioni e il film soffre terribilmente di brachicardia e di una certa boria che non ti aspetteresti da una pellicola di Tarantino.
Innanzitutto il ritmo.
Come già detto, il film reinterpreta una serie di temi classici non solo del cinema, ma della fiction in genere. Si pensi solo all’azione in uno spazio chiuso e a modelli del passato cinematografico come L’Angelo sterminatore di Buñuel – storia di ricchi borghesi bloccati misteriosamente in una stanza – o al più recente Carnage di Roman Polański – coppie di genitori che discutono fino a vomitarsi letteralmente addosso – e se pensiamo all’Italia troviamo Io e te di Bertolucci tratto dall’omonimo romanzo di Ammaniti. In questi film “privi di aria”, tutto si basa sul ritmo: battute, mimica e controcampi concorrono a far dimenticare allo spettatore di trovarsi sempre nello stesso luogo, esattamente come accade quando si assiste a uno spettacolo a teatro: perché tutto può essere rappresentato, fuorché la noia. I verbosi personaggi di Tarantino finiscono invece per impantanarsi in pose stucchevoli o girano a vuoto nella stanza come belve incatenate. I loro discorsi sono privi di quell’elemento per cui i dialoghi del regista americano sono famosi e ossessivamente citati: l’ironia. Senza di essa viene a mancare il gioco linguistico, quella fascinazione per la parole che si riduce subito a un ammorbante chiacchiericcio fatto di stralunate sentenze e formule ripetitive. Tarantino insomma si prende troppo sul serio e lo spettatore soffoca in sala, avvertendo tutta la pesantezza dello stallo tra i personaggi. Le uniche boccate di ossigeno sono rappresentate dal racconto del maggiore Warren sulla morte del figlio del generale e un lungo flashback sui fatti avvenuti nelle ore precedenti: non a caso i soli momenti in cui si rompe la maledizione dello spazio chiuso e la linearità della storia viene interrotta.

The Hateful Eight è per molti aspetti una versione western de Le iene, ma senza la medesima cura nel distribuire sufficiente valore e funzione a ciascun personaggio. Soprattutto i ruoli ricoperti da Roth e Madsen deludono le attese, rivelandosi dei meri comprimari. La scena è quasi tutta per Samuel L. Jackson, mattatore in una parte cucita sul suo talento e il suo istrionismo. L’imponente statura del suo personaggio annulla l’effetto di coralità, presumibilmente quello che doveva essere il punto di forza della pellicola (se si pensa anche alla caratura degli attori scelti). Gli odiosi otto finiscono per somigliare più a semplici pedine, figure flat da gioco da tavolo (Cluedo?) e alla fine ci si ricorda più dell’ammontare delle loro taglie che dei loro nomi.

Certo, The Hateful Eight sarà anche un’allegoria dell’America feroce e razzista, disunita al suo interno e con un sadico e perverso senso di giustizia, ma il messaggio giunge fiacco allo spettatore, desideroso unicamente di uscire dall’emporio e respirare l’aria gelida.