Il meticciato, il politico, l’identità, la conoscenza e la sua trascrizione (o trasposizione) in parola, in gesto poetico sono alcuni dei grandi temi che hanno animato la mia lettura delle poesie che Samir Galal Mohamed ha pubblicato nel Dodicesimo quaderno italiano e, di conseguenza, la nostra lunga conversazione a distanza. Se le prospettive singolari, a prima vista, non sempre s’incontrano – e credo sia una dinamica produttiva dell’atto di lettura, anche della lettura “critica” – è pur vero, mi sembra, che le questioni affrontate hanno fatto reagire molto della scrittura poetica di Samir e hanno sollevato in me molti interrogativi sulle possibilità o potenzialità del discorso lirico. Ringrazio perciò Samir per questo intenso dialogo e spero che il lettore possa trovarvi elementi di interesse sia per quanto riguarda i testi che sono oggetto di discussione sia per quel fare poesia che, dopotutto, è la pratica quotidiana del poeta.

Francesco Giusti: È sempre complicato fare la prima domanda, per cui perdonami per la banalità. Si tratta di una mia curiosità (teorica) personale. Sicuramente approfondiremo il discorso nel corso della conversazione. Vorrei iniziare da una questione piuttosto generale per affrontare subito il problema. Personalmente ho sempre avuto un po’ di difficoltà a trasformare un dettaglio biografico in una categoria critica, per questo mi ha colpito molto l’iniziale insistenza di Gian Ruggero Manzoni, nell’introduzione alle tue poesie, su categorie come “voci meticce” e “sangue misto”. Tuttavia, nei versi, tu stesso sembri lavorare su (o da) questa condizione.

Samir Galal Mohamed: Sono d’accordo con te: assimilare interamente un dettaglio biografico, un tratto personale, per quanto caratterizzante, alla produzione, elevando quel tratto a categoria critica, è solo una modalità di classificazione, una fra le tante. Funzionale al discorso identitario, e frutto dell’onnipresente e onnipotente – perdona il ricorso a termini teologici – principio di identità. Specialmente nel discorso critico, il principio di identità è necessario all’altro come strumento di rilevamento e riconoscimento. L’identità, intesa come strumento di identificazione restrittiva attraverso l’esclusione dell’avversità, delle difformità e degli scarti, serve all’altro per poter affermare: “Bene, ora so chi ho davanti, e temo la sua alterità in misura minore”. Tuttavia, vorrei precisare che Gian Ruggero, “imbrigliato” come gli altri prefatori dall’esigenza di brevità imposta dall’antologia, ha colto quei tratti in maniera intelligente e sentita.

C’è da dire che biografia e produzione, in un certo senso e in un certo momento, non possono che venire a coincidere. E il mio è un caso fra i tanti, peraltro neanche così esemplare. «Io è un altro» non è un mio verso, ed è stato scritto quasi un secolo e mezzo fa (A. Rimbaud, Una stagione all’inferno, 1873). Noi siamo alterità, siamo meticci. Per quanto mi riguarda, ho approfondito e sviluppato la tematica perché, fra le altre, permette di riflettere su moltissimi aspetti del vivente, sia sotto il profilo individuale che sociale; permette l’apertura alla riflessione antropologica, filosofica, psicoanalitica, sociologica, scientifica ecc. E, ovviamente, alla riflessione letteraria.

In breve: sì, la tematica mi è cara in quanto voce meticcia, ma il mio essere meticcio non ha nulla di straordinario rispetto al tuo essere meticcio. Semplicemente, il mio essere meticcio è maggiormente attestato ed evidenziato, documentato, nell’ordine dei tanti discorsi.

Mi sembra che nell’indubbia vena “civile” della tua poesia (torneremo, immagino, sulla questione), tu scelga di indagare la condizione (anche) nell’ambito ristretto dei legami familiari per poi però utilizzare la prospettiva poetica che ne deriva come punto di vista più generale. Insomma che tu faccia del meticciato una posizione da cui muovere una critica alla realtà e non immediatamente proporre una prospettiva “politica” sulla realtà. È davvero così che stanno le cose? E, soprattutto, il “meticcio” è soltanto il prodotto umano di culture diverse o nasconde qualcosa di più?

Mi trovi d’accordo anche su questo, anche se, occorre precisare che assumendo il «meticciato [come] posizione da cui muovere una critica alla realtà», consegue la proposta di una prospettiva politica sulla realtà. In termini grossolani, se per civile intendiamo poesia politica, allora ogni poesia è poesia civile, perché ogni poesia è politica. Che io stia scrivendo di un paesaggio, di un amore o di un qualsiasi altro oggetto, sto, ancora inevitabilmente, offrendo una mia (limitatissima) interpretazione del mondo o del vivente. In questo, per esempio, la prospettiva sartriana mi pare ancora stimolante: con ogni mia immagine dell’uomo, cioè con ogni immagine dell’uomo che realizzo, io non realizzo solo una mia immagine, ma l’immagine dell’uomo nella sua totalità (contestualizzata, ovviamente). L’essere umano è così, di volta in volta e per sempre, essere particolare e “universale”. Quindi, quando classifichiamo i prodotti culturali, nel nostro caso la poesia in base alla categoria “civile”, occorre ricordare che, in realtà, essa rappresenta una sorta di macrocategoria e che le altre non sono che sue sottocategorie particolari. Ma ripeto, le categorie rispondono unicamente all’esigenza identitaria. E il pensiero meticcio, che non è pensiero della separazione, cioè della classificazione, ma del divenire, è avverso – per così dire – all’identità pensata in questi termini, cioè nei termini di un pensare che “tace” o “minimizza” il fatto che il fenomeno di cui tentiamo di rendere conto si trasforma. Per il principio identitario, ora io sono solo il poeta di sangue misto, ora solo il più giovane poeta del Quaderno… insomma, sono tutta la serie di salde definizioni che di volta in volta mi vengono costituite o erette intorno.

Il pensiero meticcio è precisamente la condizione umana (il suo essere al mondo, il suo linguaggio, la sua continua interazione, la sua storia). Come scrive François Laplantine, non è qualcosa di accidentale, di circostanziale, ma qualcosa di costitutivo. Il meticciato non è né pappa omogeneizzata (avrebbe detto Furio Jesi), né fusione oppure osmosi; è confronto, è dialogo, è inter-locuzione. È, in ambito antropologico, ciò che la perversione polimorfa è in ambito psicoanalitico. «Transitorio, imperfetto, incompiuto, insoddisfatto, il meticciato rimanda sempre all’avventura di una migrazione, alle trasformazioni di un’attività di tessitura e di un intreccio che non può arrestarsi» (F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, Elèuthera, Milano 2006, ed. or. 1997). Infine, il meticciato non va rivendicato, non è un’istanza alla quale fare appello, è una disposizione e, in quanto tale, va compresa con consapevolezza. E soprattutto, non è un principio ermeneutico. E con questa ultima affermazione, siamo di nuovo daccapo!

Certo, ogni poesia è “politica” in senso generale. Io però vorrei portare nella nostra conversazione una distinzione tra una posizione critica della voce poetica e una sua eventuale posizione politica. Quest’ultima da intendersi nel senso di sistema ideologico o, più precisamente, nella prospettiva di una comunità organizzata o da organizzare. La tua poesia mi sembra che incarni, o lotti per incarnare, una forma di resistenza pre-politica proprio nel senso di non politicamente organizzata (forse non ancora, forse mai). Una domanda fondamentale, infatti, mi pare essere: «dov’è la mia comunità?». In questa prospettiva, continuare a esistere e a parlare vuol dire in qualche modo “resistere” singolarmente senza pacificazioni o riparazioni possibili. Conciliazioni impossibili non perché non cercate ma perché impossibili da immaginare. Allora la pratica del soggetto coincide con il sollevare «insaziabili obiezioni» con la «splendente umiliazione / di due imploranti occhi».

Superare la questione “politica” – cioè civile – con tanta facilità potrebbe però corrispondere a un atteggiamento non propriamente critico, se mi è permesso sollevare un’altra insaziabile obiezione. Posizione critica e posizione politica si sovrappongono e anzi, per chi legge sarebbe più agevole presentare i due termini sotto la stessa veste. Una posizione critica che può definirsi tale offre una prospettiva politica; una posizione di discernimento e di controllo offre, inevitabilmente, una posizione costituiva – penso alla lettura che Toni Negri offre di Spinoza – e costruttiva, perché quest’ultima è racchiusa all’interno della prima. Quando poi ci si addentra nel terreno dell’ideologico, la confusione, unita a un portamento di presunta infallibilità intellettuale, non permette di sciogliere nemmeno i nodi più grossolani. Forme di resistenza pre-politiche in senso stretto non ce ne sono. Possiamo, se preferisci, parlare di forme di resistenza pre-partitiche o apartitiche, ma non possiamo formulare espressioni con la forma che suggerisci. A causa dell’assimilazione tra politico e partito, oppure tra politico e organizzazione, siamo persuasi a stipulare l’ennesimo principio di identità, così una qualsiasi forma di politica autonoma, indipendente o individuale, viene male intesa, intesa cioè con il prefisso, appunto, di anticipazione, ovvero con qualcosa che associamo al primordiale, all’origine. Da questa prima erronea interpretazione si passa all’altra, ancor più errata, prospettiva: il ricorso al primordiale, all’originale, che in sé contiene necessariamente, in nuce se vogliamo, un’istanza reazionaria.

La mia posizione, nella sua limitatezza ed esigua efficacia, è progettuale e non può che essere tale; ed è appena abbozzata all’interno del testo al quale fai riferimento (A. C., C., M. e N.). Questa poesia mostra in maniera esemplare, cioè esemplificativa, la difficoltà nel costituire, o conseguire, una posizione unitaria, omogenea, non contraddittoria. La vicenda dalla quale prendo le mosse è nota: l’arresto (e l’accusa di terrorismo, a oggi mitigata) di quattro militanti NoTav. In questi modestissimi versi, credo sia sintetizzata (non vuole essere un giudizio di valore poetico) anche una nevrosi comune a molti, cioè quella provocata dall’estrema ammirazione per militanti di fatto da un lato e, dall’altro, l’atteggiamento di distanza ed estraneità da quel contingente. La costante contraddittorietà del vivente, in definitiva.

Resistere sembra coincidere con il sacrificio continuo di sé, subìto almeno quanto coltivato. Il che non vuol dire avere un sé già pronto da sacrificare, ma piuttosto che il sé è in quel sacrificio. Un sacrificio anche fisico, corporeo, che ricorda la “crocifissione” pasoliniana. È impressionante quanto in questa serie di testi ricorra un vocabolario mistico o religioso: sacrificio, annunciazione, eucaristia, rosari, carità, preghiera, crocifissione, grazia, ortodossia, «Dio o chi per lui», dogma, martirio, confessione, unzione, resurrezione, escatologia, peccato, contemplazione. Il lessico religioso, soprattutto nei suoi riferimenti al corpo, si mescola poi con quelli della filosofia, della politica e dell’economia. Mi sembra che il lessico mistico-religioso possa servire a rendere la profondità psicologica e fisica dello scontro, nel soggetto singolare, tra forze impossibili da conciliare. L’io-mente e l’io-corpo non possono più compiere scelte decise, figuriamoci assumere identità definite. La ferita, insomma, resta aperta e continua a sanguinare. È questo che la poesia può fare? È questo che deve fare?

La poesia è un formidabile “strumento” per comprendere il mondo, sia per chi scrive che per chi legge, sia per chi scrive intorno a essa. Strumento inteso, se preferisci, come tecnica, una tecnica ben codificata e a oggi riproposta, in sostanza, con poche variazioni – dal sottoscritto incluso. La poesia è parte della produzione culturale, e i suoi prodotti sono sottoposti, come nel caso dell’arte visiva, a quel processo di verifica e di legittimazione che può condurre all’affermazione del poeta o alla sua esclusione dal quel determinato mondo. È vero, è una definizione circolare, ma è praticamente impossibile ripercorrere l’itinerario a ritroso per comprendere esattamente questa inesplicabile e inaccessibile différance. Per questa ragione è altrettanto difficile rispondere al quesito che mi sottoponi: che cosa dovrebbe fare la poesia? La poesia contemporanea, sola, non può niente: essa “vive” di relazioni, di contesti, di climi differenti e irriducibili.

Quello che ora penso è che la poesia da scrivere non si differenzi molto dalla ricerca scientifica: quali questioni approfondire, quali da affrontare, quali da privilegiare, dove convogliare le risorse? E ancora: cosa sarà censurato o, peggio, oscurato? Nella maggior parte dei casi, purtroppo con poca consapevolezza, questi sono tutti interrogativi che vengono sollevati e poi affrontati in maniera collettiva, con l’apporto di tutta la comunità poetica, per così dire. La tendenza dominante, però, e non solo in poesia, sembra ancora quella dell’attesa: l’attesa dell’annunciazione. E questo, per concludere, a me non pare un atteggiamento propriamente critico.

La distinzione che proponevo tra posizione critica e posizione politica non voleva affatto superare la questione “politica”, anche se naturalmente capisco la difficoltà e la potenziale problematicità del separare i due momenti. La distinzione voleva piuttosto introdurre un momento “etico” della singolarità in (continua) formazione – pre-sociale o, più precisamente, sempre sulla soglia di accesso al sociale – su cui, eventualmente, ripensare proprio il “politico” come comunità organizzata. E, soprattutto, l’intenzione era capire se la poesia lirica possa collocarsi su questo piano – e l’io in questa particolare posizione – piuttosto che sul piano direttamente e apertamente politico o civile. Mi sembra che sia proprio su questo piano di mai esaurita e mai conclusa performance – di esercizio dell’errare – che si possa mostrare e indagare proprio, riprendendo le tue parole, «la difficoltà nel costituire, o conseguire, una posizione unitaria, omogenea, non contraddittoria». Tale distinzione non credo abbia a che fare, per fortuna aggiungerei, né con l’origine né con l’originale. Più che altro, potrebbe essere utile a capire se c’è un qualcosa che il discorso lirico, nella sua specificità, è chiamato culturalmente a fare oppure se, secondo te, quel che si porta avanti nei versi si potrebbe benissimo svolgere in qualsiasi altro tipo di discorso in quanto produzione culturale. La poesia, per te, è sempre già sociale o meglio socializzata? Nella tua poesia non c’è il movimento di un “dissentire” sempre individuale o, più precisamente, singolare?

Proverò a chiarire ulteriormente quanto espresso sopra: ciò che intendevo mostrare è che l’assunzione di alcune forme nel politico, le forme sulle quali ci stiamo interrogando, quelle dell’autonomia e dell’indipendenza, per esempio, o caso limite, dell’individualità, spesso se male intese danno luogo a interpretazioni che chiamano in causa forze primordiali, istinti ancestrali, energie originali e via discorrendo – nel mio caso, si è parlato da un lato di “animalità africana” e, dall’altro, di una sorta di disgiunzione da qualsiasi tessuto sociale, di una altrettanto congetturata individualità estrema. Quali che siano queste letture, e se colgono o meno tratti che pur sono riscontrabili nei miei versi, il punto, com’è ovvio, è un altro: intraprendere un atteggiamento critico, assumere una determinata forma del politico in poesia, constatando ed esprimendo la difficoltà dell’allineamento pieno a una comunità (con un sentire in comune) pone più facilmente le condizioni per “traduzioni” strumentali (nell’ordine del discorso) formulate secondo alcune categorie chiuse. Queste categorie, di fatto, sono utilizzate con il preciso scopo, più o meno consapevole, di ribaltare o ridurre lo spettro della suddetta posizione, posizione dallo spettro, di nuovo, polimorfo e polisemantico. Cogli il nodo della questione quando scrivi «[…] performance – di esercizio dell’errare […]», sapendo bene che l’errare è un tema caro per entrambi.

Il rapporto fra poesia (singola poesia, singolo poeta) e produzione culturale (collettiva) non è, evidentemente, unilaterale, e anzi non parlerei nemmeno di rapporto, quanto di intreccio indistricabile. Apparentemente di difficile soluzione, il quesito – «la poesia è sempre socializzata?» – non può porsi. Le due prospettive, per così dire, non possono che essere pensate come integranti l’una con l’altra, l’una nell’altra. Riguardo al dissentire, invece, direi che quanto più un’istanza è singolare, tanto più la stessa sarà dissidente – se per singolare facciamo riferimento alle sue molteplici accezioni. Capire poi se la dissidenza in sé è sempre auspicabile è questione che affronteremo in altra sede, o forse no.

Nei tuoi versi si nota un tendenza per cui l’io si contrappone “culturalmente”, anche in momenti di maggiore intimità, a un qualche altro: «tu dall’incarnato borghese» – «io dal cuore speziato»; «i tuoi vandalici baci» – «le mie labbra corinzie» (c’è un ribaltamento?); e, in fondo, «In me c’è il disordine» – «fuori il silenzio della produzione». Questa costante contrapposizione è forse sottesa da un desiderio di unità, da un desiderio per quel «coito originale» che è stato «interrotto»? Un Tutto che è stato poi falsamente sostituito, sembra di capire, da costruzioni umane come «Dio/Stato/Famiglia”… La contrapposizione che l’io sente non sembra però riuscire a trasformarsi in reale, aperta “opposizione”. Questa lotta (forse quasi edipica) sempre mancata (o sempre perduta) produce soggetti deboli, moderati, medi, in una sorta di progressiva degenerazione?

«Poeta ultimo della sua generazione, ultima generazione di poeti, la sua»: ti va di commentare brevemente questa auto-definizione (?) che segue proprio la dichiarazione “io non ho collocazione”?

Quando scrivo che la rivoluzione è identitaria non faccio altro che interrogarmi su quanto anch’essa, la rivoluzione, che riteniamo del tutto estranea a dinamiche di accettazione e di rifiuto tipiche di situazioni sociali più restrittive e coercitive, preveda un doppio riconoscimento. C’è quello da parte del singolo che anela ad aderire, poniamo, a un movimento, e c’è quello del movimento stesso (nelle sue componenti sovraindividuali) che stabilisce se il soggetto è conforme alle posizioni. Questo accade sia per quel che riguarda i circoli più esclusivi, sia per quanto concerne i movimenti di massa. Ma non è certo una scoperta che posso attribuirmi; credo solo che spesso dimentichiamo le equivalenze rintracciabili in poli enormemente distanti fra loro. Tornando al testo, e sintetizzando: se non si possiede collocazione, poiché la personalità risulta opaca, un’accettazione sarà inammissibile.

Ora, le modalità di accesso alla poesia, di scrittura e di divulgazione, quindi le possibilità di costituzione di percorsi autonomi e differenziati, sono oggi incredibilmente maggiori ed eterogenee rispetto a quelle che si prospettavano ai poeti di qualche generazione fa – anche in questo caso non scopro nulla, è evidente. Probabilmente, le dinamiche di adesione/accettazione così come le abbiamo conosciute andranno man mano dissolvendosi, oppure, evitando qualsiasi enunciato altamente profetico, sempre più configurandosi con modalità non riconducibili a quelle del passato recente. Poeta ultimo? Puoi leggere come preferisci: sia ultimo quel poeta per ordine di arrivo sulla scena, quindi ultimo nel senso di appena emerso dal e nel panorama; sia quel poeta ultimo in ordine di rilevanza su quella stessa scena. Il senso ultimo/emergente, nel testo, ne implica un altro: l’ultimo come il conclusivo, il risolutivo. Ma questa lettura rimane aperta solo per chi abbia poca dimestichezza con un pensare che non sia idealistico/teleologico – lettura che del resto non mi sono preoccupato di fugare, in quanto non ritengo necessaria ai fini della comprensione di un mio testo poetico (ripeto: un mio testo), un’esegesi completa o peggio ancora definitiva. Mi auspico inoltre che la mia poesia, che è sì politica nel senso che abbiamo approfondito insieme, non ti dica come pensare.

La tua poesia, ormai è ben chiaro, mostra una notevole consapevolezza metapoetica e l’io si rappresenta come poeta. Ben due testi, infatti, iniziano con la parola ‘poesia’: E così la poesia si costituisce… e La poesia è un umanismo… L’incertezza identitaria del soggetto sembra legarsi (anche) a una evidente necessità di definire il proprio “strumento”, di chiarire e chiarirsi cosa sia o possa essere la poesia. Poco prima hai detto che la poesia è un “formidabile ‘strumento’ per comprendere il mondo”; nella prima delle due poesie appena nominate dichiari che la poesia si costituisce come «atto di grazia eversivo». La poesia serve a capire il mondo oppure è una possibile azione nel mondo? Non mi riferisco qui all’efficacia “reale” dei suoi tentativi, una questione di cui si è discusso anche troppo, quanto alle sue intenzioni costitutive come specifico uso della parola.

Come ho ripetutamente sottolineato, fra le tante possibilità che si delineano, la poesia può essere un formidabile strumento per comprendere e, a un tempo, configurarsi come attività riconducibile alla dimensione dell’otium. Le definizioni, come chiarivo poc’anzi, illuminano limitate porzioni di ciò che stiamo investigando. Ricercare una definizione stringente e definitiva per la poesia è impresa velleitaria – o, molto più semplicemente, credo non sia la priorità di questa intervista. Alla domanda «cosa dovrebbe fare la poesia, oggi?» occorre anzitutto porre l’accento su quell’oggi, riflettere cioè sul contesto nel quale la produzione poetica si dispiega. E se rifletto su quel senso oggi, rispondo che, al momento, la poesia costituisce, fra i tanti, uno strumento eccezionalmente potente per comprendere il mondo. Non faccio riferimento a una sorta di ermeneutica gadameriana che, in sostanza, mira a restituire alle “scienze dello spirito” uno statuto che permette attraverso l’arte, la poesia ecc. di accedere alla verità – in sé nozione profondamente problematica – al pari, o meglio, costituendo un percorso altrettanto percorribile quanto quello delle scienze naturali. Il mio riferimento è al “potere” cognitivo del dar luogo a risvolti di interesse collettivo in qualche modo osservabili, come la riflessione critica sviluppata in seguito a una particolare ricerca linguistica o, viceversa, una riflessione che ponga le condizioni per una nuova ricerca espressiva; la portata di un dibattito fra poeti ecc. Credo che questa concezione abbia più a che fare con il potenziale cognitivo dell’arte (mi torna alla mente Goodman; 1968), aspetto che mi pare articolare e accompagnare tanto un processo di scrittura quanto l’elaborazione di un’opera cosiddetta concettuale. Il verso che riporti, invece, mette in evidenza un altro tratto caratterizzante della poesia e, in particolar modo, dell’attività del poeta: la sua carica eversiva. Banalmente, un atto di grazia, sia esso inteso come aggraziato, cioè connotato da grazia, sia nel suo significare perdono, consiste in un’azione che difficilmente si traspone in un gesto violento – e questo, a mio parere, non corrisponde a un qualcosa di liminale. Oltre alla più immediata ricezione del senso con-grazia, o aggraziato, il gesto poetico, nella sua potenza produttiva, rifugge prontamente la violenza per ritrarsi e a un tempo aprirsi nel perdono, che non è altro dall’interlocuzione, dal momento nel quale, attraverso questa grazia, scelgo di incontrarti e di non violentarti.

L’atto poetico-produttivo ha anche a che fare con la canalizzazione delle nevrosi e, in generale, dei disturbi del profondo. Per esempio, seguendo quanto espresso da Jung in merito, scopriamo la “funzionalità” del gesto creativo nella pratica terapeutica. Di fatto, Jung suggeriva ai suoi pazienti di dipingere, scolpire, scrivere… insomma, indicava nel gesto poetico una vera e propria cura di sé. Oppure: penso alla celebre (e controversa) intervista rilasciata da Heidegger allo «Spiegel» nel 1966 (ora in M. Heidegger, Scritti politici, 1988) nella quale la poesia, seppur riconosciuta come un sorta di potere, quindi potenzialmente incontrollabile, è contraddistinta in definitiva dall’assenza di violenza.

Ma è con fatica che incasello le definizioni estrapolate dai miei testi poetici o cerco di far aderire quelle di altri alla mia poesia: non sono un poeta sistematico, se così si può dire, e appunto, sono consapevole del fatto che conducendo il pensiero – in questo caso il verso – alle sue ultime conseguenze, esso può degenerare in antonimie (K. Jaspers, 1981; L.V. Arena, 2000). Tanto più che in poesia – e i miei testi non fanno eccezione – sono mescolati, e in quantità sempre diverse, in soluzioni sempre nuove, l’oscuro e l’evidente. Il «chiarire e chiarirsi cosa sia o possa essere» non risponde a un’esigenza meramente classificatoria, ma alla volontà di ricerca. Ed è proprio da questa ricerca, che complica e problematizza giorno per giorno il “dato acquisito”, che si costituisce la (mia) poesia. Oltre la distinzione classica, resa celebre da Marx, fra l’interpretazione del mondo e la modifica dello stesso, penso, in breve, che ogni momento di comprensione corrisponda a una sorta di azione sul mondo, che la comprensione sia anche agente, perché in ogni momento di comprensione io modifico il mondo. La comprensione, in un certo senso, modifica i limiti del mio mondo e del mondo; riconfigurando quei limiti ho agito cioè sul mio mondo e, al contempo, – questo credo possa far vacillare la ripartizione sopraesposta – ho agito – e qui sta la proposta – nel mondo.


 

quaderno di poesia

 

Qui si possono leggere le altre puntate del ciclo dedicato ai poeti del Quaderno di poesia Marcos y Marcos:

Tommaso Di Dio, Il crollo e il canto – per il XII Quaderno di poesia

Alessandro Giammei, Fingendo te – Intervista a Maddalena Bergamin

Alberto Comparini, La sabbia e il fuoco – Intervista a Maria Borio

Claudia Crocco, Eliminare l’assoluto? – Intervista a Lorenzo Carlucci

Daniele Visentini, Lo spazio bianco che viene dopo  Intervista a Marco Corsi

Michel Cattaneo, Ridursi al silenzio mai  Intervista a Diego Conticello

Fabrizio Miliucci, Sempre un poco diverso – Intervista ad Alessandro De Santis

Immagine di copertina. Notary @Jean-Michel Basquiat, 1983.