Il professore Clayton Christensen, nel 1995, scrisse un articolo economico intitolato Disruptive Technologies: Catching the Wave. In questo lavoro si descrivevano due modelli di sviluppo contrapposti, che distinguevano due ben distinte tipologie di aziende. Le prime, operanti in mercati maturi, preferiscono focalizzarsi su sustaining innovations, innovazioni incrementali.  Per questo motivo si procede aggiornando i prodotti, introducendo funzionalità aggiuntive o migliorandone alcuni attributi affinché il cliente possa percepire una variazione di valore. In modo diametralmente opposto, le disruptive innovations introducono un’insieme di funzionalità completamente nuove e spesso lontane da quelle richieste e valutate dal mercato. Innovazioni di questo tipo portano ad una ridefinizione del prodotto, servizio o modello di business.

Vi chiederete cosa c’entri tutto questo con True detective.

Se applichiamo questi studi alle serie televisive, si potrebbe affermare che il modello seguito dalle serie televisive fino a oggi sia stato quasi quello della sustaining innovation: l’impianto narrativo deve essere immediatamente riconoscibile, i punti forti del programma vanno consolidati, il grado massimo di libertà concessa è l’eliminazione di qualche personaggio cardine, ma solo per sfruttare l’effetto sorpresa e mantenere alta la tensione dello spettatore. Sono in fondo poche le regole fondamentali per il successo di una serie televisiva, riassumibili forse in unico potente mantra: dai al pubblico ciò che vuole, possibilmente in dosi massicce e costanti. In un’epoca dove l’indice di ascolto è ormai uno strumento parziale e obsoleto, e ogni episodio viene recensito e passato ai raggi x da una comunità perennemente connessa e molto esigente, nessun showrunner può credersi  in salvo. Nel sovraffollamento del palinsesto, la lotta è feroce, qualunque serie può subire il taglio da un momento all’altro o ricevere graduali declassamenti di messa in onda, fino alla definitiva cancellazione. Nel tritacarne televisivo ci finiscono spesso produzioni di alto livello artistico e tecnico; ultima vittima illustre è Hannibal, forse meritevole di maggior attenzione.
C’è chi però sceglie di intraprendere un’altra strada per non soccombere nell’arena: Nick Pizzolatto con il suo True detective. Dopo una prima stagione sorprendente, divenuta instant cult e principale fenomeno televisivo del 2014, lo showrunner cambia tutto, seguendo una logica nuova: la disruptive innovation, per l’appunto. Niente più Louisiana con le sue atmosfere stregonesche, niente più Rusty Cole e il suo oscuro filosofeggiare. Dal mondo delle paludi e dei riti ancestrali si passa a una cupa Los Angeles e a sordidi giochi di potere. Cresce il numero di co-protagonisti (da due a quattro) e cambia persino regia (dall’ottimo Cary Fukunaga a una moltitudine di professionisti, tra cui Justin Lin). La scelta degli interpreti cade su tre attori conosciuti al pubblico per generi e atmosfere a dir poco lontane dal tono della serie di Pizzolatto. Vince Vaughn è principalmente un commediante, Rachel McAdams la fidanzatina d’america, Taylor Kitsch ha girato più che altro film d’azione o b-movie. Solo Colin Farrell può vantare partecipazioni a noir o thriller, ma il suo “riposizionamento” è forse ancora più radicale: da sex symbol irlandese a flaccido poliziotto corrotto con qualche problema di troppo. Pizzolatto non conserva quasi nulla della prima serie, tranne l’elementare impianto narrativo: l’intera vicenda ruota nuovamente attorno ad un unico misterioso caso di omicidio. Archetipo di tutte le serie televisive basate sull’indagini di un unico enigmatico delitto, resta il capolavoro di David Lynch: Twin Peaks. Il fatto di cronaca è catalizzatore e allo stesso tempo propulsore di tutte le azioni, rappresentando la chiave per disvelare mali più antichi  e porre i personaggi di fronte alle loro fragilità ed errori. Dopo essersi ispirato ai film di Michael Mann e a Touch of Evil di Orson Welles per la prima stagione, Pizzolatto sembra dunque cambiare rotta e attingere a piene mani dal mondo di Lynch. E i segnali sono dappertutto.

Driving in LA

Un  macchina scura che percorre lenta la Mulholland Drive di notte: questo l’esordio dell’omonimo film di David Lynch. Ciò che accadrà a quella macchina e al suo passeggero daranno inizio a una serie inquietante di situazioni più o meno assurde. Allo stesso modo, nella seconda stagione di True detective, è un’auto simile a trasportare un misterioso passeggero e a mettere in moto l’azione. Non può essere un caso, del resto, che la cinepresa insista su un primo piano del cartello stradale con la scritta “Mulholland dr”. Per non parlare ovviamente della maschera di corvo nera poggiata sul sedile del passeggero: un elemento che ci getta improvvisamente nel mondo inquietante di Lynch.

Il nemico invisibile

Frank Semyon, il personaggio interpretato da Vince Vaughn, è un gangster che ha saputo “ripulire” le proprie attività e ora controlla i più importanti traffici della città di Vinci. Si presenta allo spettatore come un uomo giunto all’apice del successo, proprietario di un’enorme villa e in compagnia di una splendida moglie. Ed ecco che tutto precipita. L’affare in cui ha investito fino all’ultimo centesimo, il lasciapassare per un nuovo status,  sfuma a causa della morte del consigliere comunale che aveva corrotto. Il suo impero si sgretola rapidamente, lo spettro della povertà si fa subito minaccioso. Qualcuno lo vuole fare fuori, ma l’avversario non si vede, trama nell’ombra e vanifica ogni mossa di Frank per recuperare terreno. Questo personaggio ricorda per certi aspetti l’Adam Kesher di Mulholland drive: regista di successo alle prese con i provini per il suo nuovo film, si ritrova a un tratto in disgrazia, al centro di un turbine di eventi incontrollabili che lo conducono sull’orlo della pazzia. Entrambi i personaggi sono in lotta con forze misteriose e inafferrabili, intente a demolire ogni loro certezza – per espiare forse antiche colpe?

I sogni son desideri

L’equazione sogno/desiderio è il massimo del Lynchianesimo. Il regista del Missoula basa gran parte dei suoi film sul legame tra proiezioni mentali, realtà e il loro confondersi in un’unica indistinguibile trama. Anche true detective ricorre al sogno per condensare paure e pulsioni dei personaggi, utilizzando una sintassi visiva che deve molto a pellicole come Strade perdute o di nuovo Twin Peaks. L’inizio del terzo episodio, che si apre con il sogno/purgatorio del detective Velcoro, è quasi una citazione dall’episodio sette della seconda stagione della serie cult degli anni novanta, dove l’apparizione di un gigante mette in allerta Cooper su un nuovo imminente delitto.

Fabbriche e rumori

Fin dal suo primo film, The Eraserhead, Lynch ha mostrato una predilezione per le ambientazioni industriali, le superfici in ferro, il fango, i cieli plumbei e inquinati. La sua passione per questi risvolti tragici di una certa urbanizzazione sregolata ha portato il regista a studi approfonditi sull’estetica di questi luoghi insalubri e privi di calore, che hanno dato vita a mostre fotografiche di enorme successo in tutto il mondo. Vinci, la città di fantasia, teatro delle vicende della seconda stagione di True detective, ricorda un cantiere a cielo aperto, percezione sottolineata da una fotografia che predilige i toni freddi e tende a uniformare i volumi in unico irrisolvibile groviglio.

I rimandi sarebbero ancora molti, dalla comparsa di un registratore vocale a cui Velcoro affida i messaggi per il figlio (in Twin Peaks è un oggetto-feticcio per l’agente Dale Cooper) ai dialoghi non sempre verosimili, punto su cui i fan della serie si dividono tra incantati decrittatori di misteriosi significati, e disorientati con il mal di testa.

Nick Pizzolatto, con questa seconda stagione rischia tutto, puntando su un nuovo modello di serialità, basato unicamente sull’autorevolezza della scrittura, a prescindere dal successo di personaggi e scenari. Sarà il tempo (o meglio i fan) a giudicare la qualità  del progetto, che resta uno dei tentativi più significativi di portare l’esperienza televisiva a un nuovo livello.