Prima di iniziare a girare, l’intento di un regista è quello di creare qualcosa di bello. Non appena giungono le prime complicazioni, è costretto a ridurre le sue ambizioni, augurandosi solamente di finire il film. Verso la metà dell’opera, fa un esame di coscienza e comprende che avrebbe potuto lavorare meglio, ma può ancora riscattarsi, rendendo più vivo ciò che si vedrà sullo schermo. Così la pensava François Truffaut, nel suo lavoro più metafilmico La nuit americaine (Effetto notte nella traduzione italiana), da cui Nanni Moretti, per il suo Mia madre, pare aver tratto più di uno spunto. Entrambe le storie ruotano attorno alla travagliata realizzazione di un film, in un intrecciarsi caotico di vita e rappresentazione. L’apertura delle due pellicole è identica: sono in atto le riprese di un piano sequenza e il regista interrompe l’azione per dare maggiori indicazioni ad attori e tecnici. Se nel caso del film francese abbiamo lo stesso Truffaut a dirigere il film nel film, in Mia madre Moretti affida a Margherita Buy il ruolo di suo alter ego, rendendola però più simile a un Ken Loach nostrano, alle prese con l’ennesima opera di denuncia sociale. Il regista romano si ritaglia invece un piccolo ruolo, quello di fratello della protagonista, neutro, comprensivo e un po’ categorico: il manifesto del nuovo cinema morettiano.

Margherita è una donna in pieno disordine privato e creativo. Il suo film sulle ingiustizie dei licenziamenti in massa nelle industrie pesanti, non sembra prendere la strada giusta, tra incomprensioni tecniche e poca chiarezza su ciò che si vorrebbe realmente comunicare. La sua vita intanto non procede meglio, tra la fine di una relazione, una figlia adolescente e le condizioni di salute della madre, sempre più gravi. Moretti torna quindi ad analizzare, per la terza volta, il conflitto tra dimensione intima e pubblica: ne Il Caimano, ancora un regista (Silvio Orlando) tentava il riscatto di una vita di insuccessi personali e artistici, girando un impossibile film sul fenomeno più pop in assoluto, le vicende di Silvio Berlusconi, mentre in Habemus Papam, il neoeletto pontefice si scopriva incapace di sostenere il peso dell’intera comunità di credenti.  Mia madre è un film sull’impossibilità di una visione universale nel momento in cui si lotta ogni giorno per tenere insieme i cocci di una singola esistenza. Margherita Buy interpreta disinvolta un ruolo essenzialmente alla Buy, ovvero di donna in crisi, tesa e intensissima nei primi piani, che sono tutto uno sbatter d’occhi grandi e liquidi. A farle da spalla, oltre al già citato Moretti nel ruolo di premuroso fratello, troviamo John Turturro, nei panni di Barry Haggins, una star del cinema americano spaccona e con seri problemi di memoria, chiamato a coprire una parte importante nel film di Margherita.  Il suo è decisamente il personaggio meno convenzionale del film: comico e istrionico, tenta di introdurre un ingrediente nuovo in una ricetta cinematografica piuttosto usurata.

Il linguaggio visivo adottato da Moretti ricorda quello di una fiction a puntate della Rai, con una fotografia scialba e soluzioni sceniche sempre molto timide. Il problema di questa pellicola sembra risiedere proprio in una stilizzazione eccessiva, persino nelle sequenze oniriche, inutilmente didascaliche, fin quasi pedagogiche, come nel caso della conferenza stampa, dove un’invadente voice over ci descrive i pensieri della protagonista: quasi a voler offrire, una volta per tutte, l’unica e sola chiave per interpretare il film. Margherita dice di non sopportare la retorica, eppure è proprio di questo mezzo che si fa largo uso nella pellicola. La madre e la sua agonia, vengono del resto esposti utilizzando facili meccanismi atti a suscitare superficiale e immediata empatia, sufficienti per portarsi a casa una catarsi a buon mercato. Troppa perfezione in questa figura di donna al termine della sua vita, in grado ancora di dare lezioni di latino (la buona e classica cultura) alla nipote un po’ discola, ma sempre affettuosa. Se scende una lacrima alla fine del film è solo perché facciamo parte dello stesso consorzio, quello umano, e detestiamo la morte; piangiamo quindi in risposta a uno stimolo fisico, più che razionale, incapace di lasciare una vera traccia nella nostra coscienza.

Per comprendere meglio la differenza tra semplice retorica del dolore e la sua potente evocazione, si può confrontare Mia madre con l’ultimo film di Haneke, Amour. Anche in questo caso assistiamo all’inesorabile spegnersi di una vita e all’impotenza di chi resta, ma la sintassi utilizzata è completamente diversa. Il dolore dell’ottantenne George per la terribile malattia che sta consumando la compagna di una vita, è un inferno sordo e senza speranza, che il regista austriaco restituisce in tutta la sua forma di calvario senza dio e redenzione. Lo spettatore giunge al termine della visione privo di lacrime, ma scavato in profondità dall’insondabile mistero di amore e morte. In Moretti resta, invece, solo una passiva accettazione dei fatti, per di più edulcorati e resi digeribili nella confezione di un raffinato melò. Non resta traccia del regista dalla voce unica nel panorama italiano, che denunciava la solitudine dell’individuo nella spersonalizzata e disgregata nuova società italiana o che urlava a D’Alema di dire qualcosa di sinistra. Resta solo un innocuo cineasta, che forse, come diceva Truffaut, partiva con grandi ambizioni, ma ha dovuto, nel corso della lavorazione, ridimensionarle, fino a perdere l’intero senso dell’opera.

Mia madre (Italia, Francia, Germania 2015, Drammatico 106′) di Nanni Moretti. Con Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini