Dopo aver finito Cade la terra di Carmen Pellegrino mi è successa una cosa che non mi capita spesso: sono rimasto senza parole. Durante la lettura mi ero riproposto di scriverne un articolo perché il libro mi stava piacendo davvero molto, ma come l’ho chiuso sono rimasto completamente spiazzato. Mi era piaciuto, non trovavo grossi difetti ma non capivo qual era il punto cruciale.

Per più di un mese ci ho pensato senza però cogliere il punto, cosa mi ha colpito? Cosa mi è piaciuto di questo libro? Tant’è che consigliavo la lettura agli amici più che altro nella speranza che me lo spiegassero. Non mi era sfuggito di cosa parlasse ma non capivo qual era l’aspetto che mi colpiva: che alla fine la gente muore e le umane vestigia scompaiono sotto le ingiurie del tempo lo sappiamo tutti (anche se qualcuno fa poi finta di nulla).

Ma andiamo con ordine. Per poter parlare di questo libro premessa indispensabile è sottolineare la capacità linguistica dimostrata dall’autrice. Carmen Pellegrino esercita la sua cultura linguistica per creare una parola poetica che non diventi però mai stucchevole o impervia. Insomma, una lingua letteraria come Dio comanda che accanto alla forma compiuta e curata del testo e alle modalità di trattamento della materia narrativa non può non dar ragione al parere di Di Consoli riportato in risvolto: «Cade la terra è tassello romanzesco importante della grande letteratura meridionale novecentesca. Che venga pubblicato ora, in altro secolo, è solo la dimostrazione che gli orologi non sempre indicano l’ora esatta.» (Non son gran che d’accordo sull’etichetta meridionale ma molto su quella novecentesca).

Ma di cosa parla Cade la terra? Il romanzo si svolge ad Alento, paesino ormai abbandonato dagli abitanti a causa di una lenta frana (luogo inventato ma assimilabile a tanti altri paesi vuoti visitati dall’abbandonologa). Estella, ultima abitante del paesino, si aggrappa con tutte le forze al passato e alle case nel tentativo di mantenere vivo il paese e soprattutto le storie degli abitanti morti che stanno franando con esso. All’inizio libro Estella arriva in paese con un vestito da suora di cui viene spogliata, una spogliazione che è quasi una fusione con il paese o quantomeno l’investitura di una missione. Così tramite la cocciuta presenza della protagonista veniamo trascinati nelle storie degli abitanti del paese, come in un’italiana Spoon River Anthology. Proprio in quest’ottica l’attenzione alla parola dell’autrice diventa fondamentale, perché le sue capacità stilistiche sono indispensabili per dar una voce insieme credibile e letteraria a questi antichi morti. Grazie al disperato attaccamento di Estella a un mondo perduto e grazie alla lingua dell’autrice queste anime parlano ancora e il libro riesce a dar voce a chi voce non ne ha più.

Dopo queste considerazioni, alla fine, a capire cosa di questo libro mi abbia davvero smosso mi ha aiutato l’incontro casuale con un brano di A pesca nelle pozze più profonde di Paolo Cognetti:

Ogni scrittore lo sa: anche le vite più disperate esigono testimoni. Ed esigono ospiti le case. Perché, fino a quando qualcuno si ricorda che è esistita, una casa che non c’è più non è come uno spazio vergine, di nuovo integro e pacificato. Assomiglia piuttosto a una tomba: chi avrebbe il coraggio di costruirci sopra? Prima bisogna che la terra la ricopra, spariscano quelli che l’hanno vista e anche quelli che ne hanno sentito parlare, nella memoria resti un nome di cui nessuno sa il significato, infine venga cancellato anche quello.

Ecco il punto doloroso: quando poi muori, i tuoi parenti muoiono, i tuoi compaesani si trasferiscono, la tua storia viene dimenticata, la tua casa cade, cosa rimane? Quanto durerà l’infierire del tempo sulle cose che lasci e quanto le persone e le loro vite persisteranno?

Questo libro affronta a viso aperto questa domanda senza nostalgia o pietismi, con un approccio degno della migliore tradizione poetica italiana. Ma soprattutto a colpirmi è stato come intellettualmente accarezzi la tentazione di tenere al mondo ciò che non deve più esserci, sfiorando il peccato di Hýbris, sovvertendo le regole della natura o quantomeno non arrendendosi ad esse. Una strada impossibile, destinata a perdere e sotto molti punti di vista colpevole, ma anche una tentazione fortissima.

Quello di Carmen Pellegrino diventa un racconto poetico, espressione di vero amore non verso persone o paesi specifici ma verso l’umanità. Verso ciò che è più umano dell’umanità. Un tenero sguardo e un tentativo di conservazione, per quanto consapevolmente impossibile, del passato e delle sue tracce.

pellegrinoNon è un libro triste, per niente, è un libro pieno di vita che cerca di raccogliere l’idea stessa di umanità (che dovrebbe essere l’oggetto principale di indagine della letteratura). Le case, i borghi, le strade, gli arredi, gli oggetti sono tutti pezzi di vita; e noi non possiamo che rimanerne affascinati proprio perché sono fatti della stessa materia di cui siamo fatti noi più di quanto non potrà mai essere un monumento o un sepolcro. E non stiamo parlando di un interesse morboso, tutt’altro, a infastidire è la verità che sta dietro a tutto ciò. Le vite, le preziose storie di vita vissuta passano come passiamo noi e come passano le nostre case ma non per questo dovremmo rimanere indifferenti a questo passaggio.

Per chiudere questa riflessione, vorrei solo aggiungere un punto di domanda al verso finale di Autunno di Rilke, poesia da cui prende il titolo Cade la terra:

Eppure esiste un Essere benigno
immensamente, che nelle sue mani
tiene questo cadere senza fine. (?)