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di Paolo Caloni

Accomunati da una linea interpretativa condivisa, studiosi di diverse discipline indagano alcuni concetti ritenuti essenziali per comprendere il nostro tempo. Il libro Genealogie del presente propone un lessico ragionato della politica odierna non limitandosi a descrivere per mezzo di lenti concettuali il mondo, ma rispondendo all’esigenza di proporre «strumenti di comprensione che siano al contempo strumenti di lotta» (p. 10) finalizzati all’organizzazione del «lato dei governati in un fronte antagonista reticolare, decentrato» (p. 10). L’intenzione degli autori è rivolta a spostare l’attenzione sulla dimensione performativa delle parole, indagando le storie – sempre contingenti – di cui si compongono. Il fine è di ripercorrere lo sviluppo genealogico, nel senso formulato da Foucault: riscoprire la frammentarietà dei sensi che compongono i concetti e riportare «lo strumentario oggi dominante alle circostanze contingenti della sua “emergenza”» (p. 13), mostrando come ciò che oggi appare stabile, fossilizzato, determinato in un significato apparentemente chiaro e concluso, sia in realtà il prodotto di contrasti, scarti e deviazioni che, nel tempo, il potere ha disciplinato funzionalmente a se stesso. Il senso politico dell’impresa teorica è apertamente dichiarato: fare genealogia è un gesto politico. Se il lessico politico attuale – per fare degli esempi Democrazia, Governabilità, Movimento, Popolo, Trasparenza – è funzionale alla retorica della dominazione, allora far riemergere le storie tormentate di tali parole d’ordine, significa sottrarsi alla disciplina che impongono e criticare l’apparente disordine che la loro vacuità comanda. È infatti necessario decostruire la confusione (p. 9), riscoprirla come instrumentum regni, riattivando le sedimentazioni di senso che essa oblia.

Per la natura composita e la ricchezza contenutistica del libro, in questa sede è impossibile sottoporlo a un esame minuzioso ed esauriente: i singoli saggi sono assai densi di riflessioni e di analisi, lo stile degli autori è compatto e teso, e di primaria importanza è la loro capacità di suscitare pensieri di repulsione o di assenso. Pur impegnando nella lettura, il Lessico appassiona la mente. Le formulazioni spesso perentorie, le molte analisi controcorrente ben argomentate (ad esempio una assai ambigua, a mio parere, difesa delle occupazioni abusive) e i frequenti riferimenti all’attualità più immediata spronano a prendere posizione e a interrogarsi radicalmente su alcuni aspetti del mondo in cui viviamo. Basta poi un rapido confronto con le quotidiane cronache del dibattito pubblico per rendersi conto della pochezza desolante che diffonde.

Un’esemplificazione efficace di tale ricchezza è data dalla meditazione sul concetto di Crisi – uno dei termini più ossessivamente ripetuti degli ultimi anni – che, grazie ai numerosi riferimenti classici e biblici, appare particolarmente dotta. L’intenzione dell’autore Federico Zappino è di mostrare come l’immissione nel dibattito pubblico di un concetto di ‘crisi’ completamente svuotato del proprio senso possa essere utilizzato per perpetuare la condizione debitrice – dal punto di vista economico e psichico – delle soggettività. Nel lemma dedicato alla Società, scritto da Maurizio Ricciardi, invece, si sottolinea come sia possibile giungere al «feticismo della società» (p. 229). La formula riflette, infatti, l’imposizione allo sguardo critico di problemi e lotte che riguardano un ordine già stabilito e unitario della società, implicando dunque l’oscuramento dei modi della sua produzione

magdaIn Costituzione, di Adalgiso Amendola, è molto articolata l’analisi dei processi di decostituzionalizzazione potenziati dalle nuove soggettività dei movimenti sociali, capaci, quest’ultimi, di ridisegnare la tradizionale mediazione costituzionale fra Stato e società. Il saggio si lega fortemente a quello dedicato alla Legalità (redatto da Ugo Mattei e Michele Spanò) nel quale, dopo una disamina del rapporto critico fra legalità e legittimità, con particolare riferimento alle teorie capitali di Carl Schmitt, s’intravede la possibilità di discutere una Costituzione sganciata dalla forma statuale, che si presenti quindi europea e post-coloniale, con una netta predilezione per la categoria di “comune”. Questo concetto è ampiamente analizzato nel saggio d’apertura Bene comune, scritto da Maria Rosaria Marella, nel quale i beni comuni sono concepiti come «l’esito di pratiche di resistenza alle politiche neoliberali» (p. 26) al di là dell’opposizione fra pubblico e privato al fine di instaurare spazi interstiziali che siano di resistenza e di costruzione.

Risulta significativamente votato alla filosofia il denso saggio vergato da Bruna Giacomini dedicato alla Responsabilità, che invita a ripensare il rapporto con l’Altro da sé sulla base di una «comune e insuperabile estraneità» (p. 206). La responsabilità, assunta in una prospettiva orizzontale e non gerarchica, basata sulle dissomiglianze, mostrerebbe il proprio accadere gratuito nella sovrabbondanza del proprio impegno nei confronti degli altri (mondo animale compreso).

Il saggio dedicato al Futuro è particolarmente brillante. Ripercorrendo la storia delle teorie queer (nelle varianti sociali, anti-sociali e affettive), l’autore Lorenzo Bernini si sofferma sulla loro intenzionalità non riproduttiva, inspirata dalla volontà di «sperimentazione di nuove forme di vita e all’edificazione di nuove comunità» (p. 262). Così, il rifiuto della sessualità riproduttiva – dunque dell’accrescimento e della sopravvivenza della specie umana – acquisisce connotati escatologici: «l’Apocalisse degli abietti è possibile già ora» (p. 263), poiché all’ipocrita attesa dell’avvenire (delle generazioni future) che condanna alla funzionalizzazione (ri)produttiva del piacere e della vita, si esalta una disincantata e felice adesione ad un presente già redento.

L’impostazione genealogica, nettissima nelle formulazioni del preludio e realizzata con logica intransigente nelle pagine degli interessanti saggi, porta con sé alcune criticità interne che non intaccano il significato politico del testo, ma che ne inficiano l’universalità. La critica più ovvia è che l’indagine genealogica non riflette (in questo caso) su se stessa. Un esempio chiaro può essere riscontrato nel saggio di Cristina Morini dedicato alla Precarietà, nel quale si tenta di descrivere le connessioni stabilite fra precarietà lavorativa e precarietà esistenziale. L’autrice sostiene che «l’esistenza di un dualismo nel mercato del lavoro, tra iper-garantiti e iper-precari, è “ideologica”» (p. 180) poiché inscindibile dall’organizzazione capitalista del lavoro che la genera. Questo tipo di affermazione, a mio parere, può essere criticata sotto due versanti, fra loro complementari: innanzitutto credo si sovrapponga una situazione particolare, quella italiana, a un’ipotetica condizione universale. Nel contesto italiano il dualismo è presente ma non è determinato (solo) dall’ideologia capitalista quanto piuttosto da una storia politico-economica particolare, non trasferibile in altri contesti. La seconda critica è che la posizione della contrapposizione fra precari e garantiti come ideologica mi appare altrettanto ideologica: per motivi strutturali-teorici non esplicitati, si scambia una situazione di fatto per una situazione necessaria oltreché insolubile.

Tuttavia non ci si può sottrarre dalla considerazione che gli stessi strumenti ermeneutici possano essere considerati, tramite un’ipotetica indagine genealogica, altrettanto disciplinanti e disciplinati di ciò che essi vanno a esplorare. Se i concetti hanno una storia travagliata, anche l’orizzonte culturale ed epistemologico a partire da cui li si critica è contingente e passibile dello stesso trattamento. Per questo motivo credo che parole cariche di storia e di significati, ampiamente utilizzate lungo tutti i saggi, come (de-)territorializzazione, conflitto, lotta di classe, (de-)soggettivizzazione, neocapitalismo (insieme alle sue mille variazioni di comodo: un nemico vituperato ma mai appreso nel pensiero) ed altra terminologia la cui origine è chiaramente connotata, andrebbero anch’esse riviste per testarne le effettive potenzialità critiche. Tra l’altro sorprende l’assenza di un termine “Diritti”, spesso evocato ma senza approfondimenti specifici, che potrebbe rappresentare uno strumento particolarmente efficace per riconoscere e comprendere alcune delle trasformazioni in atto nel mondo.

Inoltre, concludendo, è condivisibile intendere l’essenziale disordine delle parole d’oggi come un fattore funzionale alla logica del dominio, ma non penso che tale funzionalizzazione sia necessariamente frutto di un «costante processo di degradazione» (p. 15), di svuotamento ad ogni riutilizzo. Quest’affermazione racchiude un evidente giudizio di valore e implica, alludendovi, la presunzione di poter indicare o recuperare il significato corretto e non degradato delle parole. Il senso delle parole evolve, nuove accezioni si accumulano, i significati si sedimentano e interagiscono, alcune diventano dominanti altre rimangono ai margini: l’indagine genealogica è uno strumento euristico potentissimo proprio per riportare alla luce la non-ovvietà dei concetti, ma non credo che abbia fra i propri obbiettivi l’indicazione di una purezza semantica da riscoprire o da raggiungere. In fondo, volendo forzare un po’ la mano, la storia dei concetti è sempre la storia carsica delle loro degradazioni, variazioni, incomprensioni e oscuramenti.

Una domanda mi è nata spontanea dopo la lettura di Genealogie del presente, una domanda tanto banale quanto sempre essenziale: quale forma di libertà ci è rimasta? Sotto la presa ferrea della biopolitica, del biocapitalismo cognitivo, del dispotismo della confusione, in un mondo in apparenza dominato dalla logica strangolatrice del capitalismo post-fordista, oggi, in fondo, cosa ci è rimasto? Forse la possibilità di porci il problema della libertà come “ciò che resta”; forse una libertà intesa come “comune” sottrazione: insomma, altre ideologie.