Tabucchi 4

di Damiano Sinfonico

Gli itinerari possono assumere forme imprevedibili, i ritrovamenti apparire incerti, i saluti un addio costante. Il romanzo postumo di Antonio Tabucchi ci regala un viaggio alla ricerca di un personaggio femminile perso nel passato salazarista del Portogallo, una figura fatta di ombre più che di luci, misteriosa e affascinante. La ricerca del narratore-protagonista avanza per circoli, addentrandosi sempre più verso l’oggetto del suo cercare, il centro da cui si sono dipartiti tutti i cerchi percorsi. Nove avvolgimenti, come un mandala tibetano, come quello magnifico che appare nella copertina del libro. Nove stazioni anche, tra i luoghi cari a Tabucchi (il suo paese d’adozione) e altri più esotici; nove incontri con interlocutori che accendono una luce su quel personaggio scomparso e aggiungono, traccia dopo traccia, i tasselli di un percorso.

Il concatenarsi dei nove cerchi allinea sul filo della memoria eventi e personaggi che a ogni passaggio raccontano qualcosa di Isabel e rimandano all’interlocutore successivo. Tra un capitolo e l’altro il passaggio è netto, ma lo sfumare della memoria connota queste segnalazioni come inattese e libranti sul vuoto. Ogni personaggio è in bilico se rivelare o meno il suo successore, ha i ricordi annebbiati e può dare solo informazioni sfocate: di solito un mestiere, una via, un locale, indizi che aiutino il protagonista a non interrompere la sua staffetta. I cerchi di volta in volta si restringono, per arrivare all’ultimo nome, quello ricercato: una volta trovato quello, il mandala si dissolve, come una struttura di sostegno che ha assolto la sua funzione. Arrivare in fondo al libro significa, per l’autore e per il narratore-protagonista e per il lettore, trovare il nome dopo il quale non ce ne sono altri, esaurire il racconto, escludere la possibilità di ripercorrere a ritroso tutti i nove cerchi. Toccato il centro, i cerchi intorno si vanificano, diventano un passato già direzionato verso quel punto, orientato, assimilato a una freccia che mirava al bersaglio.

I dialoghi del protagonista con i suoi interlocutori assomigliano a quelli delle cornici delle Città invisibili di Calvino: due voci perfette che si accordano, proiettano punti di vista sul mondo, affabulano e immaginano le vicende degli imperi, riflettono sugli archi di pietre e sull’entità del nulla, cercano la pianta ideale delle città e la inseguono scartando sogni, ricordi, avventure, desideri. Venezia è il punto di partenza di Marco Polo, la città che gli è rimasta nel cuore, quella che lui insegue nelle sue galoppate, ricerca e si ostina a ritrovare ogni volta che varca le mura di altri nuclei urbani. Lo sa bene Kublai Khan, che Marco Polo non ha mai parlato di quella perché nasconde un mistero. Le altre città sono solo uno schermo per poter continuare a parlare di Venezia: la città da non afferrare, da non rinchiudere una volta per sempre in un giro di parole, sopravvive se si ripete e si dirama nelle numerose altre città descritte dal viaggiatore. In fondo ai suoi viaggi, Venezia è la città ultima e indicibile, dopo la quale tutte le altre si esauriscono. Isabel è qualcosa di simile nel romanzo di Tabucchi: l’inchiesta del protagonista costeggia numerosi personaggi per carpire qualcosa di lei, l’ultima che dovrà incontrare e dopo la quale il viaggio avrà trovato il suo termine.

Per IsabelScrittura e cerchi si sviluppano in due direzioni contrastanti: all’andamento orizzontale e progressivo della prima, si sovrappone l’andamento verticale, spiraliforme, ritornante dei secondi. Se il primo movimento è quello della prosa, il secondo è quello dei versi: i nove capitoli del romanzo si strutturano con passaggi iterativi: il ritorno a capo, la ripetizione degli stessi accenti e delle stesse sillabe, la chiusura con la rima, sono qui declinati nella ritornante formula di: incontro casuale con una persona / conversazione con l’interlocutore designato a proposito di Isabel / rinvio all’interlocutore successivo / congedo. Alla fine di ogni movimento il protagonista si ritrova a ripetere le stesse stazioni, solo slittate in un cerchio più interno, più vicino al suo centro. La ricerca progredisce avanzando sul filo della scrittura e incurvandosi nei cerchi, il protagonista si muove tra un tempo lineare e il suo riavvolgimento. I due movimenti si compongono con scioltezza, come la “doppia vettorialità” di cui parlava Barthes, nelle Variazioni sulla scrittura, a proposito di un’antica scrittura siriaca che si scriveva verticalmente e si leggeva orizzontalmente.

Il narratore-protagonista è investito da questo doppio. Innanzitutto è un traduttore, capovolge le parole nella sua lingua natale; è anche un poeta, conosce bene l’andare a capo, il susseguirsi dei versi attorno a un unico centro, l’ignoto a cui lo conducono; inoltre è uno straniero, un polacco in Portogallo; infine porta il cognome di un poeta dell’ottocento, Slowacki, come se ne fosse l’ombra. In ognuna di queste identità il protagonista ripete la forma della linea e del circolo, perché avanza e ritorna indietro: nella sua vicenda è già inscritto il movimento della sua ricerca, la sua identità è conforme al suo percorso. Quando gli viene chiesto se sia un giornalista, risponde: «niente di più lontano». La sua indagine non si esaurisce con lo svelamento di alcuni fatti, non segue progressivamente una catena di indizi che permettano di ricomporre una vicenda, non ha per obiettivo la ricostruzione di una biografia o di un incidente politico: la sua indagine va oltre, attraversa diversi circoli per avvicinarsi a un centro, si piega nel ricordo e si scontra con l’intangibile lontananza di una donna, vuole accogliere la pienezza di un’esistenza e non la cronachistica linearità biografica. La sua ricerca non appartiene al tempo dei quotidiani, ma si dilata nel tempo della memoria; si lascia trasportare dalle emozioni di una sonata, ammutolisce di fronte a una fotografia, paragona la poesia ai liquori.

Le notizie su Isabel si accumulano con piccoli dettagli rivelati, ma lei può anche svanire nella memoria di un veggente. Il suo scivolamento nell’indistinto cresce man mano che il protagonista le si avvicina, i cerchi che la stringono si fanno sempre più soffici, volatili. «Forse c’è una Isabel nella mia poesia, o nei miei pensieri, il che è lo stesso, ma se è nella mia poesia e nei miei pensieri è un’ombra che appartiene alla letteratura, perché lei vuole cercare un’ombra che appartiene alla letteratura? Forse per renderla reale, risposi io flebilmente, per dare un senso alla sua vita e al mio riposo». Nei pensieri dell’interlocutore oppiomane non c’è Isabel, ma una Isabel, qualcosa che le è affine; l’indagine del protagonista assomiglia alla ricerca del poeta, entrambi sono mossi da uno stesso motore e inseguono delle tracce. Ma nel frattempo Isabel vive nell’informe mondo che sta tra la vita e la letteratura, ha qualcosa dell’una e dell’altra, è reale e nello stesso tempo sfuggente, fisica e nello stesso tempo si è fatta ricordo. L’ora e l’allora, il reale e l’onirico, il mondo e la letteratura si incrociano perché non hanno confini stabili; il protagonista riesce ad attraversarli inseguendo la doppia vettorialità lineare e circolare. «I punti cardinali possono essere infiniti o inesistenti come in un cerchio», afferma Lise, quando la narrazione è già giunta all’ottavo cerchio: la discesa verso il centro comporta la progressiva liberazione da coordinate precedenti, solo in questo passaggio è possibile l’incontro e l’attraversamento di confini ritenuti rigidi.

Una considerazione non marginale meriterebbe la Nota che racconta la vicenda romanzesca del libro: pronto già nel 1996, affidato a un’amica, richiesto nell’estate del 2011, vede la luce un anno e mezzo dopo la morte del suo autore. Dopo quindici anni Tabucchi forse aveva intuito che sarebbe stato il suo ultimo libro: con questo toccava il centro dopo il quale non c’era più altro da scrivere. Forse, si potrebbe ipotizzare, aveva raggiunto la meta di ogni scrittore: comporre il libro che per tutta la vita avrebbe voluto scrivere. E nello stesso tempo, ne rimandava la pubblicazione perché, forse, non voleva dare per esaurita la sua ricerca. Il suo mandala è certamente un dono postumo di cui noi lettori godremo ampiamente, assumendo quel centro ritrovato come un nuovo punto di partenza, in memoria di uno scrittore autentico.

Antonio Tabucchi, Per Isabel. Un mandala, Feltrinelli, Milano, 2013, pp. 121, € 13