© Gregori Daz

© Gregori Daz

di Davide Zanini

Berlin di Lou Reed è, come il precedentemente analizzato The Wall, un importantissimo concept album degli anni Settanta a cui sono particolarmente legato. Il disco in questione venne pubblicato nel 1973, a un solo anno di distanza dal suo fortunatissimo predecessore Transformer. I due album non potrebbero essere più diversi: se Transformer è una sfavillante raccolta di coloratissimi pezzi glam rock (intendiamoci: si tratta di un lavoro straordinario, non certo di un dischetto banale e frivolo), Berlin è un cupo e impegnativo concept dalle atmosfere tutt’altro che leggere e spensierate. Questo scarto tra i due lp condizionò profondamente la ricezione di Berlin, all’epoca fiasco commerciale stroncato dalla critica (Rolling Stone parlò di «fine di una promettente carriera», rivedendo però il proprio – ben poco lungimirante! – giudizio soltanto pochi mesi dopo).

Il disco è caratterizzato da sontuosi arrangiamenti orchestrali (talvolta un tantino pesanti), con archi e fiati in bella mostra; ma ciò che più lo contraddistingue, a livello di tono e di atmosfera generale, è senz’altro la storia che racconta.

Jim e Caroline, coppia di tossicomani americani, si trasferiscono a Berlino, dove conducono una vita misera e degradata all’insegna di droghe, prostituzione, liti e incomprensioni che sfociano nella violenza domestica, delusioni e depressioni che portano al suicidio (quello finale di Caroline). Una storia quindi triste e tragica, circondata da un alone nichilista e decadente, che al tempo stesso risulta però essere assolutamente credibile, mai patetica e raccontata con il tipico, crudo e disincantato, realismo di Lou Reed (lui stesso, all’uscita del disco, aveva parlato di «una storia realistica, di gente degli anni Settanta, che esiste e che non è particolarmente squilibrata o degenerata»).

Nelle prime cinque tracce (su un totale di dieci), che – significativamente – sono anche quelle più orecchiabili e dotate di maggior appeal radiofonico, prevale la descrizione di ambienti (Berlin) e personaggi (Lady Day, Caroline Says I) o trovano spazio le riflessioni di Jim (Men of Good Fortune, How Do You Think It Feels); la seconda metà del disco invece, a partire dal sesto brano Oh, Jim, assume un taglio più narrativo, corrispondente al precipitare degli eventi verso la tragedia. Accompagnati da sonorità prevalentemente acustiche e da arrangiamenti più “sobri” e diretti, veniamo così a sapere di come a Caroline venga sottratta la custodia dei propri figli (The Kids) e di come lei decida infine di suicidarsi, tagliandosi le vene dei polsi (The Bed).

Il disco si conclude con l’orchestrale Sad Song, cinico epitaffio di Jim – sorta di alter ego dello stesso Reed – che rifiuta di attribuirsi colpe per il tragico destino della compagna, decidendo di non pensare più a quanto accaduto («Smetterò di sprecare il mio tempo [a ripensarci], qualcun altro le avrebbe rotto entrambe le braccia»).

La canzone su cui vorrei spendere alcune parole è Caroline Says II, settima traccia dell’album, quindi parte integrante di quella drammatica seconda “facciata” in cui gli eventi precipitano verso la tragedia finale.

Musicalmente si tratta di una bellissima ballata, dolce e malinconica, dalla toccante melodia, retta da chitarre acustiche e dal piano, impreziosita dalla presenza discreta ed elegante degli archi.

A livello lirico, nel brano si alternano le parole di Caroline a una sua descrizione fornita da un “narratore”, che potrebbe essere lo stesso Jim. E proprio a Jim (o meglio: contro di lui) sono rivolte le parole di Caroline, quello che «Caroline dice»; si tratta fondamentalmente di uno sfogo, di accuse rivolte al suo uomo, della presa d’atto della fine della loro relazione («Puoi picchiarmi quanto vuoi, ma non ti amo più») e dell’espressione dell’amarezza per una situazione divenuta ormai insostenibile («La vita dovrebbe essere più di questo – e questo è un brutto viaggio»).

Quando non è la stessa Caroline a parlare, di lei ci viene suggerito il carattere freddo e algido («Tutti i suoi amici la chiamano Alaska») – concetto espresso più volte da Jim nel corso del disco –, e raccontata la sua dipendenza dalla droghe, nonché il suo essere circondata da persone che non la capiscono («Quando prende lo speed, [i suoi amici] ridono e le chiedono/ Cosa c’è nella sua mente»).

Oltre a delineare una situazione drammatica, plumbea e ormai priva di speranze, il brano contiene anche un paio di “indizi” che fanno intuire l’imminente tragica fine che attende Caroline. Ci viene infatti riferito che «Ha dato un pugno al vetro della finestra»: pensandoci, le conseguenze di un gesto simile non sono poi molto diverse dal tagliarsi le vene dei polsi (questo resta comunque un mio azzardo interpretativo, probabilmente un po’ forzato). Un altro lugubre presagio è dato dal verso finale, ripetuto tre volte in chiusura della canzone: quel «Fa così freddo in Alaska» non può che ricordarci il soprannome della stessa Caroline, che è appunto “Alaska”; qui quel freddo non è più riferito al suo carattere algido e distaccato, ma diviene quello – tragicamente concreto – di una vita prossima a spegnersi, di un corpo ormai cinto dal gelido abbraccio della morte.

PS Per quel poco (o più probabilmente nulla) che può valere, questo piccolo articolo è dedicato alla memoria di Lou Reed (2 marzo 1942 – 27 ottobre 2013).

RIP Lou, ci mancherai.

Caroline says – as she gets up off the floor
Why is it that you beat me – it isn’t any fun

Caroline says – as she makes up her eye
You ought to learn more about yourself – think more than just I.

But she’s not afraid to die
All her friends call her Alaska
When she takes speed, they laugh and ask her
What is in her mind, what is in her mind.

Caroline says – as she gets up from the floor
You can hit me all you want to, but I don’t love you anymore
Caroline says – while biting her lip
Life is meant to be more than this – and this is a bum trip.

But she’s not afraid to die
All her friends call her Alaska
When she takes speed, they laugh and ask her
What is in her mind, what is in her mind.

She put her fist through the window pane
It was such a funny feeling

It’s so cold in Alaska.

It’s so cold in Alaska.

It’s so cold in Alaska.