Vinili

di Davide Saini

Riflettendo su quante cose collaborino alla crescita (linguistica, emotiva, psicologica…) e alla creazione di una vita culturale mi sono trovato a pensare a tantissimi libri, tanti film, mostre, spettacoli teatrali ma anche, e per niente in maniera secondaria, tantissime canzoni. Tra questi mezzi così differenti, la musica è forse la più capricciosa e la più difficilmente afferrabile e quindi quella che più facilmente si nasconde a fondo.

Da questa riflessione è nata l’idea di una rubrica che, tramite degli spunti che potremmo definire a campione (bene o male a caso), riproponga alcune canzoni italiane a rischio dimenticanza e che invece fanno parte della “nostra” cultura.

In tutto ciò cercherò di non fare un discorso puramente soggettivo, (posso immaginare quanto interesse crei leggere il revival delle canzoni della mia adolescenza) anche se naturalmente non potrò che partire dalle mie basi, dalle mie conoscenze e dai miei gusti ma cercando di selezionare, pur pescando sempre un po’ inevitabilmente a casaccio.

È, quindi, una rubrica che parte dalla speranza di far riscoprire qualche canzone che ben si conosce ma non si ascolta da tanto tempo, di ricordare l’esistenza di qualche altra dispersa nella memoria, di farne scoprire qualcuna mai sentita, e soprattutto di dare degli stimoli ai lettori.

Per chi non ha interesse, pazienza o tempo di leggere i miei tediosi commenti alle canzoni potrà essere comunque un’idea di playlist, per altri potrà essere un modo per cavare qualche spunto di riflessione in più dalle canzoni e confrontarsi con il percepito di qualcun altro  (le canzoni più di ogni cosa vengono vissute in maniera del tutto soggettiva). Ogni pezzo di questa proposta, lontano dal pensare di essere univoco o esaustivo, richiede i commenti dei lettori, i loro ricordi le loro idee.

Ho iniziato delimitando il campo a un’area che potremmo definire “Cantautori e musica italiana d’annata”, e sono partito da Francesco Guccini.

Francesco Guccini – Canzone quasi d’amore

Quinta e penultima traccia dell’album Via Paolo Fabbri 43 (1976) che deve il proprio titolo all’indirizzo dove viveva Francesco Guccini in quel periodo a Bologna. Si tratta di una canzone d’amore abortita che finisce per deviare e diventare un monologo, cantato in prima persona, sulla vita: appunto una Canzone quasi d’amore.

Il testo sembra nascere da un tentativo disperato di arrivare a una comunicazione sincera, un tentativo che parte dal non voler “cercare parole che non trovo” né dirti “cose vecchie con il vestito nuovo”, per poter invece toccare il vero punto dell’esistenza, il vuoto che al solito si ha di dentro, la ricerca del senso della vita tutta, rivendicando fortemente l’appartenenza a una stessa umanità “perché siam tutti uguali…”.

È una ribellione ai cliché della canzone d’amore, in cui si aggira l’argomento concentrandosi invece sulla lingua e sui termini del vivere comune. Questo tentativo di cercare una comunicazione onesta e diretta sembra scontrarsi con un’impossibilità; così la canzone vira nell’invettiva (come altre nello stesso album), ma un’invettiva che si dimostra subito mesta contro la vita “stretta come dita dei piedi”, un’invettiva che si dirige verso la noia e verso l’obbligo di scendere a compromessi con la vita, di fingere “d’aver capito che vivere è incontrarsi, aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare, bere, leggere, amare… grattarsi!” Una canzone realistica e dolorosa, che sembra mostrare l’altro lato della medaglia dell’estremismo ironico e lucido de L’avvelenata.

In Canzone quasi d’amore a risaltare è il dolore e la difficoltà nel non poter comprendere né comunicare il senso della vita, il dolore di essere consapevole di essere un goffo tacchino ma non aver altra scelta se non provare a volare. La fatica di tirare avanti la vita e di scendere a compromessi.

O almeno così è come l’ho sempre interpretata io, che non pretende di essere il modo corretto.

Non starò più a cercare parole che non trovo
per dirti cose vecchie con il vestito nuovo,
per raccontarti il vuoto che, al solito, ho di dentro
e partorire il topo vivendo sui ricordi, giocando coi miei giorni, col tempo…

O forse vuoi che dica che ho i capelli più corti
o che per le mie navi son quasi chiusi i porti;
io parlo sempre tanto, ma non ho ancora fedi,
non voglio menar vanto di me o della mia vita costretta come dita dei piedi…

Queste cose le sai perché siam tutti uguali
e moriamo ogni giorno dei medesimi mali,
perché siam tutti soli ed è nostro destino
tentare goffi voli d’ azione o di parola,
volando come vola il tacchino…

Non posso farci niente e tu puoi fare meno,
sono vecchio d’ orgoglio, mi commuove il tuo seno
e di questa parola io quasi mi vergogno,
ma c’è una vita sola, non ne sprechiamo niente in tributi alla gente o al sogno…

Le sere sono uguali, ma ogni sera è diversa
e quasi non ti accorgi dell’energia dispersa
a ricercare i visi che ti han dimenticato
vestendo abiti lisi, buoni ad ogni evenienza, inseguendo la scienza o il peccato…

Tutto questo lo sai e sai dove comincia
la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia
perché siam tutti uguali, siamo cattivi e buoni
e abbiam gli stessi mali, siamo vigliacchi e fieri,
saggi, falsi, sinceri… coglioni!

Ma dove te ne andrai? Ma dove sei già andata?
Ti dono, se vorrai, questa noia già usata:
tienila in mia memoria, ma non è un capitale,
ti accorgerai da sola, nemmeno dopo tanto, che la noia di un altro non vale…

D’altra parte, lo vedi, scrivo ancora canzoni
e pago la mia casa, pago le mie illusioni,
fingo d’aver capito che vivere è incontrarsi,
aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare,
bere, leggere, amare… grattarsi!