Esattamente due anni fa mi trovai ad ascoltare la storia breve del referendum cileno del 1988 direttamente dalla voce di Antonio Skármeta, che aveva riservato per le persone che erano lì ad assistere l’anteprima di quello che sarebbe diventato I giorni dell’arcobaleno.

Con la dolcezza e il sorriso che gli sono soliti, Skármeta raccontava allora, e ritrovo oggi, “il referendum più folle della storia dell’umanità”.

Quindici anni dopo il colpo di stato dell’11 settembre 1973 con il quale fu rovesciato il governo cileno di Allende ad opera della giunta militare, il generale Pinochet decide di indire un referendum per dare un tocco democratico alla propria dittatura, per legittimarsi agli occhi del mondo, concedendo all’opposizione, pochi giorni prima del voto, la possibilità di svolgere una campagna elettorale in favore del No alla quale veniva riservato un quarto d’ora al giorno di trasmissione all’interno di una pubblica informazione oramai completamente monopolizzata dalla dittatura.

15 minuti per cambiare 15 anni, avrebbe potuto essere lo slogan.

È la storia che entra nella storia. La storia intrecciata di Nicodemo Santos, giovane studente amante del teatro di Shakespeare e innamorato della fidanzata “un po’ hippyPatricia Bettini; del padre di Nico, professore di filosofia, promulgatore di etica (“Secondo papà ciò che conta è l’Etica: cosa fare con l’Essere”), che viene portato via dagli uomini senza nome in un giorno di scuola; di Adrian Bettini, di sua moglie Magdalena e del loro coraggio (“Ci ho pensato a lungo. Grazie, ministro, ma non accetto”. “Per ragioni etiche?”. “Per ragioni etiche, signore”.); del popolo cileno non più indeciso, che temerariamente dice No.

È la storia dell’ombra di Pinochet che è riuscito ad insidiarsi, insediandosi in ogni giornata del suo popolo, ad appiattirne le menti, a scolorirne i tratti; allo stesso tempo, diventa la storia del suo paradosso, che fa da sfondo alle vicende precipitose dei giorni che precedono la campagna e ne diventa parte inscindibile.

Sembra impossibile il compito del pubblicitario Bettini, incaricato della creazione della campagna del No, ma consapevole della difficoltà che anche il solo tentativo di vittoria comporta. Basta guardarsi intorno per le strade di Santiago per capire che arduo sarà convincere gli indecisi a dire No a Pinochet e Sì alla liberta… come convincere un popolo in bilico che rischia di perdere la propria identità e al quale hanno schiacciato la speranza?: “Quel pomeriggio Adrian Bettini andò in centro. In quel miscuglio di impiegati di banca, commessi di negozi, dirigenti, segretarie super truccate, vertiginose minigonne che attiravano gli sguardi insistenti degli uomini, credeva di cogliere l’essenza di una comunità distrutta dalla violenza”.

Ma a fronte dell’apatia, del lasciarsi andare e della rinuncia, si scorge ancora quello che era stato il Cile degli anni di Allende e soprattutto il Cile sopravvissuto e tenace dei successivi anni delle brutture e delle angherie: “Nello studio della casa di produzione cinematografica Filmo Centro vennero convocati i volontari che volevano dare la propria testimonianza sulle nefandezze della dittatura: madri di desaparecidos, donne violentate, adolescenti torturati, operai massacrati dalle botte, anziani resi sordi, disoccupati senza dimora, studenti espulsi dall’università, pianisti con i polsi fratturati, persone con i capezzoli morsicati dai cani, impiegati con lo sguardo nel vuoto, bambini affamati”.

È a quel Cile che Bettini guarda e si rivolge e, contemporaneamente, lo stesso da cui trae la forza necessaria per crederci e sperare ancora. Quello che sembra un elenco di situazioni caratteristiche e tipicamente conseguenziali di ogni regime dittatoriale, è in realtà un elenco di singole vite, da leggere piano, con rispetto, una alla volta, per cercare di immaginare l’essenza di un governo che, quando non arriva ad ammazzare e a far sparire, sa comunque come rendere sordi i vecchi, massacrare gli arti degli artisti in modo da togliergli l’arte, rendere abitudine la violenza e l’indifferenza.

Negli ultimi due anni, in momenti impensati, mi è spesso tornata in mente, come quei motivi che si riaffacciano senza un perché, la voce incerta di Skármeta che intonava Strauss sulle note del  Danubio Blu.

Il Valzer del No fu la musica della libertà, del cambiamento, soprattutto dell’allegria, diventando inaspettatamente e coraggiosamente il simbolo dei giorni dell’arcobaleno che precedettero il paradossale referendum della contagiosa speranza.

Laggiù, dall’altra parte della piazza, stava accadendo qualcosa di strano. C’era una sagoma che girava vorticosamente. O erano due. A mano a mano che l’apparizione si avvicinava diveniva sempre più reale. Finché le due sagome si fecero nitide. Assolutamente reali. Una coppia di giovani girava senza sosta, piroettando al ritmo di un valzer muto: come se ballassero il ricordo di un valzer nella notte stellata. Volteggiavano sul lastricato della piazza solitaria, in lungo e in largo, e quando furono tanto vicino a lui da riuscire a sfiorarlo la ballerina gli gridò: “Vinceremo, signore! Vinceremo!”.

I giorni dell'arcobaleno - CopertinaAntonio Skarmeta, I giorni dell’arcobaleno, Einaudi, Torino 2013, pp. 184, € 19.