Che Antonio Moresco sia oggi uno dei maggiori scrittori italiani non è più oggetto di discussione. Per la vastità della sua produzione, innanzitutto, che non si limita alle strabordanti opere-mondo per cui è giustamente conosciuto (Gli esordi, Canti del caos), ma abbraccia generi testuali e interessi tematici della più grande eterogeneità. Basti pensare alla serie di lettere, per la gran parte mai spedite, con le quali stigmatizza i vizi e le falsità dell’industria editoriale in Lettere a nessuno, oppure a Zingari di merda, reportage narrativo e fotografico compiuto tra i villaggi Rom dell’Europa dell’Est. E ancora, gli sconfinamenti nel teatro (come in quel testo di grandissima forza visionaria che è La santa). Si può dire poi che Moresco è tra i fondatori di Nazione indiana e de Il primo amore, e che la sua poetica è ormai talmente ben delineata sia a livello tematico sia a livello stilistico che è impossibile non riconoscere all’istante un testo scritto da lui. Se si accenna infine alla sua biografia personale, che sfuma nella mitologia romantica dello scrittore solo di fronte al mondo (la parabola inizia, come vuole il cliché, con anni di scrittura disperata e notturna, prosegue con l’infinita serie di rifiuti da parte di vari editori che lo hanno portato a una pubblicazione del tutto tardiva, e poi le feroci stroncature della critica, che lentamente si tramutano in accettazione e sfociano in questo ultimo decennio in un riconoscimento ossequioso), va da sé che Moresco sia oggi – appunto – uno dei maggiori scrittori italiani.

Un altro piccolo tassello si aggiunge ora alla sua inestricabile ragnatela di vita e opera. La lucina, si intitola, ed è un romanzo breve, o racconto lungo che dir si voglia. «Una storia scaturita da una zona molto profonda della mia vita, è come una piccola scatola nera» lo descrive lo stesso Moresco nella «Lettera all’editore» posta a mo’ di prefazione. E aggiunge: «Se fossi crepato il giorno dopo averla scritta [La lucina] sarebbe stata il mio testamento». È questa presa di posizione che nobilita fin dal principio un libriccino che a uno sguardo distratto potrebbe sembrare null’altro che una spregiudicata manovra editoriale; lo si osservi in libreria, ben impilato tra le ultime uscite, con il patetico riferimento al Piccolo principe in quarta, e si capirà cosa intendo dire. Alla fine, cos’altro si potrebbe pensare di un romanzo di 165 pagine, con capitoletti brevi e una gabbia testuale che definire ariosa è dir poco? Un testo che per di più nasce da una storia collaterale staccatasi da Gli increati, l’opera in cui Moresco è ora impegnato e che dovrebbe idealmente concludere la trilogia de L’increato, andandosi ad aggiungere a Gli esordi e Canti del caos? E poi, Moresco ospite di Fazio, chi l’ha mai vista una cosa così? Tutto farebbe pensare a una richiesta pressante dell’editore, alla volontà di ottenere un prodotto finalmente funzionante a livello commerciale, alla quale lo scrittore si è piegato, lavorandoci con una mano sola mentre era occupato con quello che veramente lo interessava (cosa sono i quindici giorni sufficienti alla stesura de La Lucina in confronto ai quindici anni di Canti del caos?).

Ecco, tutto questo è un grandissimo abbaglio.

La lucina non ha nulla da invidiare alle opere maggiori di Moresco. Innanzitutto a livello stilistico, ça va sans dire: il grado di elaborazione formale che questo breve romanzo raggiunge è quello che i lettori hanno già avuto modo di conoscere nei suoi libri più famosi. La cura maniacale nella scelta delle parole, la ricerca dell’effetto fonico di due o più termini giustapposti («Ho sbrinato il frigo, staccando le scaglie di ghiaccio con un raschietto», uno dei cento esempi che si potrebbero fare), la sensazione che sarebbe impossibile spostare la posizione di un singolo termine senza far cadere l’intera impalcatura.

Frasi come questa:

«Ma che vita fate?» gli domando. «Affondati nella terra con le vostre riserve di grasse larve di cui vi ingozzate là sotto, nel buio. Il corpo come un otre molle che si ingrossa serrato da ogni parte dalla terra e dal buio».

L’abilità stilistica è inoltre – come non sempre succede in Moresco – perfettamente funzionale al nucleo tematico del romanzo. Fedele a una concezione eroica della letteratura, nella quale lo scrittore non appare mai come un semplice cantastorie ma cerca di grattare via l’apparenza delle cose per arrivare a un significato nascosto, l’autore ci parla di quello che, quando la luce si spegne e si rimane da soli nel buio, ognuno di noi si domanda. Il senso dell’esistenza. Ma non ci vuole dare risposte. Non è questo il suo scopo, perché non è la letteratura che ha questo incarico. Vuole solo portarci a porre le giuste questioni, andare a scavare sotto quella scorza che riveste il mondo. Possiamo chiamarla in molti modi questa spinta atavica. Quel che rimane è la forza del protagonista, di questo io narrante che ha scelto di rintanarsi in un borgo «abbandonato e deserto», disperso in una montagna spopolata, la sua ricerca della solitudine nel contatto con la natura, e la volontà di giungere a una risposta per l’unica vera domanda.

«Che cosa sarà quella lucina?» mi domando ancora. «Perché in certi momenti mi appare più grande, più intensa, e subito dopo sembra rimpicciolirsi fino a scomparire? Che sia qualcosa d’altro?»

 E quel che stupisce maggiormente è che Moresco riesce a parlarci di tutto questo in maniera semplice, come se tutto si potesse racchiudere in una fiaba. Ci conduce per mano. E noi possiamo così lasciarci trasportare in questo universo claustrofobicamente intimo, ma allo stesso tempo a contatto con ogni sfaccettatura dell’esistente. Non c’è margine di errore: è l’intreccio stesso a renderlo possibile, anche se si potrebbe riassumerlo in poche righe striminzite (il protagonista vive in un isolamento quasi perfetto. Ogni notte, vede una piccola luce accendersi sull’altra scarpata della montagna, di fronte a lui. Fa delle ricerche, va nel paese più vicino, chiede in giro: laggiù non dovrebbe esserci nulla. Un giorno raggiunge quel lume, proviene da una casettina abitata da un bambino solitario, con i pantaloni corti e nessun adulto intorno. Chi è? Cosa rappresenta? Che significa?).

Insomma, Moresco c’è riuscito. Ha messo da parte le derive cosmogoniche dei suoi libri monstre per creare un piccolo artefatto in cui tutto è perfetto, in cui tutto si riduce a un piccolo mondo splendidamente delineato, stretto nel panorama di due montagne boschive. E, non me ne si voglia se continuo a credere che il Moresco della breve lunghezza giunga a risultati migliori del Moresco di Canti del caos. Nel breve, infatti, la sua abilità stilistica ne esce esaltata perché rimane sempre a servizio della trama, non cerca di soppiantarla, e la trama stessa riesce a convincere perché felicemente in bilico tra realismo e visionarietà. Nel lungo, al contrario, i contorni si sfaldano e quella volontà di tutto comprendere, di tutto annettere, di far entrare nella letteratura ogni più piccola sfaccettatura del mondo, non sempre riesce a colpire il bersaglio; spesso la deformazione grottesca pare fine a se stessa, eccessivamente esibita. Il Moresco delle opere-mondo prende il lettore per le palle e lo colpisce ripetutamente (e, a volte, capita che questo lettore un po’ se ne risenta: vittima di un universo narrativo che sembra sfaldarsi pagina dopo pagina ma che invece si ricrea incessantemente sotto nuove premesse); il Moresco del breve invece accerchia il lettore, lo immerge in un mondo perfettamente coerente, seppur distopico, antirealistico. E, non spremendo la propria scrittura per giungere al capolavoro a ogni costo, Moresco non arriva mai al punto di rottura, lasciandoci così alcune opere – e La lucina è appunto una di queste – che per noi lettori appaiono come regali inattesi. Pacchettini da scartare in un giorno casuale dell’anno. Probabilmente è un’eresia, lo so. Ma io lo penso comunque.