Innanzitutto una premessa: questo articolo nasce da una vera e propria infatuazione. Cercherò di moderare e di motivare man mano il tono incondizionatamente elogiativo. E sarà importante farlo, perché vorrei, nei limiti delle mie ridotte capacità, che questo intervento riuscisse a suscitare curiosità e interesse per un autore che ultimamente sta trovando buona accoglienza in Italia, ma che a mio parere non suscita ancora tutta l’attenzione che meriterebbe.

Partiamo dall’inizio allora.

Febbraio 2012. Collana “I Narratori” Feltrinelli. Esce Storia di un oblio di Laurent Mauvignier. Il libro è brevissimo, neppure 50 pagine, e non porta neanche la dicitura “Romanzo” nel frontespizio. Racconta una storia ma non utilizza la forma canonica, la narrazione che ci si aspetterebbe.

Si tratta di un unico, lunghissimo discorso. Meglio, di uno spezzone, perché quando si apre alla prima pagina ci si accorge che tutto è già successo e che la voce ha già cominciato a parlare. Dobbiamo affidarci al suo flusso torrenziale per orientarci; dipendiamo dalle sue oscillazioni per recuperare, uno dopo l’altro, tutti gli elementi della vicenda al centro di questo concitato monologo.

 Il tono è acceso, a tratti si impenna in lampi di indignazione, in altri momenti invece cerca una contemplazione più lucida: a muovere questa voce è la storia di un uomo, che è entrato in un supermercato con pochi soldi e nessuna intenzione particolare, che ha preso una lattina di birra e per puro istinto l’ha bevuta. Lì, nella corsia del supermercato. Non ha fatto neanche in tempo a gustarsi il sorso dissetante, né a pensare a come comportarsi per quella piccola infrazione. Pochi istanti e un gruppo di vigilantes lo sta già trascinando verso il magazzino sul retro. Qui, lontano dagli sguardi di tutti, si sfoga l’incomprensibile violenza dei quattro uomini, forti di un’insignificante autorità e carichi di una rabbia che è frutto di frustrazione e ignoranza. L’uomo muore.

lattina Quella che Laurent Mauvignier traspone in monologo è una storia vera. Una traduzione della cronaca in fatto letterario. A tutta prima una formula abusata; peggio, “alla moda”. Eppure Storia di un oblio non è niente di tutto questo. Anzi, nessun elemento potrebbe avvertire il lettore ignaro che nel testo si sta facendo riferimento a un episodio realmente accaduto. La cronaca non è altro che un pretesto, un’occasione; serve a Mauvignier per inchiodare la sua scrittura alla superficie della realtà. Ma non ce n’è bisogno, perché la realtà è costantemente presente alla voce che parla, e nella manifestazione più concreta e violenta: il dolore.

Proseguendo la lettura ci rendiamo conto che non siamo gli unici all’ascolto di questa voce. Anzi, non siamo noi i veri destinatari del suo discorso. Insieme a noi, davanti a noi c’è il fratello della vittima. A lui sono rivolte le parole che si sforzano di ricostruire fin nei minimi particolari, nelle percezioni, nei sentimenti che durano un istante, l’eterno momento dell’uccisione dell’uomo. La voce è intrisa di dolore, ma non ne è deformata: noi non sappiamo a chi appartenga, ma ci accorgiamo che conosce molto della persona che è morta. Ne ricorda l’infanzia, trascorsa insieme a un fratello sempre più coscienzioso di lui, ne ricorda l’adulta solitudine, l’amore muto per la famiglia lontana. Ma soprattutto conosce quel che l’uomo ha provato negli ultimi istanti di vita, la speranza e la delusione, la sorpresa e la placida rassegnazione, l’assenza di paura. Sa addirittura ricostruirne i pensieri, dar loro forma di un ipotetico dialogo con i carnefici:

quando si fosse chiesto, perché mi avete disprezzato? davvero per una tuta e una maglietta? per i miei capelli? per il mio aspetto? Davvero per questo avete creduto di potervi sfogare su di me? Volete farmi credere questo senza farmi ridere? Ridere di voi? Di quello che siete? Di chi credete di essere quando io ho visto solo dei tizi troppo compiaciuti di guardarmi in faccia mentre avrebbero dovuto abbassare gli occhi, come dovrebbe saper fare un uomo quando aggredisce vigliaccamente…(31).


 Questa voce, a cui non riusciamo ad attribuire un volto, non si è levata per condannare gli assassini, né per denunciare l’assurdità dell’accaduto: il suo scopo è spiegare, rendere ragione. Ma non come fanno gli “spettatori” di questa triste storia: non ha alcun senso dire «un uomo non può morire per così poco» (9). Si può forse stabilire un quantitativo di lattine rubate o bevute a sbafo che giustifichi l’aggressione mortale dei vigilantes? Eppure chi si indigna, anche se non se ne accorge, sostiene proprio questa posizione. La violenza contro un inerme è ingiusta perché quell’uomo è inerme, non perché questa è violenza: «capisci, vien quasi da pensare che un attaccabrighe l’avrebbero rispettato di più» (39).

Se alla gente comune basta questo momentaneo sgomento, un’improvvisa accensione per tacitare la coscienza, buona giusto per la polemica mattutina, davanti al trafiletto nella pagina di cronaca, questo fratello a cui la voce si rivolge non smetterà di farsi domande, di cercare spiegazioni, di mettere insieme i particolari. Rilanciandosi continuamente, tra domande, esclamazioni, ipotesi e ricordi questa voce ha il compito di evitare che l’uomo crolli sotto il peso di un dolore e di un rovello inestinguibili.

supermercatoEcco allora che si provano a mettere insieme tutti gli elementi che compongono il quadro che ha portato al delitto: il fatto viene ricostruito e ripercorso ossessivamente, viene visto da prospettive diverse, con gli occhi della vittima e con quelli dei carnefici, con gli occhi del “prima” e con gli occhi del “dopo”. Questa ricerca però si mostra subito discontinua, frammentata, composta da elementi eterogenei, rievoca momenti tra loro sconnessi, particolari decisivi accanto ad altri apparentemente necessari. Eppure la forza inquietante di questa voce sta proprio nel mostrarci come tutto si tenga in un’inspiegabile rete di necessità: a determinare la morte di questo pover’uomo sono stati tanto l’aggressività bruta dei vigilantes quanto l’indifferenza e il disprezzo negli occhi dei vicini incrociati giorno dopo giorno («uccidendolo ogni giorno a fuoco lento, ogni giorno, senza saperlo e in modo definitivo», 36). Il cranio rasato del più giovane degli aggressori, «che deve radersi tutti i giorni per avere un’aria cattiva o credibile» (14) è un particolare inessenziale ma necessario, come l’improvvisa epifania delle «scopate sulle rive della Loira» (11) che la semplice vista di una luce al neon richiama alla mente dell’uomo assetato. La tragedia è impregnata di gesti comuni, abituali, di oggetti di ogni giorno: all’origine c’è un quotidiano che nella sua banalità aggredisce e violenta l’uomo. In esso tutto si tiene, ma nulla può restituire una ragione, una responsabilità, una colpa.

 È questo il paradosso. Anche quando sia consentito, come a questa voce, di conoscere o ipotizzare le pieghe nascoste di una tragedia, non è possibile pervenire a un senso: la tensione della scrittura che Mauvignier attribuisce a questo discorso è tutta proiettata sulla ricerca di una parola, di una rivelazione che permetta di appacificarsi, di dare una forma al dolore, di renderlo definitivo. Ma questa parola non è mai raggiunta.

È questa la forza e la condanna della voce che continua a fluire: non ci lascia rassegnati, bensì storditi, quasi estasiati. Ci taglia fuori dalla comunicazione, ma ci invita a riconoscere i contorni della miseria umana. Come un coro tragico, ci inchioda alla testimonianza intima e muta di una verità che non è mai pronunciata. Mostra mano forte laddove dominano l’incertezza e la casualità (tutti quei «chissà» a cui anch’essa deve piegarsi), ma infine ci mostra come tutto questo parlare, questo rincorrersi di domande, esclamazioni e ipotesi non è che un modo per coprire quel silenzio che è della morte e che, infranto, rischierebbe di far deflagrare la disperazione. È chiaro allora che parlare non può aiutare a trovare una spiegazione, ma serve a non crollare di fronte all’assurdo che è del male e della morte. Così come della vita. Serve al fratello dell’uomo ucciso, ma serve anche a chi parla: serve a tenere teso un filo che lega a quell’istante in cui tutto stava accadendo, in cui la tragedia era annunciata, ma non si era ancora consumata, in cui l’uomo sapeva di stare per morire, ma era ancora vivo. Come figlio, come fratello, come uomo.

Tutto è teso verso una parola, che si staglia nella sua tragica potenza: pronunciarla darebbe sollievo alla ragione, forse, ma decreterebbe una fine, la sentenza di una morte, e l’origine di un dolore immedicabile. Quello dell’oblio, che coincide con il silenzio. Chi ama non si sente pronto a questo e affronta l’impossibile sfida di coprire la distanza tra la vita e la morte, tra il dolore e la sua remissione. La voce continua a parlare e affronta l’irreversibilità di un destino ormai scritto:

perché il suo silenzio è l’ultima cosa che gli appartiene (28).

P. S. In realtà avrei voluto prendere spunto da questo libro per parlare più diffusamente di Laurent Mauvignier e della sua opera, raccontare chi è e perché dev’essere considerato uno dei più significativi scrittori del nostro presente. In realtà avrei voluto addurre prove tecniche e stilistiche a sostegno della mia ricostruzione del testo e del suo valore, dire che l’autore adotta una lingua che ha più del teatrale che del letterario, dire che è proprio perché ha forma di monologo e non di romanzo che questo testo conserva intatta una potenza tragica. In realtà avrei voluto mostrare obiettività e dire che quest’opera è forse la più debole tra quelle pubblicate da Mauvignier in Italia, che il suo vero capolavoro è Lontano da loro e che Degli uomini è l’unico di questi testi ad avere forma compiuta di romanzo, una struttura narrativa esplicita. In realtà avrei voluto dire che quel che mi sorprende davvero di questo autore è la coerenza con cui sa portare avanti una poetica che pure non si ripete, ma trova sempre nuove forme in cui esprimersi, mostrando la dolorosa inesauribilità dell’oggetto del proprio cercare.

Ne è venuta fuori una recensione, ancora una volta, più appassionata del solito forse, ma pur sempre questa formula che ci ossessiona, che ingabbia e forse isterilisce tutti i nostri discorsi sulla letteratura.

Mauvignier 2Laurent Mauvignier (1967)

Lontano da loro (1999), Zandonai 2008; La camera bianca (2000), Zandonai 2008; Ceux d’à côté, Minuit 2002; Seuls, Minuit 2004; Le lien, Minuit 2005; Dans la foule, Minuit 2006; Degli uomini (2009), Feltrinelli 2010; Storia di un oblio (2011), Feltrinelli 2012; Tout mon amour, Minuit 2012