Con Filastrocca corta e gaia di Gianni Rodari abbiamo inaugurato una nuova serie di interventi. Saranno sporadici e discontinui; nasceranno a suggestioni che di volta in volta incontreremo nei nostri percorsi di lettura. Saranno brevi brani tratti da autori più o meno noti; ogni brano proverà a dar conferma di quel che Calvino diceva dei classici, ovvero che non hanno mai finito di dire quel che hanno da dire. Saranno suggerimenti di lettura o dimostrazioni di come alcuni vecchi passi possano trovare nuova vita in nuovi contesti.

Cornice bianca

di Giacomo Raccis

Che Italo Calvino ci abbia lasciato parole e discorsi fondamentali non spetta certo a me dirlo. Ci sono però alcuni brani che possono passare inosservati, o in secondo piano rispetto ai fondamenti dell’opera calviniana. Leggendo Palomar, uno degli ultimi libri dello scrittore, ci si imbatte a un certo punto in un passaggio che, a tutti quanti siano interessati, per passione, necessità o carriera, a fare del proprio “parlare” un vero e proprio mestiere, dovrebbe dire più di quanto apparentemente non sembri.

 

Del mordersi la lingua

L’aver pensato rettamente non è un merito: statisticamente è quasi inevitabile che tra molte idee sballate, confuse o banali che gli si presentano alla mente, qualcuna ve ne sia di perspicua o addirittura geniale; e come è venuta a lui, può esser certo che sarà venuta pure a qualcun altro.

Più controverso è il giudizio sul non aver manifestato il suo pensiero. In tempi di generale silenzio, il conformarsi al tacere dei più è certo colpevole. In tempi in cui tutti dicono troppo, l’importante non è tanto il dire la cosa giusta, che comunque si perderebbe nell’inondazione delle parole, quanto il dirla partendo da premesse e implicando conseguenze che diano alla cosa detta il massimo valore. Ma allora, se il valore di una singola affermazione sta nella sua continuità e coerenza del discorso in cui trova posto, la scelta possibile è solo quella tra il parlare in continuazione e il non parlare mai.

 I. Calvino, Palomar (1983)

Il tempo «in cui tutti dicono troppo» è quello in cui ogni giorno cerchiamo di prendere la parola. Che si sia giornalisti, politici, intellettuali o blogger, la sfida dovrebbe essere la stessa per tutti. Per scongiurare il rischio di ridurre tutto alla tragica opposizione tutto-niente, bisogna impegnarsi in una responsabile economia del pensiero: dire meno, dire meglio.