Il pezzo che inaugura la rubrica Blastare della «Balena bianca» nasce da un ragionamento che solo nella sua seconda parte tocca l’essenza stessa – forma e contenuto – del libro in questione.

Il cane che mi guardava di Giovanni Ubezio è presentato nella rinnovata collana Narrativa del Saggiatore, tra le prime e meno convenzionali proposte del suo nuovo editor, lo scrittore Giuseppe Genna. Le ambizioni (della collana) sono alte («ospitare “testi e autori considerati emblematici, significativi e potenti”, sostituendo alla scala della bellezza quella dell’intensità», si legge sul «Corriere della sera» a inizio ottobre 2011), tanta l’attesa alla prova dei fatti; e lo stesso vale anche per questa raccolta di racconti la cui genesi è quantomeno insolita («Giovanni Ubezio non è uno scrittore professionista: svolge il mestiere di taxista a Milano», tramite un dittafono stende quanto racconta a voce nei momenti di pausa dal lavoro) e trova principio tra le righe del blog dell’editor-scrittore:

«È grazie a un caso del destino, se quelli che lui definisce “racconti” mi sono arrivati sotto gli occhi. […] È una prosa fuori dai paradigmi delle retoriche consolidate. Ero entusiasta. Inizialmente, data la natura apparentemente realistica e domestica (addomesticata) dei temi metropolitani, ho pensato a certo Raymond Carver. […] Era da quando incontrai la narrazione paradisiaca (come questa) di Robert Walser, sulla scorta di Giorgio Agamben, che non mi capitava di avvertire la sensazione di trovarmi in uno spazio in cui non c’è la storia e nemmeno la Storia (il che non impedisce che esistano le storie)».

La sedimentazione dell’entusiasmo non revoca il giudizio di pubblicabilità, ma anzi lo rafforza e conferma: «Stupore e turbamento colgono il lettore davanti a questi Prosastücke vertiginosi», così recita l’aletta. Niente di più si potrebbe chiedere a un libro oggi: narrazione semplice, per brevi brani, spontanea, vera e quasi involontariamente pregiata («suite memorabili» sono quelle prodotte da «una scrittura che sembra non essere mai uscita da un eden privo di colpa»).

A ben guardare, il lettore ritrova tutto quello che viene segnalato da questa presentazione: ci sono le brevi narrazioni senza pretese di trasfigurazione, c’è la lingua asciutta e innocente, estranea a ogni retorica, ci sono i personaggi curiosi o normali, e pure quelli enigmatici (concediamolo!). Eppure, arrivati in fondo alla raccolta – e forse anche un po’ prima – l’impressione è che si tratti di qualcosa a metà tra il tremendamente banale e il pretenziosamente costruito.

La lingua adottata dal taxista Ubezio è caratterizzata da una propensione alle facilonerie sintattiche e lessicali che appare quantomeno artificiosa («Noi possiamo lavorare su tutta Milano e aeroporti, più alcuni comuni così detti “conturbati”», p. 75); così come la sua capacità di concettualizzazione, per quanto si possano ipotizzare limitate la preparazione culturale e l’abilità argomentativa di una persona probabilmente non molto istruita, risulta in definitiva il frutto di una forzatura. L’ingenuità benevola con cui il nostro narratore-protagonista affronta situazioni di ogni tipo (l’ottusità che gli impedisce di comprendere cosa spinge un uomo e una donna, di sera, In cerca di un motel) incarna sì i caratteri di candore morale e di schiettezza spirituali messe in risalto dalla presentazione, ma senza alcuna corrispondenza con i più larghi criteri di verosimiglianza e credibilità. Ad accrescere i sospetti, inoltre, intervengono, di tanto in tanto, costruzioni sintattiche e riflessioni che non sembrano attagliarsi né all’espressione orale da cui queste pagine dovrebbero derivare, né all’ostentata semplicità argomentativa del narratore («Sembrerebbe dunque chiara questa ideologia puritana che, per l’interesse delle comunità ma soprattutto per il tuo bene, ti implora a stare alla larga da vizi e abusi pericolosi come l’auto», p. 110).

Date queste premesse risulta difficile esprimere un giudizio di interesse e di gusto sulle trame di questi brevi racconti che, secondo le pretese dell’autore (o dell’editore) vorrebbero distinguersi proprio per l’assenza di un ordito narrativo riconoscibile. L’immediatezza e la spontaneità empatica con cui vengono tratteggiate le figure che occupano per poche pagine la ribalta del racconto lasciano trasparire persone comuni, nelle loro stranezze così come nella loro normalità: questo però avviene senza che al lettore sia aperto alcun varco alla comprensione della condizione umana che è sotto gli occhi di tutti ma mai effettivamente riconosciuta e riflettuta. Questo dovrebbe, o quantomeno potrebbe, essere l’obiettivo di un libro che ambisce a proporre uno sguardo «selvaggio» (frutto di un «orecchio assoluto», si dice sempre nell’aletta), scevro da condizionamenti e schemi interpretativi preformati, sulla quotidianità più trita e banale dell’esperienza contemporanea.

Al di là della sporadica piacevolezza di alcune delle avventure automobilistiche del nostro taxista (tra tutti Il vecchio e la metamorfosi), non si comprende in definitiva il senso complessivo di questo libro: il finale che chiude l’episodio senza spiegarlo – che si vorrebbe prodotto di una sorta di discorso continuo, di una «primitiva oralità», di cui ci vengono riportati solo alcuni passaggi –, invece che lasciare sospeso il giudizio del lettore, azzera ogni attesa di senso, che resta così delusa. La volontà di scardinare ogni principio narrativo, smantellando la logica inizio-svolgimento-fine, per preconizzare l’avvento di una nuova epoca fatta di scritture non più etichettabili secondo le consuete e desuete definizioni di genere (questa sembra la posizione assunta sempre più ortodossamente dall’editor Genna), se viene realizzata materialmente attraverso questi racconti-non racconti, tuttavia non porta a nessun surplus di significato: lo sgomento finale non è riscattato da un interrogativo suscitato nel lettore, né da una sospensione riflessiva o creativa. Carver e Walser sembrano ancora lontani.

Rimangono a fine lettura tanti interrogativi. Ma non sul significato di questa narrazione. Sul senso della sua pubblicazione, che vorrebbe essere «provocazione». In una società editoriale che voglia contribuire attivamente all’equilibrio civile e culturale della civiltà per la quale opera, talvolta la scelta corretta coincide con il silenzio.