Pubblichiamo il primo articolo della rubrica di cinema “L’occhio della madre”, che presenterà recensioni di film di ieri e di oggi, secondo una rotta imprevista ed imprevedibile, alla ricerca di una Balena bianca in 35mm, come non l’avete mai vista prima. Per cominciare, astronavi, gamberi ed alieni forse non troppo diversi da noi.

DistrictNine

di Luca Ghirimoldi

Uscito pochi anni fa sugli schermi della Terra, District Nine di Neill Blomkamp è subito assurto al rango dei “casi” cinematografici, infilando nel proprio palmares la candidatura a quattro premi Oscar nonché il Saturn Award 2009 per la categoria Miglior Film Internazionale. Non vogliamo però ripercorrere qui le tappe di un successo meritato, quanto sottolineare alcuni punti lodevoli di questa originale pellicola di fantascienza dal budget ridotto; punti che a nostro avviso vanno ben oltre quelli della scelta di genere alla base del film. La trama è fresca alla memoria dei più: un’astronave aliena grava da tempo sopra Johannesburg e i suoi occupanti – dei crostacei di due metri di altezza chiamati sprezzantemente «gamberoni» – sono stati progressivamente ghettizzati in una sorta di baraccopoli postmoderna, il Distretto Nove. Una multinazionale degli armamenti, la MNU, ha ora deciso di trasferirli da questo regno del caos e del crimine verso un nuovo campo di permanenza temporanea (termine assai inquietante anche per le razze aliene…), a debita distanza dalle proteste della popolazione urbana. Operazione improba, e perciò affidata al genero del gran capo della MNU, tale Wikus van de Merwe, classico “uomo qualunque”, sprovveduto ma onesto, ovviamente coinvolto a sua insaputa in un gioco ben più grande di lui. Wikus applica alla lettera il compito fino a che un banale incidente durante lo sloggiamento delle creature aliene contamina il suo DNA, dando il via ad una mutazione progressiva che rischia di trasformarlo in uno dei tanto disprezzati gamberi. Il nostro protagonista diventa merce alquanto appetibile per la MNU, dato che sembra essere l’unico a saper maneggiare il potentissimo arsenale degli sgraditi ospiti; al tempo stesso però, egli gradirebbe aver salva la pelle, e quindi fugge dai suoi ex-datori di lavoro per chiedere aiuto all’alieno Christopher, che ha architettato in segreto un piano di fuga per sé, per la famiglia e per l’intera stirpe dell’altro mondo.

Vicenda assai insolita, insomma, nel suo rifiuto esplicito degli ingredienti mirabolanti e stupefacenti con cui abitualmente si rimpinguano le trame fantascientifiche: qui gli alieni vengono trattati quasi alla stregua di clandestini, di paria vagabondi della Via Lattea. Calati sulla Terra nel lontano 1982, sono costretti da vent’anni sul nostro pianeta, perché la loro decrepita astronave in avaria non può ripartire. Essi non sono affatto ambasciatori della più tipica superiorità tecnologico-culturale delle razze degli altri mondi: si abbandonano piuttosto ad atti di banale vandalismo urbano, mostrando pure una spiccata preferenza per il cibo per gatti industrialmente confezionato. Da un lato questa alterità muove in direzione del comico; e si vedano a proposito alcune esilaranti scene da slapstick comedy durante l’evacuazione forzata condotta dalla MNU; ma dall’altro lato, questo modo di rappresentare gli alieni ha pure a che fare con il messaggio “etico” che District Nine vorrebbe suggerire allo spettatore.

Dei “gamberoni” non colpiscono tanto le fattezze di crostaceo, né il linguaggio apparentemente incomprensibile; fa piuttosto da muro divisorio, tanto fisico quanto valoriale, l’intima natura di “diversi”, e quindi di pregiudizialmente pericolosi. Innovative sono anche certe scelte tecniche e narrative, da cui certo dipende il ritmo veloce ed accelerato di tutta la pellicola. Che infatti ha le fattezze di un lungo reportage ex post su ciò che è stato di Wikus, ingranaggio del sistema perverso della MNU; al racconto “obiettivo” della cronaca si alternano però spezzoni in tempo reale, che seguono da presso il tentativo di ribellione del protagonista e del neo-alleato Christopher.

Le tecniche del mockumentary ricompongono provvisoriamente brandelli di una storia fittizia in un ‘documento’ forse più autentico della realtà stessa; le frammentarie interviste a colleghi, amici e familiari del protagonista, l’uso di materiale di repertorio secretato dalla multinazionale, le riprese dagli elicotteri o con la camera a mano durante i tumulti del Distretto Nove creano così un singolare «effetto presenza», sull’onda della mimesi del linguaggio televisivo. La sensazione è quella di assistere ad una cronaca embedded dalla linea di un fronte sconosciuto, ma assai vicino a noi, e per questo sottilmente inquietante.

Finzione esplicita e simulazione di realtà si mischiano in un nesso più stringente ed ambiguo che in altri filoni del genere: non ritroviamo, in District Nine, né le utopie rassicuranti di un futuro migliore né le tinte fosche e cupe del diluvio che ci attende. Piuttosto, Neill Blomkamp e Terri Tatchell sviluppano con intelligenza e rigore alcuni assunti basilari della fantascienza. L’ambientazione cronologica ci avvisa sottotraccia che non è del futuro dell’umanità che si parla, ma del presente in cui noi tutti siamo più coinvolti; di più, le tematiche profonde del film – il razzismo e l’odio del diverso, la spirale onnivora del potere burocratico, il senso e il significato delle scelte etiche cui siamo chiamati – suscitano domande cui non sempre si può dare risposta esaustiva e completa. Wikus e Christopher inseguono entrambi un tornaconto personale, che spesso collide con i desideri di salvezza palingenetica e di bene collettivo: sia questo la ricerca di una cura che riporti alla vita di tutti i giorni o la speranza di una fuga che riconduca al pianeta natio. Eppure, non viene affatto esaltata la morale dell’homo homini lupus (o del cancer cancri lupus, per dirla con un “gamberone”): la necessità della lotta contro un sistema sofficemente oppressivo, che reclude ed esclude patinandosi di legalità, unisce a filo doppio le scelte dell’uno alle conseguenze per l’altro, come i due protagonisti a poco a poco arrivano a comprendere.

Il finale è giustamente “sospeso”, come in attesa di una redenzione che non si sa se verrà; il contesto alieno ed alterato in cui lasciamo i nostri due eroi spiega, una volta ancora, che il valore della diversità è più un conflitto potenzialmente fecondo che un dato di certezza incontrovertibile e pacifico.

District Nine (Usa/Nuova Zelanda, 2009), 112 min., di Neill Blomkamp, con Sharlto Copley, Jason Cope, David James, Vanessa Haywood.