di Achab

Si è tenuto, al Salone del libro di Torino, un incontro organizzato e coordinato da Marco Belpoliti (professore ordinario all’università di Bergamo e curatore della rivista online Doppiozero) e intitolato Regalare libri? Editoria, autopubblicazione, ebook – Vivere in rete, nel quale si sono confrontati Gian Arturo Ferrari (direttore dell’istituzionalissimo Centro per il libro e la lettura), Andrea Cortellessa (professore associato all’università di Roma Tre e attivissimo animatore del gruppo TQ) e Christian Raimo (editor di Minimum Fax e intellettuale molto impegnato).

Lo spunto di partenza, la messa in commercio gratuita di libri in formato digitale, è presto stata messa sullo sfondo di un dibattito che si è invece focalizzato – complice un incontro insolito quanto fecondo di personalità – sul ruolo e sulle responsabilità dell’editore nel sistema librario che si va oggi trasformando e riconfigurando. Tutti concordano sulla validità della metafora benjaminiana per cui, quando un edificio è in fiamme, è più facile riconoscerne la struttura, le forme profonde: sarebbe questa la situazione attuale del sistema editoriale italiano. A partire da questa constatazione, i primi interventi sono serviti a rivelare le posizioni dei relatori nel dibattito. Comincia Gian Arturo Ferrari che, con non poca malizia e coerentemente con il suo passaggio da grande capo dell’editoria italiana a «funzionario» di lusso del sistema del libro, preconizza la prossima scomparsa di tutte le figure del mondo editoriale, editore compreso: «il libro-stampa, che abbiamo sempre identificato con il libro tout-court, non è altro che una formazione storica molto precisa: esiste da 500 anni circa; mentre la storia del libro comincia almeno 2000 anni fa. Non lo possiamo considerare un dato di natura, immodificabile. Il libro-stampa ha introdotto il concetto di “pubblicare”, poiché rendeva pubblico il testo che prima rimaneva privato; è la funzione che conserva ancora il termine inglese publisher. Oggi il gesto del pubblicare non richiede più denaro, il passaggio su cui si fondava il meccanismo editoriale è venuto meno. È per questo che la trasformazione annunciata dal passaggio al digitale sarà radicale e renderà plausibile una scomparsa, sul lungo periodo, delle attuali figure del mondo del libro. Ma non è solo questo. La digitalizzazione dei testi impone anche una trasformazione nel modo di concepire il testo letterario: l’idea del libro come opera chiusa è legata alla necessità di produrla e riprodurla. E oggi, con la pubblicazione on line, questa necessità perde la sua cogenza». Gli risponde Andrea Cortellessa, che sottolinea come la chiusura del testo da pubblicare sia motivata anche dall’interesse dell’autore a preservare l’individualità del proprio prodotto, proteggendola dai rischi di interpolazioni, contaminazioni e usurpazioni. È qualcosa che ha a che fare con il principio di proprietà delle idee. Ma c’è anche un’altra cosa che va sottolineata: «come mettono bene in luce gli autori del libro Remediation (The MIT Press, 2000) i media tendono a sovrapporsi e ibridarsi, non a porsi su una linea di successione diretta. È stato così al passaggio da libro manoscritto a libro-stampa (cfr. La rivoluzione inattesa, Pratiche, 1997), sarà così anche adesso. Solo che i tempi saranno più rapidi. Ma non abbastanza però, è bene dirlo, perché non si renda possibile un intervento da parte di intellettuali ed editori per orientare il processo di trasformazione». In particolar modo sono gli intellettuali che si trovano in una posizione particolarmente significativa: Bauman, in La decadenza degli intellettuali (Bollati Boringhieri, 1992), dice che  l’intellettuale non è più un legislatore, ma un interprete; questa metafora si può applicare oggi alla condizione dell’editore, che da regolatore del sistema del libro si sta trasformando in agenzia di servizi. Questo però è ciò che non vogliono proprio gli intellettuali, abituati a un’idea mentale differente di questa figura di mediatore culturale. Paradossale è la posizione di noi TQ, che “regaliamo” lavoro a queste organizzazioni a fini di lucro e contro le quali ci schieriamo fortemente, ma di cui proviamo a difendere l’istituzionalità. È un paradosso che ci deve fare riflettere».

A scompaginare le carte e a innescare la scintilla della polemica, giunge l’infuocato intervento di Raimo, che riscopre il valore di un marxismo inteso come strumento di comprensione più che come datato feticcio ideologico: la storia a cui bisogna guardare è un’altra; non è quella del libro delineata da Ferrari, né quella della proprietà intellettuale di Cortellessa. È piuttosto quella della democrazia intersecata con la vicenda del libro, quella dell’editoria di ricerca, delle riviste, del pluralismo delle idee. Bisogna fare chiarezza sul ruolo del libro in questo sistema editoriale: «il libro è prodotto anti-capitalistico per eccellenza; accresce il proprio valore quanto più dura e quanto meno si consuma. Crea un problema all’editore, che deve rinnovarlo senza poter intervenire sul testo, che ne è il contenuto principale, evidentemente. L’altra anomalia è che, diversamente da quanto si prova a far credere, non c’è scarsità si scrittura, così come non c’è scarsità di idee, anche se si continua a sostenere che siano un bene in pericolo d’estinzione. Il problema sono piuttosto i lettori, che non sono abbastanza per “assorbire” questa esorbitante quantità di scritture. E allora si prova a trasformare l’eccesso di offerta in eccesso di domanda, attraverso le iniziative di self-publishing. È il mondo di ilmiolibro.it, che però non appartiene alla storia della cultura o della letteratura. Nel ‘900, l’industria culturale si è valsa dell’apporto degli intellettuali, che erano componenti di un’infrastruttura culturale che trovava i propri riferimenti nella scuola, nell’università, nel partito o nell’istituzione religiosa. Questo sistema entra in crisi intorno al 1990, quando i mezzi di produzione del libro diventano accessibili quasi a tutti: nascono le case editrici indipendenti, perché fare i libri non è più difficile, costoso e non necessita più di una formazione universitaria specifica [modello di questa nuova editoria è, ovviamente, minimum fax, nda]. Le grandi case editrici provano a rispondere a questa novità concentrando i propri investimenti in tutto ciò che non “era” quei mezzi di produzione: tipografie, distribuzione, promozione. Una nuova svolta avviene nel 2010: adesso basta avere un computer e un minimo di organizzazione e si può mettere in piedi una valida impresa editoriale (vedi Doppiozero). A questo punto gli editori, grandi o piccoli che siano, “stanno tutti a zero”. Scalzati dalle corporation che producono devices – Apple, Amazon, Google – che decidono e regolano il mercato, ma per le quali il settore librario non rappresenta neanche il 50% del fatturato».

È sul ruolo degli editori, sulle loro responsabilità in questo frangente storico che si incentra la discussione; in particolar modo tra Ferrari, forte della propria splendente carriera e di una sicurezza un po’ egotica, e Raimo, carico di una lucida verve anti-capitalista. A quest’ultimo, infatti, proprio non va giù la definizione del libro come oggetto intrinsecamente ibrido (quel che secondo Ferrari ne garantirebbe l’imperituro fascino), perché rispondente all’ordine economico-commerciale in egual misura che all’ordine cultural-spirituale. Le biblioteche, le scuole, le istituzioni culturali e la storia della comunione delle idee, ancora una volta, starebbero lì a dimostrarlo. Sono semmai gli editori che hanno sempre preferito privilegiare un imposto valore di scambio rispetto al carattere primo del libro, il valore d’uso. È una questione di responsabilità e di impegno, parola-spauracchio nel sistema editoriale italiano. In effetti va tutto bene finché l’engagement si limita alla pubblicazione di libri scomodi o particolarmente illuminanti nell’aprire la mente a nuovi e più radicali paesaggi culturali, sociali e civili. Va bene ancora quando si parla di campagne promozionali a favore della lettura, dell’organizzazione e del patrocinio di importanti iniziative (convegni, conferenze, festival…). Ma non si venga a dire che gli editori devono giocare un ruolo anche nelle pubbliche politiche per il sostegno alla cultura. E men che meno che lo devono fare spontaneamente.

E invece è proprio questo che invoca l’audace Raimo: «è il ruolo di agente culturale proprio dell’editore che bisogna riaffermare. Egli ha la possibilità di sfruttare il valore commerciale del libro per valorizzarne la natura di “bene” (e non la sua natura di merce). Oggi che è venuta meno l’infrastruttura di welfare della cultura che un tempo sosteneva il libro, l’editoria deve provare a sopperire con le proprie risorse alla carenza educativa delle altre agenzie culturali. Un grande gruppo come Mondadori, per esempio, potrebbe creare una fondazione che finanzi la scuola, così da fare crescere e formare i lettori forti che leggeranno i suoi libri. Sarebbe un’operazione di reciproco interesse». E se è vero, com’è vero, che tutti gli «attivisti culturali» che popolano il web, che realizzano contesti di sviluppo delle idee, di confronto sui temi che stentano ad affermarsi nel discorso di massa sono tutti lavoratori della scuola e dell’università, come fa notare Marco Belpoliti, è vero anche che questa situazione è la naturale reazione a un sistema, soprattutto universitario, che osteggia la passione e il volontariato culturale (quello appunto delle riviste, dei blog e delle webzine). «L’università e altre istituzioni pubbliche (come il Centro per il libro e la lettura diretto da Ferrari) si occupano ormai quasi esclusivamente di concertare iniziative private. È necessario allora intervenire per sopperire a questa situazione di degrado e malcelato disinteresse», dice Cortellessa.

Conclude Raimo: «Perché non far pagare a Google, Amazon e Apple una tassa (del 2%) su ogni transazione riguardante libri o ebook, da destinare poi al finanziamento delle istituzioni culturali pubbliche del paese?».

La proposta è suggestiva; Ferrari, esponente del mondo “incriminato”, è già scappato per un altro impegno, è ormai troppo lontano per sentire e commentare. Gli ascoltatori applaudono e poi si alzano, quasi stupiti da questa suggestione un po’ balzana. Potrebbe venire da ridere di fronte alla grandezza di una simile mozione; sembra assurdo pensare ai grandi colossi della rete che assecondano le pretese di sostegno alla cultura pubblica di una paese nel complesso piccolo come l’Italia; e per di più su iniziativa di uno sparuto gruppo di intellettuali. Eppure è proprio questo che ci serve: una prospettiva di cambiamento, un orizzonte, anche utopico (ma non dovrebbe esserlo!), verso cui rivolgere speranze, e soprattutto impegno. E se interventi come questo possono servire a sensibilizzare, a creare consapevolezza prima ancora che consenso, a individuare percorsi e vie di fuga, allora sarà bene valorizzarli e trasmetterli quanto più si può. Quello di cui c’è bisogno nel nostro paese, è il coraggio di parlare e di sostenere quel che in questo momento non sembra neanche lontanamente realizzabile.

E sarebbe un ben facile coraggio, peraltro. Visto che ormai non c’è nulla da perdere.