A vedere Ruben Östlund in sala a presentare il suo ultimo film, Triangle of Sadness, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2022, mio nonno l’avrebbe trovato un tipo simpatico, e avrebbe detto, suppergiù, che se continuava così avrebbe sputato un polmone. È vero, avrei trillato io di rimando, questo svedese è proprio una sagoma. Però è andata che mio nonno, in sala con me all’anteprima speciale all’Anteo Spazio Cinema di Milano lo scorso 23 ottobre, mica c’era. C’ero solo io, cioè, anche con altre persone, che però non conoscevo. Quelli provavano ad accaparrarsi uno dei gadget-salvagente che davano all’ingresso, mentre quello a fianco a me, probabilmente uno studente della IULM, diceva all’amica, ancora un posto in là da me, che aveva chiesto informazioni a Östlund su dove fosse il teatro di proiezione, e mica se n’era accorto, per Diana! Io invece, che arrivo sempre in ritardo (come si capirà, sono riuscita a far uscire pure questo pezzo, in ritardo), mi ero accaparrata subito il mio posto, e avevo lasciato perdere i gonfiabili. Tanto, quando poi si sgonfiano, che cosa sono? Vabbè. Meno male che, poco prima che il regista salisse sul palco, una signorina ci ha distribuito dei sacchetti per il vomito, convenientemente marchiati dalla promozione. Uno potrebbe dire Wow, uno zilione di gag qua dentro, e invece, a vedere Triangle of Sadness sul grande schermo, e infatti bisogna vederlo sul grande schermo, il nauseino viene pure. Ma, una cosa alla volta. Perché prima Östlund ci ha spiegato perché i norvegesi sono un popolo di bolsi – ovvero, perché non interagiscono quando gli spieghi le robe, compreso il tuo film, e si aspettano solo di essere intrattenuti – e come i video degli animali che fanno cose possono essere usati per spiegare agli attori come recitare. Quindi all’erta, norvegesi, attori, e attori norvegesi: questo pezzo è anche per voi.

Ma, per venire al sugo, la proiezione è cominciata. Dunque, Triangle of Sadness. Un film che segue un eterogeneo gruppo di straricchi a bordo di una crociera di lusso, esperienza che cambierà radicalmente il futuro per come se l’erano immaginato. Non una rivelazione esistenziale alla David Foster Wallace, il quale mise alla berlina il vuoto di spazio-tempo aperto nel tessuto dell’esistenza da esperienze quali, appunto, la crociera (Una cosa divertente che non farò mai più, minimum fax, 2017), bensì lo studio di un sistema culturale, costellazione di associazioni automatiche e pregiudizi, e un’anatomia del potere – e della potenza di possesso che si porta dietro – nelle sfaccettature della società capitalista e dell’immagine. Il tutto, come sottolinea Östlund durante la presentazione, per far ridere, intrattenere ma valevolmente, e tanti cari saluti agli acerrimi nemici norvegesi (per una radiografia più puntuale dei campanilismi che intercorrono tra norvegesi e svedesi, sempre utile una capatina sulle pagine dei volumi che The Passenger dedica a Norvegia e Svezia rispettivamente).

Si comincia con la storia di Yaya (Charlbi Dean) e Carl (Harris Dickinson), modelli, influencer, e coppia con palpabili disparità di potere e coinvolgimento: mentre Yaya interpreta ogni loro attività con il lanternino del business, Carl appare alla ricerca di una relazione più profonda, fondata su rispetto e supporto reciproco. Invitati sulla crociera come attività promozionale, i due incontrano Dimitrij (Zlatko Burić), magnate russo del fertilizzante che, piuttosto letteralmente, «sells shit», insieme alla moglie Vera (Sunnyi Melles) e alla compagna Ludmilla (Carolina Gynning); Jarmo (Henrik Dorsin), detentore diritti di un rivoluzionario codice di programmazione; Winston (Oliver Ford Davies) e Clementine (Amanda Walker), signori della guerra e tra i massimi commercianti di mine antiuomo; e infine Uli (Ralph Schicha) e la moglie Therese (Iris Berben), la quale, a seguito di un problema di salute, riesce a comunicare solo attraverso la frase in den Wolken (tra le nuvole). A chiudere il quadretto, l’alcolizzato capitano della nave, Thomas (Woody Harrelson), un “comunista americano” completamente disinteressato alla sua funzione a bordo dell’imbarcazione, o, per quello che conta, all’imbarcazione stessa. Posti i paletti della narrazione, ricchi-in-crociera, le cose cominciano a farsi inquietanti. Perché, durante la cena di gala del capitano, il mare alto e una probabile intossicazione alimentare portano i commensali a vomitare copiosamente, mentre Thomas, rimasto a ubriacarsi con Dimitrij, evita scrupolosamente di riammaestrare la nave. Seguono alcune delle scene più rincuoranti degli ultimi anni, tra cui cessi esplodenti escrementi, e schifi di tal calibro. Uniti a una regia rollante che swinga come lo scafo della nave, ecco, il sacchettino iniziale poteva essere azzeccato. Eppure, non è naufragio. Le cose si complicano quando una pattuglia di pirati di non meglio esplicitati mari esotici pianta una bomba su uno dei ponti, decretando la rovina della crociera e il naufragio di solo una piccola parte di superstiti su un’isola vicina.

Arrivati a questo punto, si capisce che, per gli antecedenti sul curriculum di Östlund, Triangle of Sadness dice fattualmente molto, inaugurando (forse) un’inedita fase narrativa nella filmografia del regista di The Square (2017) e Force Majeure (2014). La sperimentazione di una nuova modalità, per Östlund, di entrata in relazione con il pubblico: scanzonare, e colpire finemente. Perché, a differenza, per esempio, di The Square, gli strati di lettura accumulati da Triangle of Sadness sono diagonali, e anche il mio famoso nonno avrebbe trovato un modo per farci sopra una risata. Centrale, in quest’opera, è il personaggio di Abigail (Dolly De Leon), responsabile delle pulizie di navi di origine filippina, la quale, anch’essa tra i naufraghi dell’isola, sarà protagonista di una revenge sub-plot all’interno dell’economia del film, tanto fondamentale da diventare chiave di volta dell’opera intera. Abigail, infatti, viene tenuta nascosta, per dirla con il consiglio che Michael Haneke dispensò a Östlund nelle prime fasi di lavorazione del film, per il minor tempo utile possibile, fino, cioè, al momento del naufragio. Quando si scoprirà che, uno, è l’unica ad aver avuto la lungimiranza di imbarcare provviste nella sua scialuppa, e due, che è l’unica, tra i ricchi sfaccendati che si sono salvati, ad avere anche solo minime nozioni su come sopravvivere into the wild, la metamorfosi è completa: da ultimo anello della catena evolutiva capitalista, Abigail diventa capo e matriarca, inaugurando sull’isola una nuova forma di potere, perfettibile, ma comunque antitetica a quella maschio-centrica perpetrata dall’ambiente rich-only della nave.

Succedono molte cose, in Triangle of Sadness. Talmente tante che si direbbe il film slabbri, qua e là, corra dietro all’immagine, senza voler lasciare nulla all’intuizione dello spettatore. Se The Square, Force Majeure, offrivano un ventaglio di mondi possibili e interpretazioni, il triangolo della tristezza, per quanto non stia sulle carte nautiche – il termine si riferisce infatti al triangolo rovesciato tra naso e sopracciglia, dove si concentrano le rughe d’espressione dell’invecchiamento – fornisce binari ben fissi da percorrere, non lascia nulla al caso. E accumula una serie di consapevolezze sulla coscienza dello spettatore medio occidentale: la spocchia dei rich & famous, la solitudine del denaro, la soggiogazione dei ruoli di servizio in caste sociali inferiori, ma, soprattutto, l’automatismo per cui tifiamo per chi soddisfa l’occhio e la morale al posto di ricercare, nel caso fosse davvero di nostro interesse, giustizia e giustezza. In questo, Triangle of Sadness è il giusto erede dei primi capolavori di Östlund: una cacofonia di emozioni, situazionismi o nodi di trama che, a seconda, squaderna allo spettatore un retroscena della propria esistenza. E se la lezione sul potere risulta a conti fatti scontata – avvelena, e va bene, e l’underdog assurgerà alla vetta, ma basta che niente spoiler – e spiace vedere personaggi durare solo il tempo del secondo atto (il Capitano di Woody Harrelson meriterebbe una serie spin-off, e chissà che non), alla fine, fossero tutti così, i film diagonali alle masse, il cinema sarebbe la più sana delle arti in circolazione.