Al terzo piano del numero civico due di Senovážné náměstí, a Praga, si trova la biblioteca Libri prohibiti, un fondo in cui sono raccolti i libri e le riviste pubblicati in samizdat; autopubblicazioni clandestine in carta carbone prodotte e fatte circolare di nascosto dalla censura della dittatura sovietica. Tra i titoli conservati è anche Topografia di Sylvie Richterova, del 1981, tradotto in italiano da Cristina Graziadei per la Collana praghese di e/o nel 1986 e oggi ripubblicato per Rina Edizioni. Nella nuova traduzione, Graziadei è stata affiancata dall’autrice stessa, che dal ‘71 vive a Roma, pur alternando da sempre lunghi soggiorni a Praga.

La biblioteca Libri prohibiti raccoglie le voci di scrittori che a costo della vita hanno opposto alla violenza della dittatura la costruzione di un’esperienza di libertà. Il samizdat è il modo con cui la Storia imposta a partire dal colpo di stato del ’48 – e inasprita con l’occupazione del ‘68 – è stata disarcionata dalle sue pretese di verità assoluta. Pretese ammantate dall’ideologia e che in tale veste hanno conquistato cuori in tutta Europa, rendendo ardua e a volte svilente la lotta alla loro decostruzione. Come poter svelare a chi viveva credendo in un sogno l’ottusità reale di un sistema totalitario?

Viene in mente il cortometraggio premonitore La mano (1966) dell’illustratore Jiří Trnka: un vasaio nella sua bottega viene assediato da una gigantesca mano inguantata che gli impone di usare l’argilla per produrre sculture a sua immagine e somiglianza. Vorrebbe fare del vasaio un burattino, ma lui resiste. Finché respira.

Il modo di resistere di Sylvie Richterova è quello di scrivere facendosi guidare dalla memoria: «come la pupilla degli occhi dobbiamo preservare la nostra verità. La realtà si crea solo nella memoria»[1]. Le sue due opere tradotte in Italia, Topografia e Che ogni cosa trovi il suo posto (Mimesis, 2018) sono espressione di un trauma storico e collettivo che ha reso impossibile una narrazione lineare e cronologica. I fili della trama si sfilacciano e ricompongono in un racconto che aderisce al tempo intimo del ricordo: «I secondi non si susseguono nel tempo uno dietro l’altro, colpiscono come le punture di un ago acuminato, attaccano da ogni parte, come quando piove e c’è vento, ma non si portano via l’attesa, non riescono a lavare via nulla»[2].

La memoria in Richterova è sempre intesa come tempo condiviso. In Che ogni cosa trovi il suo posto, sotto le mentite spoglie della vita del narratore, Jan Lazar, il cui nome volutamente rievoca quello di Jan Palach e il suo destino di fuoco, si dispiega la biografia della Cecoslovacchia dal dopoguerra ai giorni nostri. In esilio a Roma, Jan si sente inseguito dallo spettro di una figura emblematica del bolscevismo: quella del delatore, già protagonista di La vita è altrove di Milan Kundera. Nel romanzo della Richterova è personificata in Kazimir, compagno di scuola di Jan e pioniere insieme a lui nell’organizzazione giovanile Culpop, acronimo del Dipartimento di cultura e arte popolare. Anche dopo essersi trasferito a Roma, Jan ha costantemente la sensazione di essere osservato dal suo sguardo, che lo spia dallo specchietto retrovisore dell’auto. La paura e il senso di pericolo si mescolano all’attrazione. Come se lo sguardo del male avesse un potere ipnotico. Jan tornerà a Brno, correrà incontro al proprio destino.

Anche se il narratore è unico, molti sono i punti di vista a cui presta la sua voce, permettendoci di immergerci nella realtà dell’occupazione sovietica della Cecoslovacchia. Ci accompagna nei ricordi della moglie Marie Král, figlia dello scienziato Jaromír Král, esule a Roma scomparso un pomeriggio tornando dal lavoro senza lasciare tracce. Degli intellettuali e artisti che Marie incontra a Praga nel periodo in cui torna nella propria città in cerca di indizi. Dell’amica Kristýna Křišťal, priva di una voce propria da quando da bambina si è vista strappare la propria infanzia – e il proprio padre e la propria casa – per l’espropriazione subita dai kulaki, i contadini benestanti, a seguito della collettivizzazione dell’agricoltura imposta dal partito comunista filosovietico.

Il libro si apre con un falò che Kazimir appicca sulla collina di Hady, nei pressi di Brno, quando è ormai certo che l’incantesimo sovietico sta per infrangersi. Vuole cancellare le prove del suo lavoro di spia. È possibile immaginare che la voce di Jan Lazar funga da risarcimento a quel fumo che si alza e cancella le vite e le sofferenze di una collettività.

Se in Che ogni cosa trovi il suo posto l’andamento narrativo non preclude la possibilità, una volta terminata la lettura, di ricongiungere i fili della trama, in Topografia la struttura viene sempre più a coincidere con un sistema calibrato di illuminazioni e ricordi che non ricadono su un soggetto definito e chiaro, ma sono come pesci catturati dalla rete della memoria di un’intera generazione. Richterova lo chiama romanzo esploso; nell’introduzione all’edizione dell’86, Milan Kundera lo definisce «poesia di romanzo».

Come nel film Il cielo sopra Berlino, di Wim Wenders, in cui il Poeta Omero viene invaso dai pensieri di chi gli è accanto, in Richterova le voci si intrecciano in un collage che proprio per la sua natura spezzata dà traccia della violenza della Storia. Collage è il nome della serie di immagini del poeta e artista visivo Jiří Kolář che accompagnano Topografia già nell’edizione dell’86: particolari di Brno, città natale di Richterova, ritagliati in sagome di farfalle. Loro possono volare oltre il filo spinato, così come fa la memoria grazie ai libri in samizdat.

Collage sono le opere di Antonin, personaggio alter ego dell’autrice nel romanzo, artista in esilio a New York che torna a Praga per vedere di nascosto la madre. Produceva ritagliando

«dai giornali illustrati visi, case, sedie, città, deserti, torri e figure umane, e vi incollava bocche. L’esecuzione tecnica dei suoi collage era fine, precisa e pulita. Incolla bocche sui muri e sui sederi, sulle finestre con le grate e sulle cime dei grattacieli. Penso per segnalare che al mondo non c’è quasi nulla che non si possa baciare»[3].

Solo il primo capitolo segue un percorso classico e riconoscibile: una famiglia ceca fa un viaggio in macchina in Jugoslavia. È la prima occasione per le figlie di vedere il mare. Il racconto centrale, che mostra i tratti di un’Europa divisa, è intervallato dai ricordi della madre, risvegliati da alcuni oggetti che nel romanzo hanno il valore di madeleines proustiane.

Man mano che il libro avanza, le storie si scompongono in immagini e impressioni. Ogni capitolo, fatta eccezione dell’ultimo, Applicando il senso, si apre con la descrizione di una nascita non voluta e del dolore della maternità. Come se, in un paese occupato, ogni nuovo parto fosse da considerare una tragedia; come se non ci fosse più un futuro, ma solo un presente immobile e senza scampo. Nel primo capitolo la madre racconta alle figlie dei salti da cinque gradini e delle bevute di vino cotto per favorire la gravidanza; nel secondo una donna partorisce nell’ex garage di una clinica privata, scaldata da una coperta troppo leggera; nel terzo capitolo una madre vive le grida del figlio come una tortura e non risponde; andando infine nella sua stanza lo trova in terra, dopo un salto fuori dal lettino da cui straordinariamente è rimasto incolume; nel quarto, il bambino è un’ombra nera e immateriale che scompare subito dopo essere nata.

La possibilità di vivere tra i due blocchi in cui il mondo era stato diviso ha permesso a Sylvie Richterova di ottenere per sé quello spazio che separa i sommersi dai salvati. E di affrontare il trauma della Storia del proprio Paese – un trauma collettivo ma anche biografico, che affonda le radici nella scomparsa e nei continui arresti di amici e parenti –senza farsi ingorgare dal suo fardello pesante. Il suo sguardo mette in luce le contraddizioni di un mondo in cui spesso gli oppressori erano vittime a loro volta di un sistema senza vie di fuga.

Non è l’accusa lo scopo di Richterova, anche se i suoi libri possono dirsi ugualmente politici. Il suo è sempre un racconto corale, segnato dalla volontà di riprodurre il mondo sommerso e vastissimo della memoria culturale della Repubblica Ceca. Un paragrafo di Topografia agisce da metafora del lavoro della scrittrice sul passato: le figlie, di ritorno dal mare, lasciano cadere le pietre colorate raccolte sulla spiaggia.

«Tutte le pietre risultarono grigie, da non riconoscersi l’una dall’altra. Le prendevano una dopo l’altra in mano e le osservavano da vicino. Una volta scoperta la bellezza rinunciarvi era inaccettabile. La figlia minore si mise lenta a leccare le pietre, con cura, da ogni parte. Sotto la saliva umida i colori presero a rianimarsi. Mettiamole in una catinella con l’acqua, propose la mamma. Ma il papà non ne era convinto e ci pensò su. E alla fine ebbe un’idea. Verniciarono tutte le pietre con una lacca incolore. Splendevano di nuovo i neri, i rosa, i bianchi e i rossi, di nuovo le venature percorrevano le superfici lisce.

Con l’acqua trasparente o con la lacca incolore.

Le pietre lucide finirono nella vetrina vicino al Dürer non autentico, come ricordo»[4].

La scrittura di Sylvie Richterova è un filo che ricuce i ricordi e, con essi, le ferite di un passato irrisolto. La memoria diventa una forma di resistenza e di lotta che l’autrice svolge con la stessa cura con cui ci si dispone a un rito religioso: si deve ricordare, per far sì che ogni cosa trovi il suo posto. Preservare il passato da semplificazioni o amnesie. Avere il coraggio di tenere tra le mani il sasso più scuro (il male più profondo). Perché anche in esso è l’uomo.


[1] Sylvie Richterova, Topografia, Rina Edizioni, Roma 2021, p.133.
[2] Sylvie Richterova, Che ogni cosa trovi il suo posto, Mimesis, Milano 2018, p. 359.
[3] Sylvie Richterova, Topografia, Rina Edizioni, Roma 2021, p.51.
[4] Sylvie Richterova, Topografia, Rina Edizioni, Roma 2021, p.41.


Sylvie Richterova, Topografia, trad. S. Richterova, C. Graziadei, Rina Edizioni, Roma 2021

L’illustrazione di copertina è di Alessandro Uccelli.