Dopo l’esordio a Venezia, il 16 settembre è arrivato nelle sale italiane Dune, adattamento cinematografico diretto da Denis Villeneuve dell’omonimo romanzo di Frank Herbert. Un film atteso sia da chi non ne sapeva nulla per il solo fatto che ne era stata annunciata e rimandata l’uscita più volte, sia dai lettori appassionati di un ciclo di romanzi che, a partire dal primo libro nel 1965 (di cui Dune traspone la prima metà), ha segnato la storia della fantascienza. Si aggiunga poi il passato ingombrante di una storia che artisti del calibro di Alejandro Jodorowsky e David Lynch hanno cercato di portare sul grande schermo, l’uno fallendo in partenza, l’altro con risultati discutibili (seguiti da due miniserie nei primi anni Duemila). Il progetto di Dune, dunque, si porta sulle spalle un carico di aspettative non da poco.

Ciononostante, l’universo immaginario di Herbert continua ad esercitare un’attrazione potente. Le ambientazioni estreme e l’assortito gruppo di figure memorabili presenti nelle opere dello scrittore americano sembrano esigere il tentativo di una rappresentazione visiva – dai deserti cangianti di spezia del pianeta Arrakis alle atmosfere pregne d’acqua di Caladan, dalla repellenza deforme del Barone Harkonnen alle ombrose e manipolatrici Bene Gesserit, fino all’asciutta fisicità dei fremen, la popolazione autoctona di Arrakis-Dune. Tutto nell’universo di Dune pare fremere, vibrare di potenza che lotta per liberarsi, per tradursi in atto, per venire alla luce. Herbert sembra suggerirci che questo processo avviene pressoché inevitabilmente in maniera violenta: come ripetuto più volte nel libro e nel film, non c’è spazio su Arrakis per la debolezza. Ogni forma di vita, animale e vegetale, è in continua lotta per la sopravvivenza. Dune racconta una realtà dominata da contrapposizioni e incompatibilità: la casa Harkonnen contro la casa Atreides; libertà individuale contro predestinazione di valenza collettiva; democrazia contro jihad; sfruttamento economico contro equilibrio ecologico. Il piano umano, quello politico e quello ambientale si intersecano, si riflettono e si somigliano, ma senza ridursi a metafora l’uno dell’altro.

È forse proprio a questa potenza latente che i successivi adattamenti cinematografici hanno risposto, e che hanno cercato in vario modo di incanalare. Negli anni Settanta l’artista surrealista cileno Jodorowsky avrebbe voluto farne un’opera quasi-letteralmente visionaria che rendesse le caratteristiche dell’esperienza psichedelica («I wanted to make a movie that would give the people who took LSD at that time the hallucinations that you get with that drug, but without hallucinating»), sviluppando la tematica della percezione alterata ampiamente esplorata nel libro. La spezia raccolta su Arrakis è infatti una droga psicoattiva dagli ampi usi: permette ai Navigatori di compiere viaggi nello spazio su cui si basa l’economia dell’Impero, alla sorellanza Bene Gesserit di coltivare la prescienza e alla categoria dei mentat di assolvere alle loro funzioni di calcolatori umani, fondamentali in una società in cui l’uso di calcolatori elettronici è bandito per legge. Come raccontato dal documentario di Frank Pavich del 2013 (Jodorowsky’s Dune), l’impresa di Jodorowsky fallì e il film non venne mai prodotto, sebbene tante pellicole successive – prima tra tutte Star Wars – attinsero a piene mani dall’accuratissimo storyboard che per anni girò negli studi di Hollywood. Nel film di Lynch del 1984, questa pulsione di vita, capace di manifestarsi in maniera violenta e incontrollata, si traduce in un immaginario espressionista e grottesco. La recitazione enfaticamente teatrale, i costumi al limite del kitsch e il trucco prostetico (si pensi alle folli risate e alla pelle butterata e sudata degli Harkonnen, o alla calvizie delle Bene Gesserit) sottolineano per eccesso certi tratti comportamentali o fisiognomici dei personaggi, rendendoli più simili a maschere che a figure psicologicamente verosimili. Scelte di questo tipo hanno accresciuto l’impressione di inaccessibilità e il carattere straniante del film lynchiano, che per questo motivo venne definito da alcuni critici “l’anti-Star Wars”.

L’universo di Herbert è un sistema complesso in cui politica, scienza, religione e processi naturali sono indissolubilmente dipendenti l’uno dall’altro, intrecciati in un equilibrio costantemente sotto pressione e, non di rado, soggetto a improvvisi e violenti riassestamenti. Una delle caratteristiche portanti del romanzo è proprio l’opulenza di informazione e dettagli visivi con cui è reso questo contesto. La dovizia di particolari con cui vengono rappresentate le dinamiche politiche e sociali, i retroscena biografici e storici, nonché le pratiche di addestramento mentale e le tecnologie che permettono di sopravvivere alle condizioni critiche imposte dal pianeta Arrakis, come le tute distillanti fremen: tutto questo non è parte accessoria, bensì materia integrante del romanzo. Rendere sullo schermo questa messe di informazioni che, di fatto, danno corpo e sostanza all’universo di Dune non è cosa facile, ed è il motivo principale per cui la trasposizione cinematografica è sempre sembrata un progetto destinato a fallire. La versione del 1984, complici i pesanti tagli alla sceneggiatura di Lynch e l’inserimento di didascalici voice-over voluti dalla produzione, si affanna a dire tutto e verbalizza dinamiche ambigue in maniera esplicita e ripetuta, con il risultato di una trama fitta e appiattita e un’adesione semplicistica alla lettura “profetico-messianica” delle vicissitudini di Paul Atreides. È proprio su questo aspetto che il film di Denis Villeneuve opta per una soluzione controcorrente e, a mio parere, vincente: il regista canadese mantiene il senso della presenza di questo pesante contesto ma lo esprime, anziché attraverso il solo contenuto, attraverso la forma.

E in effetti anche nel romanzo questa corposità è forma: forma romanzesca, la scelta di una narrazione non pulita e lineare ma cumulativa e digressiva, con tanto di appendici finali. Nel panorama cinematografico attuale, quella di Villeneuve è una soluzione controcorrente perché c’è la scelta deliberata di non esprimere l’abbondanza straripante del romanzo attraverso la quantità (almeno a livello di trama). Anziché incalzare lo spettatore con un ritmo narrativo serrato o inondarlo di riferimenti a innumerevoli personaggi e antefatti di natura nebulosa, che vorrebbero alludere a complessi retroscena politici ma che finiscono semplicemente per risultare pretestuosi (penso, per esempio, alla seconda trilogia di Star Wars), Villeneuve opera in direzione opposta: si concede ritmi più distesi senza trasformare questa concessione in culto dell’immobilità, introduce meno elementi essenziali, capaci di evocare un certo mistero e il senso di un pressante non-detto, ma senza generare un effetto di confusione. Pur restando aderente alla trama, preferisce togliere piuttosto che aggiungere. È una scelta che comporta delle inevitabili semplificazioni, e non mancano recensioni che hanno giudicato la trama troppo impoverita rispetto al romanzo. Ciononostante mi sembra un tentativo ammirevole, che prova a battere una strada diversa.

Lo stesso si può dire del tipo di spettacolarità. Non si può negare che parte dell’insuccesso della versione di Lynch sia dovuta alle soluzioni e mezzi tecnici limitati dell’epoca. Villeneuve non si tira indietro rispetto alla rappresentazione di sequenze grandiose, scene che non sarebbero state possibili trent’anni fa e certo meritano la visione sul grande schermo. Ma si tratta di una grandiosità che si affida più alla qualità della fotografia e all’essenzialità delle forme, a una giustapposizione di scale il cui effetto è quello di schiacciare fisicamente lo spettatore. Torno qui al punto sul ruolo della forma: se nel romanzo le trame politiche, i vincoli sociali e le profezie religiose contribuiscono a tessere attorno ai personaggi una fitta rete che li avviluppa e ne limita e forza continuamente le azioni, nel film questo stesso peso, questo corpo immane delle circostanze, è espresso attraverso la forma visiva, è affidato alle sproporzioni mozzafiato tra le figure umane e i loro spazi, siano essi paesaggi naturali o costruzioni artificiali. I giganteschi cubi che sono le navi interstellari e gli ellissoidi delle porte spaziali hanno poco della convenzionale aerodinamicità avveniristica e tutto, invece, dell’ineluttabilità del destino.

Guardando alla produzione precedente di Villeneuve, forse più che con Blade Runner 2049 (2017) si avverte una linea di consonanza con Arrival (2016), altro film in cui il gioco con forme e proporzioni enigmatiche – le immense astronavi lisce e immobili, gli eptapodi simili a sculture di Louise Bourgeois, la ricorsiva circolarità di simboli linguistici ed eventi – si intreccia al ruolo centrale della colonna sonora. In Arrival era opera dell’islandese Jóhann Jóhannsson, con prestiti da Max Richter. In Dune è la musica di Hans Zimmer a creare un accompagnamento sonoro perturbante e – complice l’impianto audio del cinema – dall’impatto quasi corporeo, con linee lunghe e minimali e i bassi dalle vibrazioni profonde, misti a un uso quasi disumanizzato della voce.

È la convergenza tra dimensione visiva, sonora e narrativa a garantire il successo di Dune. Non sarà un film perfetto (rimane il dubbio che lo spazio dedicato alle visioni prescienti di Paul Atreides sia troppo rispetto all’effettivo contributo), ma è un film che cerca – e a mio parere, trova – una soluzione di equilibrio: tra il tentativo potenzialmente fallimentare di farsi trasposizione fedele del romanzo e il ridursi a mera controparte visiva del libro, fruibile soltanto dai lettori di Herbert e incomprensibile per i profani. Nel ritrovare il giusto mezzo tra queste due tentazioni, Dune di Villeneuve è un bel film che utilizza a pari modo trama, forma visiva e soundscape, senza lasciare che una dimensione prenda il sopravvento sulle altre ma anzi facendole dialogare in maniera sinergica. Non è né un film Marvel ma neanche un film sperimentale. È un kolossal che cerca di non esaurirsi in un effetto sorpresa destinato a bruciarsi dopo la prima visione, un film che cattura la natura visionaria della storia di Herbert, la riporta al pubblico contemporaneo e ambisce a farla durare.


L’illustrazione nella copertina dell’articolo è stata realizzata da Massimo Cotugno.