Simona Menicocci intervista Carmen Gallo, traduttrice della nuova edizione di The Waste Land di T. S. Eliot, uscita per Il Saggiatore a maggio 2021, e Renata Morresi, che ha tradotto Zong! di M. NourbeSe Philip appena pubblicato per le edizioni Benway Series.


Carmen Gallo vive a Napoli. Ha pubblicato Paura degli occhi (L’Arcolaio 2014, finalista Premio Russo-Mazzacurati e Premio Montano), e Appartamenti o stanze (D’If, 2016, Premio Castello di Villalta 2017) e Le fuggitive (Aragno 2020). Nel 2017 ha ricevuto la Menzione Speciale Premio internazionale Alfonso Gatto. Nel 2019 è stata inclusa nel XIV Quaderno di poesia contemporanea a cura di F. Buffoni (Marcos y Marcos), e nell’antologia della giovane poesia europea Grand Tour. Reisen durch die junge Lyrik Europas, a cura di F. Italiano e J. Wagner (Carl Hanser 2019). Un’ampia selezione delle sue raccolte è presente nell’antologia tedesca Die Maulposaune. Gedichte aus Italien, a cura H. Thill e C. Caradonna (Das Wunderhorn 2019). Ha curato e tradotto Tutto è vero, o Enrico VIII di Shakespeare per Bompiani (2017) e pubblicato il saggio sui poeti metafisici inglesi L’altra natura. Eucaristia e poesia nel primo Seicento inglese (ETS, 2018, Tempera Book Prize 2018). Si occupa di letteratura elisabettiana (Shakespeare, Marlowe, Donne, Milton), ma anche di teatro inglese contemporaneo (Churchill, Lustgarten). Il suo ultimo lavoro è una nuova traduzione commentata di The Waste Land di T.S. Eliot, intitolata La terra devastata per il Saggiatore (2021). È nella redazione del blog letterario “Le parole e le cose2”. Insegna letteratura inglese alla Sapienza Università di Roma.

Renata Morresi è nata a Recanati nel 1972. Lavora come ricercatrice per l’Università di Padova. Scrive saggistica e poesia. Tra le sue raccolte poetiche: Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone, 2013), Cuore comune (peQuod, 2010). Nel 2014 ha vinto il Premio Marazza per la traduzione di Rachel Blau DuPlessis, Dieci bozze (Vydia, 2012). Nel 2015 ha vinto il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Collabora con Arcipelago Itaca Edizioni, per cui cura la collana Lacustrine. È nella redazione del lit-blog Nazione Indiana. Le sue traduzioni scelte di Emily Dickinson sono apparse in rivista e nel volumetto Sei nessuno anche tu?, assieme alla serie fotografica di Mario Giacomelli dedicata all’autrice di Amherst (Arcipelago Itaca, 2016). Ha tradotto testi scelti di Robert Lax per L’Ulisse (n.19, 2016) e poi, con Graziano Kratli, Il circo del sole (Il ponte del sale, 2020). A sua cura nel 2020 è uscito Brevi scene di lupi di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie), antologia di testi dal 1966 al 2020; in corso di pubblicazione per gli stessi tipi anche l’ultima raccolta poetica di Atwood, Moltissimo.

Iniziamo da una domanda generale che pongo a entrambe: che cosa vuol dire tradurre per voi e per la vostra esperienza? Come e quando avete iniziato?

Gallo: La traduzione è una delle esperienze di scrittura che preferisco. Mi aiuta a capire meglio i testi, mette alla prova la lingua e la mia capacità di forzarne i limiti e di esplorarne le possibilità. Ho cominciato a tradurre durante gli anni universitari: spesso le traduzioni erano parte dei programmi d’esame (studiavo inglese e giapponese), altre volte il confronto con le traduzioni esistenti mi spingeva a cimentarmi in prove mie. Quando ho cominciato a scrivere poesia, la traduzione di testi è entrata a far parte della mia ricerca, come pratica e come riflessione.

Morresi: Ho iniziato a tradurre durante gli anni dell’università; credo che le prime prove siano state fatte con le poesie di H.D.: erano esperimenti di studio e di interpretazione, ma c’era anche tantissima voglia di impastare le mani nella lingua poetica italiana. Ancora non scrivevo poesie, in modo cosciente almeno, ma scrivevo lunghissime pagine di diario piene di cose multiformi.

Quali altri testi avete tradotto prima di The Waste Land e Zong! ? Che tipo di problemi vi hanno posto in sede di traduzione?

Gallo: Dopo alcune traduzioni di poesia apparse soprattutto su blog (Eliot, Thomas, Stevens, Vijay Seshadri), e altre mai pubblicate, sono arrivate le occasioni di confronto con imprese più grandi come All is True or Henry VIII di Shakespeare (Bompiani) e Lives of Great Poisoners di Caryl Churchill (Editoria&Spettacolo). In entrambi i casi si trattava di opere teatrali ma di due periodi molto distanti tra loro: l’inizio Seicento e gli anni ’90 del Novecento. La difficoltà principale in Shakespeare è mantenere la varietà dei registri senza appiattirla in un tono alto, aulico, che si confonde con il letterario tout court, e travisa invece l’originale, destinato come si sa alla platea molto trasversale del teatro elisabettiano; in Churchill all’opposto il registro sperimentale, straniante e spesso non-sense, imponeva di ricreare un certo caos controllato, tenendo conto anche delle ibridazioni con altre forme di linguaggio, soprattutto musicale e coreutico.

Morresi: Subito prima di chiudere Zong! ho lavorato su Margaret Atwood, che ha una scrittura molto diversa, diretta, un tono conversevole, una lirica ironica, a volte anche molto sincopata, e che si diverte a introdurre piccoli colpi di scena alla fine di ogni testo. Il turpiloquio, le allusioni sessuali, le esclamazioni, le frasi idiomatiche prese alla lettera, i giochi di parole dove domina la componente sonora sono i luoghi dove mi sono soffermata di più, ma di per sé non fanno problema quanto l’escogitare il giusto timbro per un’autrice che denuncia l’apocalisse climatica fuori dalla retorica idealizzante della natura, considerandone l’impatto fin nelle maglie del quotidiano. Diversamente dall’inglese americano la lingua poetica italiana si è aperta solo negli ultimi decenni al common speech, per cui è molto interessante cercare soluzioni che non suonino né prosaiche, né nobilitanti, una lingua media, diciamo, abbastanza limpida e ospitale da accogliere i graffi e le impennate, lo humor nero e le epifanie di questa autrice. Con Rachel Blau DuPlessis, per fare un altro esempio, era stato tutto diverso: la sua è una scrittura poematica ad altissima densità di allusioni letterarie, piena di note al testo e di rimandi interni, con una poetica del midrash che riguarda ogni minimo suono, segno, glifo, cancellatura, spostamento, e così via. Ho dovuto studiare tanto, insomma. Che è sempre vero quando si traduce poesia, intendiamoci, ma nel suo caso si trattava anche di una poetica di sfida e immersione nella conoscenza, quasi enciclopedica, per cui dovevo ben attrezzarmi.

Gallo, quali sono le motivazioni che portano alla ritraduzione di un classico come The Waste Land?

Per me la ritraduzione di un classico ha senso se è mossa dal tentativo di allargare l’interpretazione del testo. Ho letto Eliot all’università. Negli anni successivi, quando tornavo a leggerlo, anche alla luce degli studi che intanto portavo avanti sulla letteratura elisabettiana e in particolare sui poeti metafisici, mi sono confrontata con studi critici che facevano emergere un panorama complesso, che poco trapelava in Italia. Mi è sembrato allora che fosse arrivato il momento di provare a offrire una nuova traduzione/interpretazione del poemetto di Eliot, che tenesse insieme la tradizione italiana con i contributi più interessanti apparsi sull’argomento negli ultimi decenni, e in particolare quelli che rivalutavano la centralità della riflessione storica e trans-storica dell’opera. Volevo distribuire in modo diverso i pesi di mito e storia. Se per Eliot il metodo mitico joyciano consiste nell’usare il mito per dare ordine e significato all’anarchia e alla futilità della storia contemporanea, e se per un secolo si è prestata molta attenzione al mezzo – il mito –, mi è sembrato utile spostare l’attenzione sul fine – la storia contemporanea. È alla luce di questa considerazione, e di altre, che ho cercato di ridare visibilità non tanto al contesto storico o alla guerra, che pure ritorna ovunque, ma soprattutto alla riflessione storica di Eliot sul concitato panorama post-bellico, che intreccia la caduta dei grandi imperi del passato con i timori, quasi profetici, che la pace stipulata a Parigi (Keynes la definisce una “pace cartaginese”) causi ulteriore instabilità fino al crollo dell’Europa. Come dico nell’introduzione, il modello a quest’altezza della poetica eliotiana credo sia John Donne e la sua capacità di tenere insieme il pensiero e la riflessione con l’esperienza sensibile.

Morresi, la tua è la prima traduzione italiana di Zong! di NourbeSe Philip, un’autrice ancora sconosciuta in Italia. Come hai scoperto questo libro? Di che tipo di testo si tratta?

Zong! è un poema di Marlene NourbeSe Philip pubblicato nel 2008. L’autrice è di origine afro-caraibica, nata a Tobago nel 1947 e trasferitasi in Canada nel 1968, dove si è laureata in giurisprudenza e per anni ha lavorato in uno studio legale prima di abbandonare, nel 1983, la carriera di avvocato per dedicarsi totalmente alla letteratura. È autrice di libri di poesia, romanzi, opere teatrali e saggi. Zong! me lo ha fatto conoscere Andrea Raos, egli stesso traduttore da molte lingue, iamatologo e agente catalizzatore di interesse verso grandi opere ignote in Italia.

Zong! è un lungo poema composto da diverse sequenze che elaborano un documento di due pagine in cui si discute il caso della nave negriera inglese Zong. È il 1781 e la nave ha percorso la tratta atlantica verso il nuovo mondo col suo carico umano catturato in Africa da rivendere alle aste dei Caraibi. A causa di un errore di navigazione la nave si trova a corto di provviste e di acqua, e una imprecisata malattia virale sta uccidendo sia gli africani catturati che l’equipaggio. Immaginando che l’assicurazione del viaggio non rimborsi le perdite di merce causate da infezioni o altre carenze, il capitano decide di gettare fuoribordo un certo numero di persone vive e sane (ovviamente prima quelle che hanno meno valore sul mercato dell’economia di piantagione). Circa centocinquanta persone vengono trucidate in questo modo prima dell’arrivo in Giamaica. L’unico documento riguardante la vicenda conservato negli archivi è dunque la registrazione di un dibattito, avvenuto in una corte britannica, in cui si tenta di decidere se l’armatore, William Gregson, stimato trafficante di schiavi inglese, abbia diritto al rimborso per i danni subiti a causa della mancata vendita delle merci, o se invece gli assicuratori, una compagnia di Liverpool, possano impugnare l’incompetenza del capitano come causa della perdita di profitto. M. NourbeSe Philip ha preso le parole del documento – le parole che ho appena usato: profitto, perdita, merci, subiti, danni, ecc. – e le ha esplose sulla pagina, le ha frantumate e cancellate, come parti di corpi che affondano nell’oceano, come grida che risuonano per un attimo nell’aria prima di essere inghiottite dalle acque, come gli spazi lasciati vuoti, rimossi, dalla storiografia, nonché dalla coscienza della modernità. Le ha sbriciolate e fatte attraversare da altre lingue – le numerose lingue europee e africane che erano parlate a bordo –, ricomposte in piccoli grappoli agrammaticali eppure densi di apparizioni, piccoli squarci da un passato inenarrabile. Una fortuna immensa, una ricchezza senza precedenti, la modernità e la sua alleanza con la tecnica e la razionalità per secoli hanno rimosso la pratica disumana della schiavitù dei beni mobili che ne ha costituito il fondamento materiale. Questo possiamo raccontarlo e analizzarlo, e non da oggi naturalmente, ma l’orrore presente a bordo di quella nave, quello, secondo Philip, non può essere impersonato, incarnato da un discorso ‘coerente’, sostenuto da una rappresentazione trasparente. Da cui la via negativa scelta dall’autrice, in cui le strategie della scrittura concettuale e del language writing incontrano le istanze di soggettività a lungo lasciate ai margini, subalterne. Possono parlare? Dal fondo del mare, dove ormai sono perle i loro occhi, coralli le ossa… – tornano in forma di frammenti anche i versi di Shakespeare un tempo ripresi da Eliot, a sua volta ripresi da Robert Hayden proprio per parlare del famigerato middle passage atlantico e delle voci lì disperse, di cui Philip ha seguito le tracce. Possono ancora essere udite? Un’opera che mette in questione le stesse possibilità comunicative della lingua e le apre al grido, al lamento, al mormorio, alla litania, al silenzio, è indubbiamente sfidante per chi fa traduzione.

Un’opera come Zong! certamente denuncia quanto la storia del successo del capitalismo (l’affermarsi delle assicurazioni, l’economia marittima, la rivoluzione industriale, e così via) sia legata alla violenza brutale e allo sfruttamento disumano. Negli anni in cui si consolidava la teoria dei diritti naturali, poi. Una contraddizione spaventosa difficile da razionalizzare se non interrogando le menzogne, i silenzi e le negazioni di fondo. Per questo Zong! è così pieno di spazi vuoti, come a rispecchiare certe rimozioni.

Gallo, come sei arrivata a pensare di cambiare la traduzione italiana del titolo de The Waste Land da La terra desolata a La terra devastata? Hai avuto paura di incorrere in critiche e attacchi? Come è stata accolta finora questa novità, a tuo parere?

Ho deciso di cambiare il titolo italiano, o meglio, ho scelto una nuova traduzione del titolo originale solo alla fine, quando avevo già cominciato a mettere insieme le note di commento che avrei aggiunto a corredo del testo. Alla luce della costellazione di riflessioni e riferimenti che ricostruivo, mi è sembrato che “la terra desolata” rispondesse solo in parte al discorso che emergeva, e che ci fossero sufficienti elementi per proporre invece devastata. Devastato e waste hanno una radice comune, vastus, che significa sia ‘desolato, arido’, che ‘devastato’ da guerre o scorribande.

Nella prima delle note aggiunte al testo, Eliot scrive che il titolo è tratto dalle leggende del Graal raccolte da Jessie Weston, e in quelle leggende la waste land è sia una terra senza acqua, sia una terra devastata dalla guerra (per effetto, si legge, delle ravages of war). Nella storia linguistica dell’italiano, desolato e devastato sono stati a lungo sinonimi, anche se nel tempo devastato ha conservato la traccia di un’azione compiuta che desolato ha perduto. Mi è sembrata un’occasione esplorare questo aspetto dello spettro semantico di waste finora trascurato – la devastazione, anche perché altri aspetti formali (la frammentarietà del testo, “il mucchio di immagini sfatte”, le rovine della tradizione da puntellare) e di contenuto (le profezie di città devastate di Ezechiele, la Tebe devastata dalla peste di Tiresia, l’orrore di Kurtz, le macerie spirituali e materiali dell’Europa del primo dopoguerra) sembravano andare nella stessa direzione.

Ciò detto, ho bene in mente quanto sia stata influente la tradizione novecentesca della “terra desolata” sulla cultura italiana del Novecento, e il mio intento non è sfidare o cancellare quella tradizione e la sua rilevanza né tanto meno il ruolo di mediazione fondamentale degli anglisti precedenti. Piuttosto, vorrei offrire uno sguardo ulteriore, per certi versi complementare.

Ho valutato anche “Il paese guasto” e “La terra guasta”, spesso suggeriti in nome della citazione dantesca a lnferno XIV, 94 («In mezzo mar siede un paese guasto»). Tuttavia, non mi convinceva l’idea di rendere esplicito il riferimento nella traduzione, di fatto imponendo un filtro dantesco all’intero testo, anche perché waste land è un’espressione che troviamo ampiamente nella tradizione inglese delle leggende del Graal e non solo. Eliot l’aveva molto probabilmente già incontrata a scuola attraverso una delle sue opere preferite, Mort d’Arthur (1485) di Thomas Malory, di cui possedeva un’edizione per bambini già a undici-dodici anni, ma comunque nella cultura inglese non è riconducibile a un autore specifico. Resterebbe infine da chiarire, qualora fosse plausibile l’allusione dantesca, per quale motivo Eliot abbia deciso di non dichiarare il riferimento, e di rimandare invece esplicitamente per il titolo alle leggende di Weston.

Quanto alle critiche, era prevedibile che nascesse un dibattito sul titolo e in generale sull’interpretazione che provo a dare del poemetto, e tutto sommato mi pare una buona notizia.

Morresi, quali difficoltà hai riscontrato nella traduzione del testo esploso di Zong!? E come le hai superate?

Non so se le ho superate, di certo ho cercato di affrontarle. Uno dei problemi è stato mantenere abbastanza aperti gli spazi tra i frammenti e i grappoli di parole, per via della fisiologica lunghezza dell’italiano rispetto all’inglese; questo mi ha costretta a tradurre gli spazi vuoti non come fossero meramente un certo numero di tabulazioni sulla pagina, ma come parte integrante del testo, spazi di relazione e di equilibrio. Un altro dei problemi è stato mantenere l’incomprensibilità: il linguaggio ha questa ostinata tendenza a significare nonostante tutto! È una battuta, ma è così: l’italiano è una lingua flessiva, con le parti del discorso spesso caratterizzate da una morfologia ingombrante, mentre l’inglese è più isolante e lo spostamento, e quindi l’ambiguità, tra parti del discorso è molto semplice, e non c’è bisogno di suffissi, declinazioni, marche di genere, tutte caratteristiche dell’italiano. Ho dovuto perciò tendere e torcere la lingua, forzarla ai suoi estremi, proiettarla di continuo in avanti, verso un possibile significato atteso ma non necessariamente compiuto. Molti dei giochi linguistici fatti da Philip non hanno un equivalente possibile in termini lessicali (per esempio: truth contiene ruth, che è un nome di donna che ricorre, la destinataria di una sorta di lettera disseminata, scritta da un marinaio roso dal senso di colpa, ma nel suo significato arcaico indica la pena, il lutto), tuttavia la sua procedura di fissione della lingua per ottenere ulteriori significati l’ho potuta adottare in modi sorprendentemente efficaci, producendo adattamenti inaspettati. È stato bello questo modo di muoversi attraverso i lemmi, i clusters, le pause, costruendo un discorso che fugge sempre un passo più avanti di chi legge. La traduzione ha seguito l’originale in questa qualità liquida del linguaggio. Spero che l’abbia anche incontrato.

Gallo, come ci si relaziona con la tradizione delle traduzioni di un classico? In che modo te ne sei distaccata?

Penso alla tradizione come uno strumento utile finché siamo disposti a discuterla e ripensarla laddove si impongano punti di vista o urgenze diverse, e considero dunque le nuove edizioni commentate dei classici, e non solo le traduzioni, come occasioni per tornare a riflettere sui testi. Le opere letterarie non sono reliquie da adorare, ma opere umane che è legittimo (io direi anche necessario) investigare tenendo presente il tempo e lo spazio da cui parliamo.

Quanto al modo in cui ho lavorato alla traduzione, posso dire che conoscevo bene alcune versioni italiane, perché le ho studiate e talvolta usate per insegnare: Praz, Sanesi, ma soprattutto Serpieri. Oltre alle traduzioni/edizioni italiane precedenti, sono state molto utili anche le più recenti edizioni inglesi e americane e l’epistolario di Eliot, perché approfondendo dal punto di vista critico il senso del testo ho potuto vagliare un ventaglio più ampio di soluzioni traduttive.

Rispetto alle traduzioni precedenti, posso dire che ho cercato un equilibrio tra il rispetto del testo originale e la sua efficacia espressiva nella lingua di arrivo. In particolare, ho prestato molta attenzione al ritmo e alla modulazione dei registri linguistici (lirici, biblici, colloquiali, ecc.), cercando di restituire la varietà e la polifonia originale, evitando inutili escursioni verso l’alto (il ‘poetese’, per intenderci) cui talvolta si ricorre come automatismo nelle traduzioni poetiche, ignorando o sottovalutando la varietà di registri della poesia italiana del Novecento.

Come è nata la vostra collaborazione con Il Saggiatore e Benway Series? Vi hanno proposto loro i progetti o siete state voi?

Gallo: Ho proposto io di ritradurre The Waste Land al Saggiatore. Mi piaceva la loro idea di ripresentare i classici in una veste nuova, affidata a scrittori o poeti, e mi sembravano perfetti per il tipo di edizione che avevo in mente, rivolta sia a lettori comuni che a specialisti: un’introduzione-mappa che aiuta a orientarsi; il testo originale e la traduzione non appesantiti da note a piè di pagina; e solo alla fine, per chi vuole approfondire, un commento quasi verso per verso.

Morresi: Non mi ricordo più. È nata parlando, credo. Andrea Raos, che mi aveva già convinto a tradurre Zong!, ha conosciuto Mariangela Guatteri di Benway Series, che io già conoscevo e stimavo, e parlando delle cose su cui stavano lavorando le ha proposto di portare avanti questo progetto editoriale, poi mi hanno chiamata ed è cominciato tutto. Il libro è il risultato di un lavoro collaborativo molto forte tra noi tre, visto che effettivamente Andrea ha tradotto non solo il documento Gregson vs Gilbert ma anche gli apparati e la postfazione dell’autrice, mentre Mariangela si è occupata delle tavole verbo-visive dell’ultima sezione.

Entrambe, oltre a tradurre, siete delle poete e delle insegnanti: a vostro avviso l’esperienza della scrittura poetica e dell’insegnamento influiscono sulla pratica di traduzione? Se sì, in che modo?

Gallo: Mi verrebbe da dire che sono tre esperienze di mediazione molto simili, che si influenzano reciprocamente. L’insegnamento è la mediazione più difficile, e quella con la responsabilità più grande: mediare la complessità dei contenuti di partenza, meditando di volta in volta le formulazioni migliori, cercando le chiavi più adatte per suscitare interesse e accendere discussioni. Quanto all’influenza tra scrittura e traduzione, credo sia per me difficile stabilire se l’importanza che ho accordato al ritmo dei versi di Eliot sia stata influenzata dalla mia scrittura poetica o se invece non sono state le esperienze di lettura e traduzione (poetica e drammatica) del passato a plasmare il ritmo della mia scrittura.

Morresi: Mi viene subito da dire di sì, anche se non ho mai pensato in modo analitico a come questo avviene. Credo che la traduzione sia soprattutto una pratica ermeneutica, e la poesia una modalità della conoscenza, ma esse sono mischiate col sensibile, vive di esperienza, sporche di discorsi e allusioni che non tacciono mai. In questo senso non riesco a declinarle come pratiche individuali o astratte: per me sono inestricabilmente legate alla loro trasmissione, anzi, alla loro condivisione.

Le opere che avete tradotto hanno influenzato la vostra scrittura? Queste ultime, in particolare? In che modo?

Gallo: Molto. Devo a The Waste Land la colpa di aver cominciato a scrivere poesie. Avevo superato indenne la soglia dei diciott’anni, poi la débâcle.

Morresi: Mi auguro di sì, tendo a cercare di tradurre autori e autrici da cui voglio imparare qualcosa. La tensione poematica di Zong! mi interessa molto, per esempio, come pure il rapporto con la storia e la gestione degli spazi.

Come trovate l’equilibrio tra rendere la voce di un autore o di un’autrice e contemporaneamente trovare la propria voce di traduttrice?

Gallo: Non penso, quando traduco, a trovare la mia voce di autrice o traduttrice. Nel corpo a corpo con il testo non ho mai troppo tempo per queste distinzioni. La mia voce è lì, che negozia con il testo, un po’ lo asseconda, un po’ lo forza dov’è più resistente e un po’ si arrende dove non si lascia piegare. L’attenzione è tutta sul testo, sul processo, sull’esito sperato.

Morresi: La ‘voce’ non è che una metafora per parlare dello stile, e lo stile poetico non è mera forma, tecnica, aspetto, ma è saturazione del pensiero in gesto. Chi traduce cerca una mediazione per avvicinarsi a quello, ma non può farlo che attraverso la sua formazione e visione. Per restare nella metafora della voce, dunque, non si tratta di simulare la voce di qualcun altro, come farebbe un attore-imitatore, ma di interpretare quel testo con la propria voce, che viene informata, formata dal discorso, certamente non lo riproduce come farebbe un software di lettura, ma lo interpreta, appunto, lo fa parlare. Non possiamo avere, dunque, né la cosa in sé (per quella dobbiamo leggere il testo nell’originale), né la cosa neutralizzata, priva della traccia del lavoro traduttivo. In mezzo a questi due poli impossibili c’è la vasta zona di frontiera dove si svolge il processo di traduzione; la sua verità è processuale, appunto, e di volta in volta ri-negoziata.

In base alla vostra esperienza diretta e indiretta, qual è la situazione dell’industria editoriale italiana rispetto alle traduzioni? Vi sembra migliore o peggiore di quella di altri paesi?

Gallo: Le mie incursioni nel mondo della traduzione editoriale rientrano per lo più nell’ambito della mia attività di ricerca, e talvolta a margine della scrittura poetica, dunque solo occasionalmente mi sono confrontata con i problemi dei traduttori e delle traduttrici professionisti. Temo, dunque, di non rappresentare al meglio la categoria e le sue difficoltà. Ciò detto, sostengo le battaglie portate avanti da varie associazioni di categoria (penso a Strade tra le altre) non solo per un maggiore riconoscimento e una maggiore visibilità, a partire dai nomi in copertina e nelle indicazioni bibliografiche, ma anche per la determinazione di minimi di compenso e la creazione di fondi specifici di sostegno.

Morresi: Non so rispondere precisamente, ho pochi dati in mano. Una statistica molto citata negli Stati Uniti vuole che la percentuale dei libri tradotti verso l’inglese in quel paese arrivi a malapena al 3 per cento. Di traduzione da quelle parti si occupano pochi editori specializzati, e non i grandi dell’industria editoriale. Qui in Italia è un po’ il contrario: si traduce moltissimo e a occuparsi di libri in traduzione sono soprattutto le case editrici maggiori. È vero che non tutti i settori sono uguali: leggo che più del quaranta per cento dei libri per ragazzi sono tradotti da altre lingue, ma immagino che le percentuali siano molto diverse a seconda dei generi e delle varie categorie di marketing. So che per quanto riguarda la poesia contemporanea – come spesso accade la poesia è un mondo alternativo – le traduzioni sono poche e rischiose: la poesia tradotta difatti si vende pochissimo. Non penso a quei classici tipo Neruda, Lorca, Baudelaire, ristampati ciclicamente e posti in ordine alfabetico sugli scaffali dei librai, ma ai libri di autori viventi o non canonici: ignorati dalla grande editoria, hanno per lo più una vita clandestina, affidata alla bravura del piccolo editore che crede in un progetto e osa investirvi risorse ed energie.

Avete mai l’impressione che il lavoro di traduzione non sia considerato un lavoro a tutti gli effetti? Se sì, secondo voi perché accade?

Gallo: Come dicevo prima, non credo di poter rispondere adeguatamente a queste domande perché non sono una traduttrice professionista. Tuttavia, se restiamo nell’ambito delle impressioni, è evidente che la traduzione non gode ancora di uno statuto autoriale pienamente riconosciuto: sono note le difficoltà dei traduttori a vedersi pagati dignitosamente o anche solo pagati (anche se questo riguarda anche altre figure del lavoro intellettuale).

Morresi: In un paese in cui il diritto al lavoro e i diritti del lavoro sono sempre sotto attacco non è strano, purtroppo, che anche nel settore editoriale ci sia poca chiarezza e molto sfruttamento. Non esiste un contratto nazionale – in molti casi non esiste alcun contratto –, quasi nessuno riceve royalties, la cessione dei diritti per vent’anni è la norma, si fa fatica persino ad avere il nome di chi ha fatto la traduzione in copertina, e per motivi molto diversi spesso il traduttore, come ogni precario cognitivo, è ricattabile e si trova ad accettare compensi da fame e a volte non riesce proprio a farsi pagare, anche da ‘stimate’ case editrici. A questa instabilità economica e alla mancanza di tutele si aggiungono dei pregiudizi diffusi: quello tradizionale considera il traduttore più un inserviente che un autore e oblitera del tutto il suo contributo creativo; l’altro pregiudizio è al lato opposto ed è quello che considera il lavoro di traduzione un compito quasi mistico, da cui emana un’aurea di gratificazione e bellezza che, guarda un po’, rimane spesso l’unico compenso che ci si ritrova in mano.

Io non sono una traduttrice professionista, semplicemente un’amante della traduzione di poesia, per la quale mi pare abbastanza impensabile ricevere una retribuzione adeguata all’investimento (vedi: una mattina per mettere una virgola, un pomeriggio per toglierla, ecc.), poesia che spesso riesce ad essere pubblicata solo grazie ai contributi degli istituti di cultura esteri. Ma la poesia, ancora una volta, è un discorso a parte. Ci tengo a dire, però, che gli amici e le amiche che lavorano con la traduzione letteraria lottano per ottenere il diritto di essere considerati i professionisti che sono, autori e autrici di opere d’ingegno. La strada è ancora lunga. Di recente il ministro Franceschini ha aperto un tavolo di lavoro in vista di una imminente legge di sistema per il libro, che sarà legata alla prossima legge di bilancio; speriamo che ascolti attentamente la componente dei traduttori editoriali.

Vi è mai successo di pensare che qualcosa fosse intraducibile? Se sì, come avete affrontato quei momenti? Potete fare almeno un esempio?

Gallo: Io non credo esista l’intraducibile, perché non credo alla traduzione come un processo univoco tra due lingue. È compito di chi traduce tentare, provare, approssimarsi al senso, inventare strategie, nei casi più difficili arrischiarsi. Considerare il traduttore o la traduttrice come chi si limita a un passaggio tra le lingue, o peggio ancora come chi è autorizzato a tradurre solo se c’è un’esatta corrispondenza è un modo per svilire la complessità del lavoro traduttivo.

Morresi: Continuamente. Poi però mi metto lì e traduco. Prendiamo, per esempio, DuPlessis, che conia molte parole nuove fondendo insieme più lemmi: in un testo scritto all’indomani della prima guerra del Golfo propone un lungo elenco di scorie della post-modernità che finiscono per mettere in dubbio la natura stessa del linguaggio come fenomeno che serve alla comprensione tra esseri umani, evocando il suo stesso stupore a essere “so little wordth”, “così tanto antiparola”. Usare la stessa procedura dell’autrice mescolando insieme word = parola e worth = valore dava dei risultati troppo goffi (così poco palore? così poco varola?), dunque ho cambiato strategia, ho rimodulato la prospettiva (dal so little al così tanto) e ho usato un suffisso per lessicalizzare quell’idea, suggerendo che antiparola stia per parola senza valore. È una soluzione che tiene conto anche di tante invenzioni nella poesia di ricerca italiana (lo pseudocavallo di Neri, il si-si-significare di Zanzotto, ecc.). Temporanea, come tutte le soluzioni traduttive. Ma le cose più difficili sono le più facili, in realtà, perché ti inventi un modo per far posto a quella difficoltà, per accoglierla. Sono le cose facili le più pazzesche. Prendi “the | one | the | man | y || the | man | y | the | one” di Robert Lax, poeta verbo-visivo minimalista che lavora sul rapporto tra il singolo e il molteplice, la comunità umana e l’individuo, la società e il cittadino, ecc. Come faresti?

Quale sarà a vostro giudizio il futuro della traduzione a fronte del machine learning? La traduzione umana sarà ancora necessaria o verrà inesorabilmente sostituita da software che imparano e eseguono operazioni complesse? Pensate che la traduzione della poesia sia salva da questa diffusa tendenza all’automazione? Perché?

Gallo: Credo che possiamo stare abbastanza tranquilli. Se si arriverà al punto di accontentarsi delle traduzioni automatiche, significherà che è scomparso anche il pubblico capace di leggere e capire profondamente il valore della letteratura. Non arrivo a essere così pessimista sul genere umano.

Morresi: Speriamo che la traduzione automatica diventi sempre più pratica e funzionale, così al mio prossimo viaggio in Cina non dovrò fare i salti mortali per chiedere dove posso trovare una farmacia. Ma la praticità e la funzionalità non sono esattamente i parametri con cui si misura una lingua poetica. Chissà, forse dopo la singolarità tecnologica, quando avremo intelligenze artificiali super-complesse e inarrestabili, magari avremo pure macchine sensibili, ambiziose, colte o sognatrici, e col gusto per la poesia.

C’è un testo che sognate di tradurre? Perché?

Gallo: Vorrei continuare a tradurre classici. Usare la mia formazione accademica e la mia ricerca poetica per fare da ponte tra i lettori specialisti e il pubblico comune. Vorrei (beckettianamente) provare.

Morresi: Sì, ma preferirei non dirlo, per scaramanzia! Mi piace tradurre le cose che non trovo in italiano, con l’intima speranza di ispirare qualcuno verso quella dimensione poetica.


T.S. Eliot, La terra devastata, a cura di Carmen Gallo, Milano, Il saggiatore, pp. 176, € 19.


Marlene NourbeSe Philip,
ZONG! Come narrato all’autrice da Setaey Adamu Boateng. Traduzione: Renata Morresi.
Traduzione di «Notanda» e di «Gregson vs Gilbert»: Andrea Raos.
Traduzione di «Ẹbọra»: Mariangela Guatteri.
Colorno, Tielleci, 2021, Benway Series – 15, pp. 236, €25.