Un interessante fenomeno editoriale dell’anno che ci siamo da poco lasciati alle spalle è il piccolo ma notevole revival legato alla figura di Alice Ceresa, scrittrice e traduttrice ticinese sconosciuta ai più, ma che merita un pubblico più ampio e maggiore attenzione critica di quanta ne abbia ricevuta fino a oggi. Ceresa condivide un destino comune ad altre scrittrici italiane o che, come in questo caso, hanno scelto la nostra lingua per esprimersi, vale a dire quello di aver scritto molto e pubblicato poco: la figura di Ceresa è infatti nota principalmente per il romanzo-trattato La figlia prodiga (Einaudi 1967) e per il romanzo breve Bambine (Einaudi 1990), opere che insieme al racconto La morte del padre, pubblicato su «Nuovi Argomenti» nel 1979, rappresentano il corpus delle sue opere edite, radunato dalle edizioni La Tartaruga nel 2004 con un’introduzione di Patrizia Zappa Mulas. Eppure l’exploit della Figlia prodiga alla sua uscita aveva fatto balenare presagi assai differenti sulle fortune venture della scrittrice: titolo inaugurale della prestigiosa ‘serie rossa’ della collana einaudiana «La ricerca letteraria», diretta da Guido Davico Bonino, Giorgio Manganelli ed Edoardo Sanguineti, il libro si aggiudicò il Premio Viareggio come miglior opera prima narrativa nel 1967 e fu salutato da Maria Corti nel suo Viaggio testuale (Einaudi 1978) come uno degli esempi più interessanti di sperimentalismo prosastico del lustro ’65-’70.

È proprio la voce di Manganelli, sincero ammiratore dell’esordio ceresiano, a testimoniare l’attesa trepidante creatasi intorno al secondo libro dell’autrice, che giungerà alle stampe più di vent’anni dopo: «Mai scrittore al mondo riuscì a frustrare un’impaziente attesa in modo più meticoloso. Passarono gli anni, e ogni tanto giungeva una voce: la Ceresa lavora al secondo libro. Gli anni divennero decenni». L’aneddoto segnala il perfezionismo di Ceresa e l’inesausto e rigoroso lavoro di controllo al quale sottoponeva ogni sua pagina. Il frutto di questa intensa attività di scrittura e autocorrezione privata è rappresentato dal cospicuo numero di manoscritti conservati presso l’Archivio Svizzero di Letteratura a Berna. È nel quadro di questa etica scrittoria che non si può salutare con gioia il ritorno sugli scaffali delle librerie del Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (d’ora in poi Pd; nottetempo 2020), incompiuto work in progress di Ceresa, cantierato negli anni ’70 e cesellato fino agli ultimi anni della sua vita, oggi disponibile in una nuova edizione ampliata – la precedente risale al 2007 – per le cure di Tatiana Crivelli.

Il libro si presenta a tutti gli effetti come un dizionario vero e proprio, nel quale Ceresa porta al massimo grado quella paziente attività di distillazione verbale che, anche nella sua narrativa, mira all’astrazione definitoria e alla generalizzazione scientifica. Questa riedizione è stata ‘accompagnata’ da un piccolo vademecum a più voci, quell’Abbecedario della differenza (nottetempo 2020), curato da Laura Fortini e Alessandra Pigliaru, che integra criticamente il Piccolo dizionario ricalcandone la forma e ponendosi come una guida di secondo grado all’ universo poetico e ideologico di questa autrice; oltre a queste iniziative si aggiunge anche il numero monografico della rivista «Le Voci della Luna», recentemente presentato in uno stimolante incontro online, riascoltabile qui. La prosa di questa figura affascinante e appartata delle nostre lettere si impone alla coscienza del lettore contemporaneo non grazie a forzati ripescaggi critici, bensì per l’intransigenza morale della sua proposta estetica e per l’assoluta attualità della sua prospettiva: in questo caso l’omaggio è dovuto.

L’incubazione di una scrittura definitoria e impersonale per statuto di genere come quella del dizionario non costituisce né un’introflessione né uno scarto laterale della postura letteraria di Ceresa, ma una sua naturale forma evolutiva; le lettrici e i lettori della Figlia prodiga e di Bambine avranno bene in mente l’andamento argomentativo del periodare e gli affondi miranti alla perimetrazione concettuale. Si comprende come si possa cristallizzare una posizione di questo tipo leggendo le dichiarazioni poetiche di Ceresa, autrice che rifugge l’autobiografismo e l’uso di personaggi, respingendo anche la forma del romanzo tradizionale, considerata in generale poco adatta alla scrittura femminile – aggettivo assai problematico nel lessico ceresiano, ma che conservo per esigenze di chiarezza.

Si può intuire come la durezza di queste contraintes poetico-ideologiche non abbiano di certo facilitato lo sdoganamento del lavoro di questa autrice: anche se la vulgata vuole l’Italia come un paese dalla tradizione romanzesca abbastanza debole, soprattutto se confrontata con quella di altri paesi europei, nel secondo Novecento il poter vantare nel proprio repertorio almeno un romanzo editorialmente efficace costituiva un prerequisito pressoché tassativo per un autore (e ancora di più per un autrice) per sperare di radicarsi presso un pubblico ampio: niente di più lontano, mi pare, dalle ambizioni di Ceresa. Se si passano in rassegna mentalmente le scrittrici di quel periodo che godono ancora oggi di qualche popolarità si noterà come i loro libri non possano rispettare contemporaneamente tutte e tre le ‘regole’ dello scrivere ceresiano, che rendono paradossalmente il dizionario una forma pienamente congeniale al suo estro, che evita la pesantezza subordinante che in certi frangenti zavorra La figlia prodiga, ma non Bambine, il frutto narrativamente più maturo di questo lavoro in levare, in bilico tra finzione e astrazione. Come asserisce anche Tatiana Crivelli in apertura alla sua introduzione al libro: «Per il suo essere ostinatamente in tensione tra due ambizioni – di concisione, da un lato, e di universalità, dall’altro – la forma del dizionario è quanto di meglio la penna di Alice Ceresa potesse trovare per esprimere i propri intendimenti letterari» (Pd, p. 9).

Per la necessaria e implacabile verve demistificatoria del suo sguardo, Ceresa nel Piccolo dizionario pare vestire i panni di una naturalista della grammatica patriarcale e studiosa del lessico virocentrico della nostra società di ieri (e di oggi). Il libro oscilla tra l’ironia flaubertiana del Dictionnaire des idées reçues – tradotto in italiano da Wilcock, autore la cui sprezzatura non è poi così dissimile da quella di Ceresa – e l’obiettività di un’aspirante etologa: le descrizioni del comportamento animale di Konrad Lorenz risultano un modello decisivo per la scrittura eidetica di Bambine, ma credo anche per questo progetto. Non bisogna dimenticare inoltre che Ceresa fu amica stretta di intellettuali fuoriusciti come Ignazio Silone e Franco Fortini, che proprio nel ’68 pubblicò Ventiquattro voci per un dizionario di lettere; ma al di là delle possibili associazioni con altri dizionari e sillabari letterari più o meno noti, il lavoro di Ceresa spicca per la personalità di taglio e per l’urgenza che lo anima, che si conserva intatta nonostante il passare degli anni.

Nel nostro orizzonte d’attesa lo statuto di questo libro pare felicemente problematico, perché se da una parte l’autrice rivendica con decisione la necessità di attraversare il tema dell’inuguaglianza femminile attraverso i mezzi della letteratura, e l’uso di espedienti finzionalizzanti lo dimostra, dall’altra la coesione argomentativa del discorso potrebbe farlo ascrivere altrettanto legittimamente al territorio della non-fiction. Tale coesione è rafforzata dal sistema di rimandi interni fra le diverse voci dell’opera, che danno vita a un’opera rizomatica e policentrica e che pongono i fondamenti di una visione coerente. La filosofia della letteratura ha evidenziato come non esistano vincoli tematici o stilistici che attribuiscano ad un’opera in modo automatico e definitivo uno statuto finzionale o non-finzionale: questo statuto può variare a seconda dalla percezione e delle esigenze di una comunità interpretativa storicamente determinata.

Come affermato in una lettera a Michèle Causse del’ 76 riportata nell’introduzione (Pd, p. 15), il Piccolo dizionario invita a un “giro d’orizzonte” che intende integrare le rivendicazioni e le proposte del femminismo di quegli anni, ribaltando il tavolo: non impostando dunque un discorso che verta sulle conseguenze di una lingua ideologicamente iniqua, bensì sulle sue premesse, sugli elementi minimi che la compongono e che proiettano a loro volta una visione del mondo distorta, generatrice di ulteriori e assai più pratiche ineguaglianze. La provocazione di questa proposta nel contesto dei logocentrici anni ’70 mi sembra evidente: come è possibile impostare correttamente qualsiasi discorso che non risulti opprimente e offensivo nei confronti delle donne se le stesse parole delle quali ci serviamo esemplificano di per sé tale oppressione? Ceresa impiega quella stessa tensione definitoria che ha colato nella sua opera per decostruire la violenza intrinseca alle nostre definizioni, che spesso vagolano nel dizionario personificate come larve leopardiane: è così ad esempio per la Biologia, che «posseduta da furori classificatori e discriminanti» (Pd, p. 30) si è spesso trovata costretta a ritrattare gli esiti di questa mania, eccezion fatta per quella differenza biologica che separa gli esseri fecondanti dai fecondati e che «ci affligge oggigiorno soprattutto in campi e ambienti assai lontani da ogni biologica scientificità» (Pd, p. 33). Tutto il sistema culturale descritto da Ceresa dipende a monte da questa definizione-distinzione per genus et differentiam

La pretesa eccezionalità umana nel regno animale (Etologia) costituisce un termine di paragone che accentua l’effetto di straniamento rispetto a pratiche, istituzioni e concetti connaturati al nostro habitus, dei quali l’ironia sferzante di Ceresa sottolinea la colpevole aleatorietà (Anima; Coscienza; Dio; Morale. Moralità; Ragione. Ragionare) e l’arbitrarietà tendenziosa. Un posto centrale nel disegno dell’opera è ricoperto dalle voci Donna e Femminile. Femmina, legate fra loro e dalle quali derivano nell’opera numerosi corollari in chiave familiare-patriarcale (Famiglia, Figli, Madre), sessuale (Sessi (guerra dei); Sesso) e letteraria (Letterario (personaggio femminile il); Scrittore. Scrittrice):

Donna: termine arcaico che definisce la femmina biologica nella società umana. […] Nessuno sa come e che cosa sarebbe la femmina umana se non avesse già dovuto in tempi lontani abbandonare la naturale identificazione biologica per l’innaturale assunzione di un vuoto involucro concettuale quale è appunto il termine di donna. (Donna, Pd, pp. 41-42).

È pertanto donna anzitutto quanto distingue inesorabilmente e incontrovertibilmente la femmina, anche donna, non tanto dal maschio, che sarebbe una semplice differenziazione biologica, quanto dall’uomo che esegue in quanto homo sapiens ogni qualsivoglia attività sapiente dalla quale anche denominazioni, definizioni e concettualizzazioni discendono (Femminile. Femmina, Pd, p. 50)

Da questi brevi estratti si evince come spesso le definizioni alla base del nostro sistema culturale proiettino le differenze biologiche sulla Cultura, che, come ricorda Ceresa, è innanzitutto un «fatto quantitativo» (Pd, p. 38). Facendosi ventriloqua di quel sistema grammaticale che vende la cultura per natura e scegliendo con ironia un genere prescrittivo e atemporale come il dizionario, l’autrice smonta e mette sul tavolo i comuni denominatori alla base dell’ideologia patriarcale, che si offrono alle lettrici e ai lettori di oggi nell’evidenza delle cose semplici, come materiali basici per verificare, rinegoziare e integrare il discorso femminista, del quale spesso vengono mistificate e refutate le premesse. Non credo sia necessario sottolineare ulteriormente l’attualità di questa prospettiva, che tuttavia resta aliena da immediate pretese rivendicative e forse proprio per questo decisamente longeva. Il maneggevole Abbecedario della differenza, oltre a contenere due magnifiche voci ulteriori (Deserto e Prossimo) che non rientrano nell’edizione del testo curato da Crivelli, è inaugurato da una doppia introduzione delle curatrici, che fornisce coordinate precise per posizionare la figura di Ceresa e avvicinarne la poetica, e contiene pillole di carattere perlopiù saggistico che si sovrappongono al dizionario, lo chiariscono e ne fanno risonare il portato, come un cerchio che ne contiene un altro avente lo stesso centro.

Ridotto ai minimi termini, Il “giro d’orizzonte” al quale ci chiama l’opera di Ceresa è un invito a una maggiore consapevolezza linguistica, quindi ideologica e politica, che si attua tramite lo sganciamento dalla fissità delle nostre posizioni e l’apertura al punto di vista altrui, che se non assunto in toto, può essere almeno compreso. Vorrei suggellare queste brevi riflessioni con la chiusa della voce che ho preferito tra le molte memorabili del Piccolo dizionario, quella dedicata alla parola Ovvio: «Ciò che sembra ovvio non è dunque mai ovvio se non relativamente, il che dovrebbe avere portato ormai, perlomeno da Galileo Galilei, all’eliminazione sia della parola che del concetto. Se non è stato il caso ciò si deve solo al fatto che non è ovvio ciò che sembra ovvio ma soltanto ciò che piace».


A. Ceresa, Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile, a c. di T. Crivelli, Milano, nottetempo, 2020, pp. 173, € 15.


AA. VV., Abbecedario della differenza. Omaggio ad Alice Ceresa, a c. di L. Fortini e A. Pigliaru, Milano, nottetempo, 2020, pp. 198, € 8.