Fuori dagli schemi, il mestiere di scrivere raccontato da chi lo fa è una serie di interviste a scrittrici e scrittori pensata per esplorare alcuni aspetti del lavoro sul testo letterario che normalmente vengono lasciati da parte, taciuti o tenuti gelosamente nascosti. Fuori da schemi interpretativi per addetti ai lavori, le interviste si concentrano su schemi concreti, che di volta in volta possono essere scalette, appunti, brogliacci, alberi genealogici, schede dei personaggi, disegni, tabelloni da detective e crazy wall…
Oltre a porre alcune domande dirette su questo o quel problema tecnico, abbiamo chiesto agli intervistati di metterci a disposizione parte dei propri scartafacci e di discuterli insieme a noi. Ma l’obiettivo più importante di questi dialoghi è invitare gli appassionati di letteratura a esplorare il backstage del testo insieme a chi lo ha concepito e realizzato, sia per conoscere aspetti nascosti di testi letti e apprezzati, sia per scoprire opere, autrici e autori che ancora non si è avuta l’occasione di incontrare.

La precedente intervista è stata fatta a Giorgio Fontana.
[questa rubrica è nata da unidea di Claudio Lagomarsini]


Claudia Durastanti

Claudia Durastanti (Brooklyn, 1984) ha esordito nel 2010 con il romanzo Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Marsilio), premiato con il Mondello Giovani. Dopo A Chloe, per le regioni sbagliate (Marsilio, 2013) e Cleopatra va in prigione (minimum fax, 2016), nel 2019 è uscito il suo quarto romanzo, La straniera (La nave di Teseo), finalista al Premio Strega.

Di fianco all’attività di narratrice, Durastanti porta avanti quella di traduttrice (tra gli altri di Joshua Cohen, Tom Gauld, Ocean Vuong) e collabora con diverse riviste e testate giornalistiche. La straniera, che l’ha imposta all’attenzione del grande pubblico, è un complesso romanzo familiare e autobiografico, orbitante intorno a due nuclei principali: la sordità dei genitori e la condizione dello sradicamento (nata negli USA, Durastanti si è poi trasferita con la madre in Basilicata, ha studiato a Roma e, in seguito, ha vissuto tra Londra e l’Italia).

Impostato come un romanzo, La straniera è anche un saggio sulla lingua – quella «spezzata» dei genitori, quella mescidata degli emigrati lucani a Brooklyn, quella compromissoria della traduzione letteraria –, sulla vita di provincia (italiana e americana) e, infine, sull’Europa a cavallo della Brexit. Siamo partiti dalla sua ultima opera e dai relativi materiali preparatori per chiederle di illustrarci alcuni aspetti del suo lavoro.


Nella tua produzione narrativa hai sperimentato forme più o meno strutturate di racconto. Probabilmente dei tuoi quattro La straniera è il romanzo più “destrutturato”: come hai lavorato alla sua architettura? Se c’è stata una differenza sensibile, come hai lavorato, invece, alla struttura di romanzi più tradizionali (penso in particolare a Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra, ma anche a Cleopatra va in prigione)?  

La straniera è il mio libro meno lineare e strutturato, anche perché nel corso della mia scrittura è mutata sensibilmente la mia concezione del tempo e di conseguenza il modo di raccontarlo, ma sicuramente è il più pensato. Nessun altro libro che ho scritto ha avuto una gestazione implicita così lunga: per scriverlo ci ho messo due anni, per pensarlo credo almeno una decina, raccogliendo indizi e appunti. Se visualizzo il processo con il senno di poi, mi viene in mente un enorme tabellone da serie poliziesca, in cui si collegano le foto con dei fili, si spostano i post-it, si mettono tanti punti interrogativi dopo le false partenze; solo che mentre raccoglievo quelle prove, non sapevo ancora quale delitto volevo risolvere. E ormai penso che per fare un buon libro, il procedimento dovrà essere per me sempre più interessante e rilevante del problema che lo innesca. Credo che ne La straniera, senza diventare un argomento preponderante di per sé, il metodo sia uno dei fili rossi che entra e fuoriesce dalle pagine. Se vogliamo restare nella metafora dell’architettura, invece, parlerei di una serie di cianografie disposte l’una accanto all’altra, in base a diversi tagli prospettici. La prima cianografia è un oroscopo, la seconda una mappa e la terza una costellazione. All’inizio La straniera doveva essere un saggio narrativo su linguaggio e sordità; ero fermamente convinta che il materiale biografico dovesse essere ridotto al minimo. E dunque sono partita dal mio lessico familiare, e dall’importanza che l’oroscopo ha assunto nella vita di mia madre nell’interpretare la realtà e il suo quotidiano. Da qui l’idea di scomporre il libro nelle sezioni Viaggi, Famiglia, Salute, Denaro e Amore, ma questa suddivisione è stata in un certo senso fine a sé stessa finché non ho capito che per ragionare davvero sulla lingua rotta dei miei genitori e sul loro stare al mondo dovevo entrare pienamente nella loro vita, in chi erano stati e perché avevano scelto di esprimersi così. E così, quando ho letto quel verso di Emily Dickinson, «Dopo un grande dolore, viene un sentimento formale», ho iniziato a ragionare su che forma può assumere un’intera esistenza, e ho cercato di riempire le voci di quell’oroscopo non solo di fatti ed eventi, ma anche di riflessioni appunto formali, di ragionamenti su cos’è il romanzo autobiografico, cos’è un’epopea familiare e come si è evoluta come genere. E lì mi sono affidata alla mappa, all’idea di passato, presente e futuro come terre colonizzate e abbandonate che cambiano sempre nome in base alle nuove persone che le popolano, a tutte le versioni di un sé che si contraddicono nel corso della loro storia, arrivando a elaborare un’idea positiva di appartenenza come menzogna. Grazie alla mappa, sono riuscita ad aggirare completamente l’idea di albero genealogico, che non è stato un riferimento né concettuale né visivo quando mi sono messa a scrivere la storia di una famiglia, e ho immaginato a un certo punto di vederla dall’alto, al buio, cercando di capire quali punti si illuminavano e quali invece si spegnevano: è possibile che un padre e una madre da astri principali diventino stelle minori? E così sono arrivata al romanzo-costellazione, qualcosa per cui sento di essere in debito con I vagabondi di Olga Tokarczuck, che nel suo romanzo per digressioni, episodi e saggi mi ha aiutato a ragionare su un sé decentrato, alla rinuncia dell’eroe che rende comunque possibile un’epica. È qualcosa a cui a un livello superficiale ero arrivata con la morte di Ned Stark nella prima stagione di Game of Thrones, e a un livello più sensibile durante la traduzione di Un’altra occupazione di Joshua Cohen, in cui il personaggio di David King, questo faccendiere palazzinaro ebreo tracotante e così simile a personaggi novecenteschi di quel tipo a un certo punto sparisce dal romanzo, e l’azione deve riconfigurarsi senza di lui. Chiaramente qui è stata utile anche la trilogia dell’ascolto di Rachel Cusk.

Per i miei primi romanzi, probabilmente avevo un metodo più rudimentale e grezzo, legato nel caso di Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra all’estetica del videoclip, in particolare a quei video anni Novanta che erano delle short stories in sé (mi viene in mente il video della cover di Like a Rolling Stone girato da Michel Gondry); il romanzo mi pareva la combinazione più o meno accidentale di sequenze ben riuscite. Non avevo l’idea che dovesse «andare» da qualche parte, o risolversi. La bellezza di un istante era superiore alla compiutezza di una forma, di un viaggio. La storia di Cleopatra va in prigione forse è quella più curiosa, perché coincide invece con lo studio di un personaggio, e in questo si avvicina anche solo idealmente all’arte pittorica. Prima di trovare il personaggio di Caterina, non mi era mai venuto in mente che uno dei miei personaggi potesse avere uno schizzo preliminare, una resa con il carboncino, per poi diventare un acquerello su carta e infine una tela ad olio. Esistono almeno tre versioni di Caterina: una in un racconto uscito anni fa per Inutile, in cui era una sex worker anonima nella macchina di un poliziotto (mi interessava l’unità di tempo, luogo e azione e tutto si svolgeva lì dentro), poi è diventata un racconto per l’antologia L’età della febbre e infine sotto input dell’editore una sorta di novella o romanzo breve in cui si è espansa. Ma mentre lavoravo a quella versione, credo di essere stata consapevole che non si trattava della sua forma finale. Se a rileggerlo c’è qualcosa di incompiuto, trattenuto, ed è un romanzo tentativo, è perché è appunto uno studio. Da poco ho letto La piazza del diamante di Mercè Rodoreda, la cui protagonista è una ragazza del popolo che somiglia a una mia Caterina ideale e ho pensato così si fa, ecco come si rende una vita al margine senza esotizzarla o renderla eccessivamente ideologica e lirica: ma i libri che si scrivono sono anche incidenti, episodi che capitano prima di una rivoluzione personale. È bello tenerne traccia, e io sono una grande fan del romanzo minore. Basta leggere le note di Cesare Pavese su Il compagno per capire quanto serve un romanzo preliminare o intermedio per permettere a certe energie di rovesciarsi fuori con violenza.  

La mappa della Straniera

Questa è la mappa di cui hai appena parlato. Rispetto all’indice del libro finito, nella “mappa” le sezioni “Arte” e “Tecnologia” non trovano una corrispondenza univoca (ma sì una rappresentazione entro altre sezioni). Invece la sezione che si intitola “Di che segno sei” porta in primo piano il tema dell’oroscopo (che negli appunti era annidato sotto Tecnologia). Potresti tornare brevemente su queste modifiche della struttura rispetto ai “raggi” della tua mappa?

C’è una discrepanza tra mappa e sezioni perché l’idea di strutturare l’indice come un oroscopo è diventata esplicita solo in un secondo momento, prima ho appuntato tutti i temi che volevo trattare, e quando ho dovuto fare un riscontro su come sono davvero strutturati gli oroscopi ho capito che per quanto pervasiva come dimensione, Tecnologia non rientra nelle macroaree trattate. E a pensarci mi pare un errore. Considerato l’impatto che internet, social media, notifiche e disturbi connessi a quella sfera, l’impatto di quelle alterazioni sul nostro benessere, forse un oroscopo contemporaneo dovrebbe contenere una voce Tecnologia. Non è proprio lavoro, non è proprio amore, ma qualcosa che sta vischiosamente in mezzo. Un a sé non riconducibile solo alla salute, ma è lì che in assenza di un’abitudine a considerare la Tecnologia come voce separata negli oroscopi sono andata a parare. Internet come reparto della salute mentale. E questo dice tutto di per sé. 

Dalla prima pagina di appunti per

Ecco, questi invece sono gli appunti relativi ai temi da sviluppare. Forse per ragioni anagrafiche mi ha colpito molto la citazione “She grew up in the 90s…”. Ti andrebbe di parlarne, magari spiegando in che modo è poi penetrata nel libro? E tu (ovvero la Claudia del romanzo) come ti poni rispetto a questo sentimento di appartenere, o di essere appartenuta a un certo punto, a una post-History? Credi che sia un sentimento peculiare dei Millennial o che sia peculiare provare questo sentimento nell’infanzia/adolescenza piuttosto che nella vecchiaia (quando più o meno a tutti sembrerà che la storia sia finita, che l’arte sia tramontata, che la musica non abbia più senso, eccetera).

Gli appunti su “she grew up” li ho trascritti da un seminario di filosofia a cui ho partecipato anni fa negli States, ma non saprei dire se fosse una citazione e mi è piaciuto tenerla così sparsa, quasi senza fonte, ha un che di sinistro, veritiero e velato allo stesso tempo. Tanto che me ne sono appropriata in prima persona, come se fossi un medium, un canale in cui farla scorrere.

Questo a partire sicuramente da un’identificazione personale. Non so se poi alla fine l’ho messo in un libro questo scambio, forse sta in un inedito che parlava del frontman di una band scritto quando avevo vent’anni, comunque riflette abbastanza le mie posizioni al riguardo. «Il rock muore ogni dieci anni», «Non di certo grazie a te». In apparenza questa esperienza della morte definitiva di ogni cosa – della storia, del rock, dell’ironia, del realismo –  l’ho dovuta scontare generazionalmente, ma era appunto una finta morte. E dunque forse ho sentito più il peso di questo: la proposta continua di un confine e di un limite che non lo era. Probabilmente a livello inconscio una certa sfiducia nel leggere il presente, l’arte e quel che accade deriva proprio da quest’ansia apocalittica con cui sono cresciuta, tradita a livello proprio elementare dai film catastrofisti di Hollywood. E questo genera un’esistenza “post” che di fatto risulta sempre più posticcia, tanto che oggi non spiega più niente, e oltretutto attribuisce un fardello, quello della reinvenzione dei tempi. Come se fosse appunto un dovere, reinventare. Proprio come il disastro, anche l’attesa messianica è incrementale, non lineare, mai definitiva. Segue il percorso dei sogni, non quello della storia. Poiché è stato un sentimento pervasivo attorno a me e credo specifico di un certo modo di rapportarsi alla storia in poi, tendo a pensare che sia situato e non una tendenza malinconica che ha a che fare con il volgere delle stagioni e della propria età. Anzi, da questo punto di vista l’adolescenza è molto più traumatizzata dalla fine che non la vecchiaia. Almeno la mia lo è stata. 

Con La straniera non è la prima volta che ti misuri con la scrittura autobiografica. Hai dichiarato, anzi, che A Chloe per le ragioni sbagliate è, sotto il velame letterario, il tuo romanzo più autobiografico; nel caso de La straniera, invece, quando gli hai detto che stavi scrivendo della vostra famiglia, tuo fratello ha esclamato (cito a memoria da una tua presentazione): «Ah, quindi stai scrivendo un romanzo di fantascienza!». Il lavoro su personaggi che hanno un forte radicamento nella tua storia personale che tipo di processo ha comportato rispetto a personaggi, diciamo, “romanzeschi” o a dominante finzionale?

Ho scritto A Chloe per le ragioni sbagliate con tutta l’intenzione e passionalità di un memoir. Si tratta di ricordi trasfigurati, ma quasi tutti gli episodi nel libro si affidano a precise realtà del mio passato e di una mia relazione con l’altro, e questo mi ha aiutato a capire che nella codificazione dei generi, più che il rapporto tra racconto e realtà, il rapporto tra ciò che è stato vissuto e ciò che è stato scritto, conta il sentimento: esiste una lingua dei memoir, catartica, spesso psicanalitica, magari chirurgica, ma che agisce sempre come un coltello, e rimesta. È fatta di certe parole, di un certo stile, ed è per questo che A Chloe per le ragioni sbagliate è un memoir: è scritto con quella lingua lì. Invece La straniera no, deve molto di più, stilisticamente e linguisticamente, al romanzo, all’opera di invenzione. Credo che lo si evinca da una certa leggerezza della voce narrante, a volte confusa con la freddezza. Io ho assecondato una richiesta, ed è per forza di cose un libro in debito, che si basa sull’ascolto degli altri. In questo forse la definizione che preferisco è un’autobiografia del sentire: i miei genitori, i miei nonni, hanno sempre avuto un approccio paradossale all’esistenza, anche sofisticato pur non essendo istruito, e la loro vocazione da romantici impostori è proprio quella che io ho sempre ritrovato nei personaggi di finzione. Mio padre non mi ha mai chiesto di essere riconosciuto nel suo ruolo e nella sua «vera» sofferenza, ma mi ha sempre chiesto di dargli una dignità da villain, da anti-eroe delle fiabe, più che a Freud nel mio rapporto con lui devo molto a Propp. Forse è anche per questo che ho lavorato molto più sul «mito» che sul trauma familiare (un elemento centrale nei memoir), perché il mito in qualche modo resta sempre in superficie, permette una plasticità di azioni, ritorni, e imprese leggendarie che sarebbero poco plausibili sul pianto dei sentimenti e dell’organizzazione di una personalità, tutti gli dei e le dee di cui siamo a conoscenza sono in fondo borderline, ma restando su un piano leggero della storia, è possibile dire qualcosa di diverso su quei personaggi. E io volevo dire qualcosa di diverso sui personaggi della mia vita: mi mancava la parte di mia madre e di mio padre che così tanta sociologia della devianza o retorica sulla disabilità sciupa via. È perfettamente possibile scrivere un romanzo come vendetta contro una certa letteratura, e La straniera l’ho scritto così.

L’interazione e la sovrapposizione tra fiction e non fiction ha raggiunto il culmine proprio nel tuo ultimo romanzo. In che modo credi che la tua esperienza di giornalista culturale abbia influenzato la scrittura romanzesca? Per discutere un caso concreto, in un passaggio de La straniera parli di come alcune piante stabiliscono relazioni collaborative in determinati ecosistemi; questo spunto saggistico si intreccia poi con le dinamiche familiari del racconto.

Più che l’attività da giornalista culturale, che tendo ad esercitare in ambiti ristretti e in cui sostanzialmente ho competenza, che siano determinati generi musicali, la politica statunitense o questioni di critical theory specifiche, e proprio per questo spazio poco, credo che ad aver avuto una funzione fondamentale per l’evoluzione del libro siano state delle conversazioni. Stavo scrivendo e strutturando La straniera come un saggio di linguistica sentimentale, diciamo, quando sono partita per una residenza per scrittori nella valle dell’Hudson. Lì ho conosciuto una scrittrice, Ly Tran, che mi ha parlato di Suzanne Simard e della teoria degli alberi comunicanti, la notte mi mandava articoli sulle balene e poi mi ha prestato un libro stranissimo, che è stato fondamentale per la stesura ma di cui non parlo mai, che è Maps to anywhere di Bernard Cooper, una miscellanea di personal essays, saggi lirici sulla propria famiglia, la lingua, l’America e leggendolo, ma anche durante la conversazione con Ly, ho capito che si poteva: non so perché non ci fossi arrivata prima, un po’ avevo letto Maggie Nelson, Claudia Rankine, autrici che tengono insieme biografia, poesia e storia, per non parlare di Audre Lorde, ma senza una conversazione ad alta voce sulle possibilità di integrare la scienza, il saggio, il materiale eterodosso e apparentemente lontanissimo dalla mia vita, io non pensavo di saperlo fare. Non pensavo che mi sarebbe riuscita quella forma, forse perché appunto temevo di forzare le cose, di creare collegamenti arbitrari. Il passaggio a cui ti riferisci ha una sua trascendenza, si basa in fondo sul concetto abbastanza spirituale di salvezza reciproca che presiedeva alla relazione dei miei genitori e ho cercato di replicare io quando mi sono innamorata, ed è una struttura che sostiene il romanzo, una struttura portante. Dunque trovare somiglianze con il mondo vegetale, tra come ci salviamo noi e come lo fanno gli alberi, funziona proprio perché sta nell’ambito di questa trascendenza, di questa visione nascosta in tutto il libro, non suona forzato, ma si amalgama bene, è un climax che altrimenti non avrebbe avuto senso perché non era stato preparato. Non sono andata a caccia del collegamento o dell’analogia, ma ho scoperto un’informazione scientifica, e l’ho integrata in un passaggio in cui era naturale presentarla. A volte questa intenzione diventa una moda, ed è il motivo per cui non tutti i libri di Olivia Laing o Eileen Myles sono riusciti: a volte si sente lo scricchiolio dell’hybrid non-fiction, e allora lì bisogna scartare, altrimenti l’invenzione si rapprende subito in conformismo stanco.

Murakami Haruki – che bilingue non è – ha detto di aver trovato la propria voce narrativa iniziando a scrivere in inglese per poi ri-tradursi in giapponese. Nella tua scrittura che ruolo ha la lingua inglese (e la sua tradizione letteraria) rispetto alla scelta di lasciare sulla pagina l’italiano? Hai mai scritto (anche solo per te stessa) narrativa in inglese e, se no, pensi che lo farai mai? 

La mia scrittura in italiano è un calco di tre lingue: l’inglese non grammaticalmente perfetto che ho in testa, che viene dal parlato e non dall’istruzione scolastica; l’italiano delle traduzioni di Fernanda Pivano, Cesare Pavese, Elio Vittorini e tutta una generazione di americanisti letti durante l’adolescenza; la lingua rotta e sintatticamente sbilenca di mia madre. Ho molto inglese in testa, ma è un inglese anomalo, e l’italiano che ho sempre scelto istintivamente si poggia su queste tre basi che si riequilibrano costantemente. Scrivo soprattutto non-fiction in inglese, tendenzialmente è la lingua che preferisco sia per i personal essays sia per i long-form, mi aiuta a distillare il senso di quel che penso, a strutturare meglio la pagina, ma continuo a trovarla tutto sommato povera per la mia scrittura in prosa. Non maneggio bene la poesia in inglese, mi manca il verso. Anche se si tratta di una scissione più formale che altro, è diventato sempre più frequente il fatto di auto-tradurmi, e non escludo di lavorare a un testo ibrido prima o poi, che integri le due parti insieme.