1. Fascisti

La voce del fascista me la fa sentire un mio collega, durante la pausa pranzo. “Guarda! Guarda qua!”, dice estraendo il cellulare, “guarda a cosa sono arrivati!” Lo schermo è abbagliato e  ricoperto di ditate, ma io intravedo una donna con una bambina in braccio. Sembrano piene di paura. Intorno a loro si accalca una folla feroce, tenuta a bada solo dalla polizia che tuttavia non può impedire alla calca di urlare. “Quelli nun devono manco magnà!”, “Ce lo sa con chi ce l’ho io? Colla legge! Che nun mette prima gl’italiani!” Poi un urlo tra i tanti sale dalla terra: “Troia! Ti stupro! Troia!” È una voce di bue. Sorda e feroce. Quando il video si interrompe,  non sono riuscito a vedere la faccia che ha urlato quella frase e mi sento turbato. Che faccia si nasconde, dietro a una voce così violenta?

Per tutto il pomeriggio lotto con l’affiorare di quella faccia nella mia immaginazione. Non si lascia mettere a fuoco, ma al contempo non vuole lasciarmi in pace. Devo portarla a galla per affrontarla. Così mi metto a pescare nel mio immaginario, che quando si parla di “facce di fascisti” è immaginario letterario, datato. Mi alzo e raggiungo la libreria. Prendo a sfogliare Il sentiero dei nidi ragno. Ecco una faccia, quella del tedesco: “sembra latte quagliato”. Chiudo gli occhi e cerco di visualizzarla, ma non mi basta. Così accatasto altri libri sulle braccia e li rovescio sul tavolo della cucina in cerca di altre facce. Provo con Una questione privata, poi col Partigiano Johnny. Ora non vedo più solo facce, ma anche nuche, schiene, busti, corpi interi, finché, improvvisamente, Fenoglio mi offre un regalo visivo senza pari: l’inquadratura frontale e piena di un giovane repubblichino.

 Danzava a trenta metri, accecato dal suo stesso coraggio: magro ed elastico, inebriato del suo coraggio, della sua astuzia bellica e della natura boschiva. Johnny gli sparò senza affanno, senza ferocia, ed il ragazzo cadde lentamente.

Per una ragione o per l’altra, tra tutti i fascisti che incontro sfogliando queste pagine non ce n’è uno che regga l’inquadratura piena e frontale. Alcuni, stanati dall’occhio di bue, finiscono seccati all’istante. Gli altri, dall’occhio di bue vengono cotti lentamente, e così non muoiono ma perdono la silhouette dei soldati virili: si squagliano in corpi goffi, bambineschi, rabbiosi o piagnucolanti. Per esempio il tedesco di Calvino, quello con la faccia di latte quagliato. Be’, ora, sbirciato con calma dal buco di una serratura, “gira per la camera in maglietta, con le braccia rosee e cicciose come cosce”. O i fascisti dei Ventitré giorni, inquadrati dalle finestre di Alba. Scivolano nel fango imprecando, bisticciando tra di loro, mentre fuggono dalla città brucianti di vergogna.

 

  1. Borgatari

Sarà il vederci un po’ più chiaro, chissà, ma adesso mi s’accende nella mente un volto preciso che mi riporta all’oggi. È la faccia di un fascista dei giorni nostri. Dove l’avevo vista? Questa volta lascio perdere i libri e frugo tra i giornali accumulati nelle ultime settimane. Eccolo. Un numero dell’Espresso in cui compare la faccia di un ragazzo urlante ad un concerto nazi-rock. Guardo quel primo piano. Ho tutto il tempo per squadrarlo. Anche questa volta mi devo nascondere nei libri per descriverlo e trovo le parole di Pasolini, quelle con cui raccontò le facce che, durante gli anni Settanta, iniziavano a circolare nelle periferie romane:

Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide (…). Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica.

Per Pasolini quelle “facce nuove” si stavano sostituendo alle facce familiari al Neorealismo. Stavano cambiando la narrazione. Erano facce più infelici e più aggressive. E alcune di queste, sì: erano facce di neofascisti, che stringevano alleanze con cosche criminali per radicarsi nelle borgate. “State attenti”, avrebbe detto Pasolini a Furio Colombo, “l’inferno sta salendo da voi”. Oggi (quasi cinquant’anni dopo) quell’articolo dell’Espresso parla di «sottobosco». Periferie, borgate e stadi, dove i capi neofascisti e i loro camerati si aggirano tra centri sociali dismessi, clan criminali e bande di hooligans.

Se così stanno le cose, per non perdere il filo mi tocca mettere da parte i romanzi del Dopoguerra e concentrarmi sulla pila di quotidiani e riviste. Mi tocca guardare l’attualità, anche se non è il mio forte.

Milano. Il Consiglio di Istituto del Liceo Virgilio segnala in una nota che gruppi neofascisti stanno facendo “propaganda pericolosa” tra i loro studenti.

Roma, quartiere Verano. Due giornalisti vengono percossi e privati del loro materiale al cimitero monumentale, mentre cercano di documentare una celebrazione neofascista.

Verona. Una coppia gay costruisce un muro di lamiera intorno alla propria casa, dopo che per mesi è stata a più riprese malmenata, colpita da una secchiata di benzina, minacciata di morte con scritte sui muri e svastiche.

Poi, sparse qua e là, ci sono le aggressioni ad immigrati. I pestaggi. Le sommosse. Sempre a Roma, nel quartiere di Torre Maura, una folla guidata da Casapound e Forza Nuova ha assaltato il pulmino che portava il cibo ai rom e ha calpestato il pane in strada, al grido di “prima gli italiani”.

E infine gli stadi. Descritti da un’inchiesta come centri di proselitismo dell’ultradestra, gemellaggi tra bande e creazioni di assi politiche tra una città e l’altra. Per esempio, leggo che gli investigatori hanno messo in luce come la storica rivalità tra Inter e Milan sia stata sostituita da un’alleanza politica in nome del neofascismo di Avanguardia Nazionale e Lealtà e Azione, a cui molti hooligans, trasversalmente, fanno riferimento.

In tutti questi articoli, la parola «sottobosco» torna sempre più spesso. Che siano borgate di periferia o curve di uno stadio, lo scenario è sempre raccontato come ombratile e fumoso, ma in subbuglio: pieno di fruscii sparsi e inafferrabili assembramenti. È più forte di me. Devo tornare a quei romanzi, perché è proprio questo, in quei romanzi, il tipo di scenario in cui i fascisti appaiono e scompaiono. Nel Sentiero dei nidi di ragno il nazista viene messo a fuoco mentre si muove nella camera di una prostituta “in cui sembra sempre che ci sia la nebbia, una striscia verticale piena di cose con intorno l’offuscarsi dell’ombra”.

Ma così il gioco non si sta ribaltando? Quelle facce che gli scrittori avevano inquadrato in piena luce, mostrandone la goffaggine e la fragilità ora, negli articoli di cronaca, non compaiono di nuovo come ombre che s’aggirano in una selva?

Così torno a quei romanzi, ma questa volta smetto di cercare facce. Al contrario frugo tra le scene di invisibilità dei fascisti perché mi accorgo che spesso è così che i fascisti si presentano: con voci, scalpiccii e infine tuoni che salgono dal basso, ma che tuttavia si negano allo sguardo. Con un neologismo fenogliano: i fascisti inappaiono. Nei Ventitré giorni, per esempio, l’angoscia del loro ritorno è proiettata dal “verde”. “Il verde”: lo chiama così Fenoglio. L’ammasso di foglie, rami e ombre in cui è immersa una banda partigiana:

Ma per quanto sforzassero gli occhi tra quella pioggia e il verde non li vedevano (…). Obbligando le palpebre a non battere guardavano fissi davanti a sé e con le orecchie tese fino al dolore aspettavano che dal finestrone quello dei binoccoli dicesse qualcosa.

 

  1. Radical chic

Quindi mi tocca sbirciare quel “verde” per capire se oggi, lì in mezzo, si nasconda qualche forma consistente di fascismo. Ci rimugino su. E concludo che il primo compito della «giusta prospettiva» che sto cercando sia quello di comprendere la proporzione degli oggetti osservati: in questo caso la proporzione dei fatti di cronaca ammassati sul mio tavolo. Perché forse una carrellata di notizie, vista al microscopio, può apparire gigantesca, ma con la lente del tempo che passa, e del campo che s’allarga, subito rimpicciolisce, perde di consistenza e di gravità. Quindi guardo su, al finestrone. Cosa dice “quello del binoccolo”?

Trovo un testo di Zagrebelski dello scorso autunno. Mica scherza: “È arrivato il momento della resistenza civile”, dice. Poi spiega:

Un dato culturale assai significativo è che si discute sempre meno di Costituzione e sempre più di fascismo. È uno spostamento dell’attenzione da una forma giuridica (la Costituzione) a una sostanza politica (un regime). ‘Forza normativa del fatto’ dicono i giuristi quando il ‘fatto compiuto’, o che si sta compiendo, scalza il diritto o lo predispone alla resa.

Poi trovo molti interventi di Canfora e mi pare che anche lui non ci vada tanto per il sottile:

Vedo una grande diseducazione di massa e un entusiasmo per le uscite più xenofobe del ministro degli Interni, ciò ha un precedente storico ben delineato ed è il fascismo (…). Il blocco elettorale e sociale somiglia al consenso che sorresse il fascismo dagli anni ’20 agli anni ’30.

Il punto, aveva scritto Canfora altrove, è che “il fascismo non ha una sola faccia, Brecht disse che un fascismo americano sarebbe democratico”. Insomma, ritorna la tesi di Umberto Eco, quella del «fascismo eterno» che sopravvive nel buio e, nel buio, assume la forma più adeguata per tornare a galla: “Il nostro dovere” scriveva Eco, “è smascherarlo e puntare il dito contro ognuna delle sue nuove forme”.

Messo giù così, però, mi sembra che il problema della «giusta prospettiva» si traduca prima di tutto nel problema della messa a fuoco dell’oggetto, cioè dei suoi contorni precisi. Cosa è fascista e cosa no? Cosa, nella regolare dialettica democratica, richiede la reazione eccezionale dell’antifascismo?

Così, come il Pin del Sentiero, mi sforzo di farmi “gli occhi come punte da spilli”. Vorrei cogliere il punto esatto in cui l’oggetto termina. Il suo bordo. L’inizio dell’ombra che confonde i confini. Trovo un intervento di Emilio Gentile. Che cosa è fascismo? Gentile commenta che “definire il fascismo eterno significa in fondo esaltarlo”. Per Gentile serve uno sguardo capace di definire, discriminare e discernere; e uno sguardo del genere, in questi giorni, porta alla consapevolezza di “un allarme privo di senso” che ha

l’unico effetto di distogliere l’attenzione dai veri pericoli che corre la democrazia. Il crescente astensionismo elettorale è ben più pericoloso della limitata attività neofascista.

Confronto due ritagli di giornale e realizzo che, a distanza di mesi e in contesti diversi, Gentile e Canfora hanno usato lo stesso esempio, ma lo hanno spinto a conclusioni opposte. L’esempio è quello del Movimento Sociale Italiano. Per Gentile: dimostra che è sempre esistita una piccola attività neofascista in Italia. Se si aggiunge che, tramite Alleanza Nazionale, ha persino rappresentato il 15% del corpo elettorale, questo ci fa capire quanto sia sproporzionato e “deprimente” il dibattito di questi mesi su Casapound, Forza Nuova e gli altri camerati che lottano per l’1%. Canfora: d’accordo, ma quando il governo Tambroni legittimò il Movimento Sociale Italiano, ci furono proteste e dimissioni in Parlamento. Esplosero i “giorni di Genova”. Una vera e propria sollevazione popolare che respinse quella legittimazione istituzionale. C’erano anticorpi popolari che invece, oggi, la base elettorale non possiede.

Tra l’altro, Gentile affronta la questione di Altaforte al Salone del libro e commenta che, prima del montare di quella polemica censoria, “nemmeno lui” conosceva quella casa editrice. In effetti neanche io, a pensarci. Però, non so. Cioè: è legittimo non conoscere una casa editrice come Altaforte? Non è una carenza grave, in una riflessione che voglia essere sullo stato attuale del neofascismo? Il punto, ora che la conosciamo, è questo. L’ex-Ministro della Repubblica ha rinunciato a tutte le grandi case editrici per pubblicare il proprio libro con una casa editrice piccola e neofascista. Che sia questo il centro della discussione? Il campanello d’allarme?

La sensazione di una selva piena di fruscii aumenta quando scopro che da qualche mese proprio quella casa editrice è diventata la piattaforma distributiva di altri sei marchi editoriali, tutti espressione dell’estrema destra. È una storia di ascesa. Forse per questo prima non la conoscevamo e ora la conosciamo. C’è Ferrogallico, che dal 2017 ha persino ottenuto la partnership di Mondadori, conquistando la distribuzione nazionale. C’è Aga, che in Italia traduce e pubblica il filosofo russo Aleksander Dugin, teorico internazionale del sovranismo e dell’identitarismo. Teorico, anzitutto, della russia putiniana la quale, come affermato da Martinov, da molti mesi “ha creato un sistema amichevole di finanziamenti, come si faceva ai tempi dell’Unione Sovietica”, ma di cui oggi beneficiano i “movimenti estremisti”.

Soprattutto quelli sovranisti e identitari.

 

  1. Filosofi

Sovranismo e identitarismo. Ecco due facce nuove che compaiono sempre più spesso in tutti questi ritagli di giornale. Sono facce del fascismo? Ovvero: meritano un’opposizione culturale di tipo antifascista?

Cerco una buona definizione di sovranismo, ma ne trovo tante. Tutte sfuggevoli e spesso contraddittorie. La più stabile e neutrale mi pare quella del linguista Giuseppe Antonelli. Sovranismo:

rivendicazione di una sovranità nazionale assoluta nei confronti di tutti gli organismi sovranazionali e di tutte le persone di nazionalità diversa.

È una definizione aperta, ma in effetti riesce ad abbracciare tutti coloro che si dicono sovranisti. Sovranisti sono Iannone e Polacchi (Casapound e Altaforte Edizioni), che nel 2015 hanno fondato il movimento Sovranità, alleato elettorale del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Sovranista anche lui, ovviamente. Sovranisti sono gli identitari francesi ispirati al filosofo Alain de Benoist, che lottano contro la “sostituzione etnica” ad opera dei migranti. Ma sovranisti sono anche alcuni marxisti, secondo i quali le migrazioni sono strumenti con cui le élite capitalistico-finanziarie abbassano il prezzo della forza-lavoro e indeboliscono i movimenti operai. In Italia, lo è Diego Fusaro. Filosofo liberamente gramsciano, che tuttavia, per il tramite del sovranismo, collabora con Primato Nazionale, la rivista ufficiale di Casapound, e brinda all’alleanza Lega-5Stelle.

Ora non ci capisco proprio più nulla. Mi sento davvero stupido. Mi bruciano gli occhi e la mente. Lontani i tempi in cui, come nei romanzi da cui ero partito, i fascisti girano “tutti bardati di teschi e di caricatori di mitra… E cantano canzoni oscene per le vie perché sono farabutti di Mussolini”. Ora il verde è davvero fitto. L’offuscarsi dell’ombra è pieno di cose.

I sovranisti sono fascisti? Trovo un’intervista rilasciata dal russo Dugin in occasione della presentazione in Italia del suo libro. Per Dugin, restituire peso alle sovranità nazionali significa anche restituire consistenza ai diritti particolari dei cittadini, in antitesi ai diritti universali dell’uomo. Per Dugin non esistono diritti universali dell’uomo. Nulla che “i popoli del mare” (quelli che si spostano) possano rivendicare. Esistono solo tradizioni e confini nazionali. Con queste premesse, gli unici che possiedono diritti sono i cittadini, ovvero: i figli delle tradizioni, all’interno dei confini, i “popoli della terra”. È una visione fascista? Non rischia di riportare la comunità internazionale a prima del 1948, a prima di quella Dichiarazione Universali dei Diritti Umani che ha rappresentato la più lucida e profonda reazione al trauma nazifascista?

Leggo questa affermazione e capisco come il semplice striscione “Stay Human” abbia creato tanto scompiglio durante la celebrazione sovranista di Milano, portando persino la Digos a violare un appartamento privato per rimuoverlo. Faccio gli occhi come punte di spilli e mi sembra di vederci una crepa, piccola, ma capace di far franare tutto: lo stato di diritto, le garanzie costituzionali, le garanzie alle minoranze. In effetti, sia il sovranista di destra Dugin che quello di post-sinistra Fusaro non hanno dubbi nel ritenere che uno dei più grandi filosofi europei sia proprio Alain de Benoist, il quale, a riguardo, non fa giri di parole: “Il liberalismo è ostile a qualunque forma di sovranità”. Tanto meno alla sovranità del popolo.

 

  1. Il popolo

Il popolo sovrano. Questo lo slogan che unisce marxisti (o sedicenti tali), nazisti, fascisti e identitari sotto al cielo sovranista. L’idea che l’Europa sia un piede straniero sulle singole sovranità popolari. Come anche la democrazia rappresentativa: con i suoi lacci, le sue procedure e i suoi vincoli costituzionali. De Benoist cita Rousseau, quando denuncia che oggi il popolo è sovrano solo nel momento in cui va a votare, cioè una volta ogni quattro anni. Dugin brinda al Movimento Cinque Stelle e a Salvini come all’inizio, tutto italiano, di una rivoluzione popolare che infine sarà europea. E Di Maio, l’uomo al centro di questa alleanza, è uomo della democrazia diretta. Uomo della piattaforma Rousseau. Quella democrazia diretta che ha sottratto Salvini al processo richiesto dal Tribunale dei Ministri per abuso d’ufficio. Una democrazia diretta, insomma, che ha motivato quella sottrazione proprio perché l’abuso, se mai si fosse verificato, sarebbe avvenuto in barba alle procedure democratiche, ma nell’interesse del popolo italiano.

Recupero un altro ritaglio che sembra calzare a pennello. È di Angelo d’Orsi, lo storico.

Il ricorso al popolo, dichiarandosene interpreti e unici soggetti legittimati a coglierne i bisogni fondamentali e rappresentarli politicamente, è un dato in effetti decisivo del fascismo classico, da Mussolini a Hitler; un ricorso che tende a contrapporre l’entità ‘popolo’ alle procedure, alle istanze, alle pratiche della democrazia.

Così, mentre qualcuno afferma che il brodo di coltura dei neofascismi sia il sovranismo, ecco che qualcun altro sostiene che la vera origine sia il populismo. D’altronde è di poco tempo fa l’esito di una ricerca del Pew Research Center. Ed è allarmante: circa la metà degli intervistati in Europa nutre sfiducia e disaffezione verso i sistemi democratici e le pratiche parlamentari.

Ormai sono rassegnato. Oggetti definiti non ne trovo e così devo affidarmi a definizioni che non avrei voluto: definizioni morbide, capaci di contenere un po’ d’ombra e di smottamento dei confini. Mi sembra che questo sia il fallimento della mia ricerca di una «giusta prospettiva», visto che alla fine non ho trovato né una messa a fuoco dell’oggetto, né ho visto la sua proporzione.

Tra le definizioni morbide mi resta impressa quella di Cas Mudde. Nel 2004, il politologo aveva parlato del populismo come di una “ideologia sottile”: una forma che rimane sempre incompiuta e che perciò può ibridarsi a seconda delle convenienze storiche, ma sempre a partire dall’idea di una guerra tra un popolo buono e una élite cattiva. Il popolo possono essere gli operai, e allora le élite saranno i padroni. Ma il popolo possono essere anche gli italiani “di sangue” e così le élite diventano gli ebrei e gli zingari che campano senza lavorare. Oppure il popolo possono essere le persone semplici ed ecco che le élite sono i radical chic con una laurea, che sviolinano pietà per la gente morta in mare. O persino la stessa gente morta in mare: pure loro possono essere, se non proprio élite, di certo il suo micidiale strumento, manovrato magari da Soros, per guidare la “sostituzione etnica” atta a indebolire il popolo.

Insomma, non conta chi sia il nemico del popolo: conta che il popolo sia sempre rappresentato come un blocco granitico, privo di dialettiche interne. Un soggetto unico con una volontà integrale, autoevidente, che perciò non richiede procedure democratiche, mediazioni e procedure decisionali. Nel popolo, infatti, non c’è dibattito. Il popolo è un soggetto semplice: un’unica maggioranza che sa quello che vuole e a cui non servono mediazioni costituzionali. Un’unica maggioranza che non può accettare limiti posti dalle minoranze (perché le minoranze sono élite o i suoi strumenti).

Questo è il popolo pericoloso. Il popolo che si fa tiranno. Il fascista.