Il vetro della finestra di un collegio cattolico infranto dal sasso lanciato con la fionda da un bambino è la scena che apre il film di Gianni Amelio Hammamet. E l’immagine disturbante del vetro infranto ritorna negli ultimi fotogrammi mentre Anita, la figlia del presidente-protagonista, ormai morto, scende le scale della clinica psichiatrica in cui è ricoverato Fausto, il figlio di Vincenzo, il tesoriere del Partito Socialista Italiano (PSI), tornato in Italia dopo il soggiorno ad Hammamet. Una metafora implicita, un modo evidente e sottotraccia insieme, di restituire una percezione, una specie di chiave di lettura. Come se la storia che si sta per raccontare, e che quindi si chiude, si possa sintetizzare così. Un vetro rotto, un rumore improvviso e violento, uno sfregio, una mascalzonata, una ferita. Senza, però, lasciare spazio a spiegazioni didascaliche.

Hammamet racconta gli ultimi mesi di vita di un leader politico italiano, il presidente, rifugiatosi nella sua villa tunisina, mentre sofferente e malato rievoca con le persone che sono attorno a lui, che lo chiamano per telefono e che gli fanno visita le vicende giudiziarie e le sentenze che hanno determinato la fine della sua fortuna. L’unico flashback, di pochi minuti, riguarda il congresso del PSI del 1989, in cui il protagonista viene confermato segretario. La storia è quella di Bettino Craxi e l’obiettivo dichiarato dal regista è di rappresentarne l’umanità mentre la sua parabola si chiude drammaticamente. Non c’è l’intenzione di giudicare, né di dare risposte univoche sul suo passato politico. Al più, forse, raccontando l’uomo si cerca un’ipotesi di verità che stia più in profondità della mera cronaca.

La sensazione è che Amelio si avvicini molto a un obiettivo così ambizioso. Ed è interessante che questo si realizzi in molti casi attraverso elementi di finzione pura, che non rispettano la verità storica.

Un fatto inventato, per esempio, è quello della visita del politico, verosimilmente democristiano, già avversario, forse alleato, nonché amico del presidente, interpretato da un bravissimo Renato Carpentieri. In poche battute si rievocano la stagione di Tangentopoli e i processi per corruzione e per finanziamento illecito che negli anni precedenti avevano spazzato via i partiti al potere in Italia. Il presidente-Craxi, ricordando le condanne subite, afferma che i denari venivano presi per fare politica e non per finalità personali, il politico ribatte che “I reati c’erano… qualcosa ci restava attaccato alle dita”. E proseguendo: “Io ho dato soldi a gente che scappava dalle dittature”, e di rimando: “Peccato che non se ne sia accorto nessuno, un altro errore”. Ancora: “Scostumato, arrogante, cafone, tutto quello che un politico non deve essere, e tu sei un grande politico”. E suggerendogli di tornare in Italia e di affrontare i processi: “Certe volte devi chinarti per poi drizzare meglio la schiena”. Al momento dei saluti, riecheggiando alcune parole dell’ultima lettera scritta da Aldo Moro, prigioniero delle Brigate Rosse, alla moglie Noretta, il presidente fa un riferimento all’aldilà: “Vorrei capire che cosa ci sarà dopo… È vero che Dio non c’è?”. La risposta dell’amico, ormai fuori dai giochi della politica, risuona amara, cinica, e forse anche per questo onesta: “Se Dio c’è, io sarò l’ultimo a saperlo”.

Non si può non sottolineare, come hanno fatto molti, la straordinaria interpretazione di Pierfrancesco Favino, aiutata anche da un trucco perfetto. Nel tono della voce, nei movimenti del corpo, nei piccoli gesti Favino è un Craxi credibilissimo. Il fine è quello di richiamare sullo schermo un’idea il più vicina possibile alla vita e alla storia che furono. La recitazione, l’uso della macchina da presa, la fotografia e la musica qui si muovono in una direzione opposta a quella scelta da Paolo Sorrentino in opere come Il Divo e Loro, nelle quali i riferimenti alla realtà diventano l’occasione per un’interpretazione visiva che si distanzia fortemente da uno sguardo realistico e oggettivo e che può sia oscillare tra cartoon raffinato e satira immaginifica, nel caso del film in cui si affronta la figura di Giulio Andreotti, sia tendere verso l’invenzione estetica, più evidente nel lungometraggio il cui protagonista ricorda Silvio Berlusconi.

I rimandi alla vicenda umana e politica di Craxi sono numerosi e affidati soprattutto ai dialoghi. Tuttavia, la carenza di flashback descrittivi fa sì che soltanto chi conosce bene le vicende politiche di quegli anni possa comprendere davvero il contenuto di quei riferimenti. Si può discutere se la scelta di Amelio sia stata opportuna e utile per la migliore riuscita dell’opera. Di sicuro denota l’intenzione di affrontare la realtà, o una realtà, tenendosi lontano da ogni pericolo documentaristico.

Un altro elemento di invenzione è il personaggio di Fausto, il figlio di Vincenzo, morto suicida mentre il suo ufficio veniva sommerso dalle indagini giudiziarie, che una notte si introduce nella villa. Il motivo dichiarato è quello di leggere al presidente una lettera del padre indirizzata a lui (“Sei vittima di te stesso, del tuo orgoglio, della tua arroganza smisurata, ma non sei un ladro…”), ma in realtà Fausto è venuto ad Hammamet spinto da un desiderio di vendetta e perchè ritiene che il presidente sia moralmente responsabile della morte del padre. Al tempo stesso, tra Fausto, che viene ospitato nella villa, e il presidente nasce un dialogo, una specie di mutuo soccorso in cui il secondo cerca di raccontare al ragazzo l’esperienza politica del padre, mentre questi riprende con una videocamera a futura memoria le riflessioni del vecchio politico. In una delle ultime scene, la cui scrittura appare meno riuscita rispetto a quella di altre parti del film, deceduto il presidente, vediamo Fausto ricoverato in una clinica psichiatrica, alienato mentalmente e convinto di essere stato lui a uccidere il padre spingendolo giù dal balcone. Il personaggio di Fausto non funziona al meglio, forse anche perché l’interpretazione di Luca Filippi non sempre regge il confronto con l’abilità e l’energia attoriale di Favino. Però, appare apprezzabile il tentativo di rappresentare il senso di tradimento che quella stagione politica e il suo epilogo rovinoso restituirono a molti giovani, a molti ventenni di quegli anni che mentre pensavano di essere destinati a proseguire l’era di ottimismo e di benessere che avevano sperimentato i loro padri, e loro stessi da bambini e adolescenti, all’improvviso, attorno alla metà degli anni ’90, si trovarono come sbalzati in un altro mondo, su un altro piano della realtà assai diverso da quello precedente, più incerto, forse più difficile e dove erano richieste strategie di esistenza e di sopravvivenza nuove. Va da sé che le cause di quel mutamento non fossero tutte direttamente ascrivibili a Tangentopoli – pochi anni prima era caduto il Muro di Berlino e i grandi scenari internazionali si erano ridefiniti –, ma il cambio di paradigma e di prospettive fu per molti disorientante e traumatico.

Un’altra scena simbolica, nonché comprensibile solo da chi conosca bene i fatti a cui si fa riferimento, richiama la vicenda della base NATO di Sigonella dove nell’ottobre del 1985 si sfiorò l’incidente diplomatico tra Italia e Stati Uniti e lo scontro tra i Carabinieri e gli uomini della Delta Force, poiché Craxi si rifiutò di consegnare agli Usa il guerrigliero palestinese Abu Abbas che insieme a un commando di aderenti al Fronte per la Liberazione della Palestina aveva dirottato la nave italiana Achille Lauro. Durante il sequestro i dirottatori uccisero il cittadino statunitense, ebreo e paraplegico, Leon Klinghoffer. I fatti di Sigonella sono prima rievocati in una scena in cui il nipote del presidente gioca con i soldatini sulla spiaggia e viene filmato da Fausto, quindi tornano come rovesciati quando il protagonista decide di tornare in Italia per affrontare un delicato intervento chirurgico. Arrivato di notte a bordo di un’automobile sulla pista di decollo dove c’è un aereo che lo aspetta, il presidente si rifiuta di uscire, mentre la figlia Anita cerca invano di aprire la portiera. Simbolicamente, ora è lui il prigioniero che non vuole consegnarsi.

Suggestiva e onirica, verso la fine del film, è la scena in cui il presidente-Craxi viene visto camminare, a piedi nudi, e con indosso un cappotto e una sciarpa, sul tetto del Duomo di Milano.

Amelio firma un film coraggioso e potente, in cui prova a interrogarsi sulla vita controversa e sulla dolorosa decadenza di un uomo. Non si cercano condanne né assoluzioni, ma il protagonista viene rappresentato con un’attenzione ai chiaroscuri e alla complessità delle sue motivazioni che fa intuire un grado di empatia, soprattutto a fronte dei turisti italiani in vacanza ad Hammamet che lo insultano o degli spettatori di un varietà che lo irridono, morente e sulla sedia a rotelle, immaginati in una delle scene finali.

Inevitabilmente, dopo l’uscita del film nelle sale si è riaperto il dibattito collettivo su quegli anni, sugli avvenimenti politici che li hanno segnati e sulla figura di Bettino Craxi, che divise spesso l’opinione pubblica e che continua a farlo. Non è un male, ed è auspicabile che per molti sia un’occasione per considerare vicende storiche trascorse ormai da tempo con una maggiore libertà di giudizio, comunque orientata, e con strumenti più adatti a capire rispetto a quelli di allora, “guardando le cose dall’alto”, come Amelio fa dire al protagonista.