La scrittura spietata di Ágota Kristóf, i suoi mondi narrativi insoliti e vicini allo stesso tempo, le tinte fosche e la crudezza della sua prosa sono evidenze memorabili per coloro che hanno letto La trilogia della città di K. (Einaudi, 1998). Tra le diverse opere da allora tradotte in italiano spicca senza dubbio l’edizione Casagrande de L’analfabeta, libro in cui Kristóf ha raccontato la sua origine, l’infanzia e la guerra vissute in Ungheria, i terribili fatti della rivoluzione del ‘56, infine il rifugio trovato in Svizzera; un’autobiografia insomma, un’autoscopia dell’esilio in quella lingua altra, il francese letterario, che le avrebbe permesso da autodidatta, dizionario alla mano, di tradursi nello stile duro e conciso che la contraddistingue e insieme aprirsi ad un più largo pubblico.

Adesso l’editore ticinese ha pubblicato nella traduzione di Marco Lodoli quattro pièces raccolte sotto il titolo Il Mostro e altre storie: l’impressione di fondo di questo teatro straniante conferma il piglio dell’autrice e esalta, stupendo in un certo senso per la varietà di declinazioni, la sua vena di humor nero.

La didascalia iniziale de Il Mostro introduce il lettore-spettatore in una scena spoglia ed essenziale, in un luogo indefinito abitato da un popolo regredito ad uno stato primitivo; è un incubo di regressus ad futurum: «Questo è accaduto qui o altrove | Da qualche parte | Una volta | Oggi ieri o domani». Il mostro che spaventa il protagonista, il giovane Nob, è una creatura senza segreto che cresce a dismisura sotto gli occhi di tutti, nell’abbondanza del silenzio e nell’approvazione collettiva: i fiori melliflui che crescono sul suo dorso stordiscono e creano consenso tra i selvaggi. Molti uomini saranno fatti a pezzi da quella «bocca immonda», altri fuggiranno: Nob invece è pronto a rovesciare l’orribile creatura per salvare il suo popolo e la sua identità; dovrà allora farsi mostro egli stesso, specchio del nemico. Ciò che prende forma nel dramma è dunque un “mostro” politico, un inquietante gioco di punti di vista, come del resto anticipato dalle prime battute dell’opera:

NOB: (bisbigliando) Tim. Tim. (più forte) Tim. Svegliati. (scuote Tim che è sdraiato per terra. Tim si tira su) C’è un animale enorme nella grande trappola, Tim. Un animale strano.
TIM: Anche tu sei un animale strano, Nob. É davvero troppo presto perché io mi alzi.

La strada è ambientato in «un’epoca persa nel futuro» che ricorda l’omonimo romanzo di Cormac McCarthy. Nell’immaginario della Kristóf la materia dominante è il cemento: il mondo è stato infatti sepolto da uno sterminato groviglio di autostrade, incroci, svincoli, biforcazioni e cartelli che hanno da lungo tempo smesso di condurre in alcun luogo; la volontà dell’uomo è stata annientata, così come la sua vita sociale e la memoria, da cui talvolta affiorano lontane leggende: il sole, le stelle, la terra, il fango, i fiori, gli alberi, le case.

Di pari passo all’aumento dello spazio cementificato è andato annullandosi quello personale: gli uomini camminano e camminano lungo tragitti senza senso, senza gusto. La razionalità estrema dei progetti ingegneristici e le vuote sistematologie hanno reso iper-regolata l’esistenza – il suo transito, la viabilità – eppure invivibile.

IL SAGGIO: Alt! Alt! Si fermi!
CONTROMANO: Perché?
LA PITTRICE: Non sta andando nella direzione giusta.
CONTROMANO: Perché? C’è una direzione giusta e una sbagliata?
IL SAGGIO: Sì. Questa strada va di qua e quella va di là.
CONTROMANO: Questo non vuol dire niente. Si cammina, tutto qui.
LA PITTRICE: Se vuole camminare in questa direzione, deve prendere l’altra strada.
CONTROMANO: Perché?
LA PITTRICE: Perché sì.
IL SAGGIO: Deve solo oltrepassare la demarcazione e si ritrova sul suo cammino.
CONTROMANO: Anche qui sono sul mio cammino. Ovunque sono sul mio cammino.
LA PITTRICE: Lei cammina al contrario.
CONTROMANO: Nient’affatto. Cammino solo contromano.
IL SAGGIO: Non si può.
CONTROMANO. Sì, visto che io lo faccio.

La terza pièce, L’epidemia, è forse la più tremenda e insieme la più comica. Qui ha luogo un gioco al massacro tra quelli che muoiono a causa di un morbo indeterminato e quelli che per farla breve si impiccano nei boschi. Tra salvatori e salvati non si instaura nessuna gratitudine, anzi, coloro che trovano un briciolo di coscienza per aiutare le persone che vogliono farla finita vengono prese a male parole dalle stesse.

In queste circostanze i dottori hanno perso ogni morale, brindano alla salute ma in realtà fanno meno del minimo per salvaguardarla; registrano i decessi, ecco tutto, sono tristi impiegati che hanno noia dei malati e si lagnano di coloro che chiedono una cura: «Prenda un’aspirina. È il rimedio supremo. È buona per tutto. Quando non funziona, non c’è più niente da fare.»

Infine ne L’espiazione Kristóf mette mano in una materia sozza e umana: la condizione di coloro che, asserviti alla causa di un regime militare e dittatoriale, hanno obbedito agli ordini, ucciso e torturato. I personaggi principali sono un sordo e un cieco, carnefici che grazie al loro anonimato sono sopravvissuti e così si impartiscono un’espiazione privata; nella loro condizione di mutilati somigliano ad alcuni celebri personaggi del teatro beckettiano, ma in questo caso non c’è la ripetizione demente di automatismi; si tratta altresì di figure malinconiche, sconciate dalla “banalità del male”. Ricordano semmai i protagonisti della trilogia romanzesca dell’autrice, i gemelli Claus e Lucas, emanazione di una coscienza unica ma divisa.

Al di là dei diversi mondi possibili che inscenano queste opere, tutte sono legate al tema biografico dell’esilio politico, a quella particolare condizione di estraneità che ha determinato l’origine stessa dell’opera kristófiana. Nella loro scansione ordinata infatti, ciascuna di esse drammatizza uno specifico momento: prima di tutto c’è il tentativo di difendere la propria terra e di resistere all’invasione straniera; segue il racconto della fuga, il cammino disperato alla ricerca di un rifugio; la fase di scoramento e solitudine vissute come una malattia da coloro che non riescono a vivere senza radici e scelgono la fuga definitiva, il suicidio; infine la particolare condizione di “analfabetismo” e il recupero di una dimensione comunicativa, all’interno di un lento processo di integrazione:

IL SORDO: […] Lo so di essere diventato ripugnante. Ero curato, intelligente, parlavo bene, scrivevo bene. Ero giornalista. É stata un’esplosione, una maledetta bomba in un maledetto paese che mi ha reso sordo […]
IL CIECO: In che paese è successo?
IL SORDO: Ho perso la memoria, non me lo ricordo più, e me ne frego. Ero lontano da qui, è passato molto tempo, ho dimenticato tutto, tutto! Sono ben contento d’essere sordo, sai, così non sento più i rumori cattivi.

La fase della scrittura drammaturgica, avvenuta tra gli anni Settanta e Ottanta, ha costituito per Ágota Kristóf il primo momento di appropriazione di quella lingua da lei definita «nemica» in quanto avrebbe gradualmente ucciso la naturalezza della lingua materna; incise da frasi brevi, colloquiali, brusche e quotidiane, le battute dei personaggi godono talvolta di una comicità inaspettata che nasce da una presa a distanza dell’atto linguistico.

C’è poco da fare, con la sua densità Il mostro e altre storie lascia sgomenti, la sua lettura consentirebbe persino di spostare un po’ più in là il canone del pessimismo, ma, come scrive nella prefazione Marco Lodoli, «in ognuna di queste opere teatrali si alza la voce semplice e chiara della dissidenza». Ágota Kristóf quindi «non vuole cedere alla tentazione di spegnere anche l’ultima luce possibile». Forse la tentazione sta proprio nella dimensione viva e relazionale del teatro, nella possibilità di dare corpo e voce a questi testi: allora la mise en scène esorcizzerebbe le paure e gli incubi che in essi sono tematizzati, rendendo affermative quelle finzioni.


 

9788877138514_0_0_472_75Ágota Kristóf, Il Mostro e altre storie, Casagrande, Bellinzona (Svizzera) 2019, 130pp. 18,00€


L’immagine di copertina è un’opera di Maria Lai tratta dalla mostra pagine.