Leggendo per la prima volta un libro di Giorgio Messori, si sente il cuore rallentare un poco il suo battito, si prova stupore per questa voce che non cerca di trascinare nel suo mondo a tutti costi; ma, al contrario, parla piano, come seguendo il ritmo di una passeggiata, si confida da amico, da compagno di viaggio. Giorgio Messori è nato nel 1955 a Castellarano, in provincia di Reggio Emilia. Nel 1983 ha pubblicato la sua prima opera narrativa, L’ultimo buco nell’acqua, insieme a Beppe Sebaste, per la casa editrice o, forse meglio, l’avventura editoriale Aelia Laelia, a cui entrambi gli scrittori hanno partecipato. Ha collaborato con le riviste «Riga» e «Il semplice» e un suo testo è stato scelto da Gianni Celati per l’antologia Narratori delle riserve, raccolta di racconti di «autori poco noti e alle prime armi, di narratori occasionali e di autori più noti»[1]. Con il termine riserve, Celati intendeva indicare il luogo in cui il racconto, non forzato dalle imposizioni del mercato editoriale, ha la possibilità di dispiegarsi libero sulla pagina, seguendo il corso che la scrittura suggerisce. I narratori delle riserve dovevano essere autori controcorrente, lontani, per volontà o inesperienza, dalle furberie delle case editrici, dal bisogno, per fini di mera vendita, «di ricorrere a stimolazioni esterne, ai problemi sociali e d’attualità, a qualche tipo di saputezza o a rivelazioni eccitanti»[2].
Messori è rimasto fedele a questo patto di fiducia per tutta quanta la sua vita ed è facile scoprirlo. Basta sfogliare i suoi libri, tutti editi per Diabasis.

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Vittore Fossati, da “Viaggio in un paesaggio terrestre”

L’intento poetico di Giorgio Messori ha espressione esplicita nella raccolta postuma di saggi, illustrati dalle fotografie di Vittore Fossati, Viaggio in un paesaggio terrestre; in particolar modo, nel primo capitolo, reportage narrativo di un’estate passata a Villa Minozzo, paese dell’Appennino reggiano:

La sera chiacchierando con Vittore è saltata fuori l’idea che oggi per vedere Pompei, così come potrebbe averla vista un viaggiatore del Settecento, bisogna andare a scovare vecchie fabbriche in rovina, ferraglie abbandonate. Perché l’archeologia strappa inevitabilmente alla natura i reperti del passato e li sottrae così al loro destino di cose, materia. […] Le rovine, le cose abbandonate a sé, ci aiutano a uscire da un tempo sempre preso da scadenze immediate, da una quotidianità tiranneggiata dalle notizie che vogliono scandirci il passare dei giorni e delle stagioni. Perché riconoscere la sovranità della natura, che domina pure sui manufatti dell’uomo, vuol dire entrare in un tempo più lungo, che la nostra civiltà non sa più considerare[3].

Entrare in un tempo più lungo significa anche riappropriarsi della memoria di chi viveva a cielo aperto, i contadini e i marinai, simboli dell’essenza duplice del narratore: una voce che viene da lontano e racconta i suoi viaggi; quella di chi invece è sempre rimasto nella sua terra e si fa portavoce della storia di un luogo. La globalizzazione ha strappato l’uomo alla natura e così ha rimosso in lui la capacità di narrare esperienze, provocando un vuoto di coscienza che lo ha reso un albero senza radici, estraneo alla terra che lo circonda, di cui è figlio.

Forse proprio per opporsi a questo strappo dell’uomo con il mondo, Messori ha scelto di farsi viaggiatore e trasferirsi, dal 2000 al 2006, anno in cui è morto prematuramente all’età di cinquant’anni a causa di un tumore, in Uzbekistan, per ricoprire la cattedra di lingua italiana all’Università delle Lingue Mondiali di Tashkent.

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Vittore Fossati, da “Nella città del pane e dei postini”

La sua esperienza è racchiusa in un libro, il suo vero esordio narrativo: Nella città del pane e dei postini, del 2005. Si tratta di un reportage in cui Messori descrive la sua permanenza in una città che, come sottolinea Emanuele Trevi in una recensione,

non è assolutamente un posto adatto per passeggiare. Questa privazione è importante sia sul piano pratico che su quello simbolico, perché comporta la rinuncia a una modalità tipicamente occidentale di conoscenza e “appropriazione” dello spazio, soprattutto urbano. Non a caso, è tanto un’attività reale che un genere letterario. Produce abitudini, affetti, legami vitali tra gesti e pensieri. La città asiatica non offre mai, almeno al primo impatto, il sentimento confortevole di un continuum creato dai propri vagabondaggi[4].

Oltre alla distanza culturale tra l’Asia e l’Occidente, che produce in Messori un forte senso di estraneità, a rendere Tashkent una città ritrosa a un vero atto conoscitivo è la cesura storica a cui è stata sottoposta con l’atto di indipendenza dell’Uzbekistan del 1991 e il crollo dell’Unione Sovietica:

uno stacco che  è pure della gente che ha sempre vissuto qua, come Ljuda con la sua infanzia in uno stato che non c’è più e il ricordo di una città attraversata dai postini, ora praticamente scomparsi, con la cassetta della posta che si riempiva di riviste in abbonamento per accontentare tutti[5].

Forse proprio la natura di questo territorio, sospeso tra le incertezze e i desideri[6], fa sì che si creino le condizioni perché Messori trovi in una donna, che diventerà sua moglie, delle radici che assopiscano lo spaesamento che è diventato la sua condizione esistenziale; sua allieva al corso di italiano, Ljuda è portatrice della memoria della città, tramite i suoi ricordi e il suo attaccamento forte, atavico alla famiglia.

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La raccolta di racconti, editi e inediti, Storie invisibili e altri racconti è stata pubblicata postuma, nel 2008, a cura di Gianni Ruozzi. Nonostante la mancata paternità dell’edizione, anche in questi testi si sente in ogni pagina l’intenzione di riportare l’uomo alla natura, ricucendo lo strappo della contemporaneità con l’arte di creare paesaggi letterari. Si possono prendere due esempi significativi. Il primo racconto, La bistecca, vede un narratore che ricorda le vacanze estive a Trieste dalla nonna, che viveva con suo fratello in una casa dalle tapparelle perennemente abbassate. Il fratello della nonna era vegetariano, perché un giorno aveva visto i resti di un uomo che si era buttato sotto il treno. Così quando la nonna cucinava la bistecca per il narratore bambino, finalmente lui alzava le tapparelle e si poteva vedere il cielo azzurro e sentire l’aria fresca che veniva dal mare. Il secondo racconto è La luna di Giacometti. Cronistoria di un’opera mai vista, in cui viene descritta la misteriosa storia dell’ultima opera di Giacometti, su cui lo scultore avrebbe lavorato a lungo nella sua casa di Stampa, in Svizzera, e che considerava come il suo lavoro definitivo. Dopo la sua morte però dell’opera non si era trovata alcuna traccia nel sottotetto in cui Giacometti lavorava, se non una mappa di Stampa, una annotazione con scritto di rivolgersi al vecchio muratore, ormai morto, del paesino della Val Bregaglia e dei fogli «scarabocchiati a matita, pieni di frecce e di linee che si incurvavano in un reticolo di segni che potevano essere, per alcuni, le rughe di un uomo vecchissimo, quasi millenario, per altro solo dei segni che spesso si perdevano nel vuoto»[7].  È stato il critico d’arte Gigino Rafedi a svelare il mistero, grazie all’aiuto del figlio del vecchio muratore, un falegname di Borgonovo a cui nessuno aveva mai chiesto nulla riguardo all’opera di Giacometti. Il falegname aveva infatti ricevuto dal padre una busta, con scritto che avrebbe potuto aprirla soltanto il giorno in cui qualcuno fosse venuto a chiedergli notizie di Giacometti. La busta conteneva una lettera in cui l’artista spiegava che, da quando aveva preso a tornare con regolarità a Stampa, si era riavvicinato anche alla lingua e alla letteratura italiane e, soprattutto, aveva ripreso a leggere Leopardi. Così aveva sentito la necessità di ritrarre un soggetto che esprimesse questi momenti di letture solitarie sotto il cielo stellato di Stampa. Questo soggetto era la luna. Scrive ancora nella lettera che tutto quel mistero nel mostrare la sua opera non era frutto di una bizzarria dell’età.

Giacometti voleva che anche il tempo ci potesse lavorare sopra, non solo la sua mano. Perciò la scultura era stata sepolta, a una spanna da terra, in un campo particolarmente umido vicino a casa. A seppellirla c’erano andati lui e il vecchio muratore di Stampa, e questa luna sepolta Giacometti l’aveva fatta con un’argilla molto porosa, friabile, che si potesse consumare in un arco di tempo relativamente breve. Per quel materiale trent’anni potevano andar bene, aveva pensato Giacometti[8].

L’arte, per Giorgio Messori, è un ponte che ricongiunge l’uomo con il mondo, facendo sì che esso diventi una casa e non un vuoto da cui schermirsi. Questo è forse il motivo per cui le arti figurative e, in particolar modo, la fotografia sono sempre stati importanti vie di ricerca e fonti di ispirazione per i suoi scritti. Ha infatti collaborato con numerosi fotografi: ha partecipato al progetto collettivo di descrizione della via Emilia, sfociato nel libro Dal fiume al mare (Feltrinelli 1986), a cura di Luigi Ghirri e Gianni Celati; ha realizzato con Luigi Ghirri Atelier Morandi (Palomar, 1992) e collaborato alla curatela della mostra di Luigi Ghirri su Giorgio Morandi, Il senso delle cose (Diabasis, 2005).

È giusto aggiungere, a chiosa del profilo poliedrico dello scrittore, che Messori si è dedicato anche all’attività di traduzione. Tra le sue numerose trasposizioni va ricordata almeno Il lettore. Il narrare di Peter Bichsel (Aelia Laelia 1984, poi Marcos y Marcos 1989), scrittore col quale ebbe un lungo sodalizio.

Si cerca sempre tra le nuove uscite editoriali la via maestra per decifrare l’attualità, il mondo in cui si è immersi. A volte invece è forse meglio dare uno sguardo indietro, nelle pagine di uno scrittore che, con una voce che Daniele Benati ha definito piena di garbo, ha saputo indicare una strada per ritrovare noi stessi.


 

[1] AA.VV., Narratori delle riserve, a cura di Gianni Celati, Feltrinelli, Milano 1992.

[2] ivi, p. 9

[3] Vittore Fossati – Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre, Diabasis, Reggio Emilia 2007, pp. 20-21.

[4] https://emmestudiosocial.wordpress.com/2013/11/18/emanuele-trevi-nella-citta-del-pane-e-dei-postini/

[5] Giorgio Messori, Nella città del pane e dei postini, Diabasis, Reggio Emilia 2005, p. 109.

[6] Ivi, p.175

[7] Giorgio Messori, Storie invisibili e altri racconti, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p. 108.

[8] Giorgio Messori, Storie invisibili e altri racconti, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p. 112.