Domani, sabato 16 novembre, il nostro Bookcity comincia alla Civica Scuola Altiero Spinelli. Alle ore 14, infatti, presenteremo il volume La realtà rappresentata. Antologia della critica sulla forma romanzo. 2000-2016 (Quodlibet). Per arrivare preparati all’appuntamento, pubblichiamo la prefazione di Raffaello Palumbo Mosca.


 

Leggere buona letteratura, ha scritto Mario Vargas Llosa, significa imparare «cosa e come siamo, nella nostra interezza». Ma dire «buona letteratura» è ancora troppo vago, perché include tutta una serie di generi che, invece, Vargas Llosa non ha in mente. Così, immediatamente dopo, l’affondo: «questa conoscenza totalizzante e in presa diretta dell’essere umano, oggi, si trova soltanto nel romanzo» (Llosa 2001, p. 5). Perché soltanto nel romanzo e non, ad esempio, nella poesia, o nel trattato filosofico o psicologico o, ancora, nella ricognizione storica? Innanzi tutto, continua Llosa, perché il romanzo non è un genere specialistico – non è scienza ed ha quindi potuto preservare una «visione integratrice»; solo il romanzo – o il romanzo meglio di altre forme d’arte – riesce ad «arricchire in maniera immaginaria la vita, quella di tutti, quella vita che non può essere smembrata, disarticolata, ridotta a schemi e formule, senza scomparire» (ivi, pp. 5-6).

Si può concordare con Llosa (e io, con alcuni distinguo, tendo a farlo), oppure si può vedere nel suo ottimismo il wishful thinking di un autore desideroso di riaffermare la centralità della sua arte. Ciò che più colpisce, però, e che è forse più difficile da accettare, è la specificazione temporale: il romanzo è oggi l’arte per eccellenza. Molto diverso sarebbe stato se Llosa avesse parlato – come molti, e con molte ragioni hanno fatto, da Ian Watt a Franco Moretti – del romanzo come genere della modernità; un genere che – benissimo lo ha spiegato Giovanna Rosa (2008) – presuppone strutturalmente «l’ordine negoziale della modernità» (ivi, p. 13) perché instaura un nuovo patto con il lettore secondo il quale «autore e lettore, ciascuno nel suo ruolo distinto, ma su base paritaria, si incontrano sulla pagina inchiostrata e s’accordano fiduciariamente sulle regole del gioco», sovvertendo così nel suo stesso «impianto genetico, le norme relazionali che fino ad allora avevano governato il rapporto tra scrittori e lettori» (ivi, p. 12, 18, corsivo mio).

Ma il romanzo – almeno nel significato che diamo oggi alla parola – è il genere moderno per eccellenza perché nasce e si sviluppa in seno alla emergente classe borghese, di cui rispecchia fedelmente i valori, offrendo anche, nella prospettiva di Moretti (2014), una giustificazione simbolica della sua ascesa al potere. Non è un caso, allora, che il Robinson Crusoe (1719), ovvero il testo che Ian Watt (1957), e molti con lui, pongono come fondativo del genere, inizi con un elogio esplicito della vita «media» come «la migliore condizione al mondo, la più adatta alla felicità umana». È Robinson stesso a riportare le parole di suo padre, il signor Kreutznaer: «mi disse poi che solo gli uomini più disperati, oppure gli ambiziosi mai sazi di fortuna, vanno in cerca di avventure lontano, per salire più in alto operando, per diventare famosi sfidando la natura con atti poco comuni; che però queste cose erano troppo al di sopra di me, o al di sotto di me; che appartenevo alla Classe Media, ovvero a ciò che si può chiamare la condizione superiore della vita inferiore, da lui giudicata per lunga esperienza come la classe migliore del mondo, la più conveniente alla felicità umana» (Defoe 1993, p. 5). Questa felice medietà – la medietà che il genere romanzo, a differenza dell’epica, eleggerà a suo oggetto privilegiato è anche lo specchio di un diverso modo di guardare e interpretare il mondo in termini di razionalità utilitaristica: come ha mostrato Moretti (2014), il mondo si dispiega agli occhi di Robinson come un’immensa distesa di strumenti; nulla ha valore in sé, ma è utensile per ottenere un vantaggio. Robinson oblitera l’orizzonte religioso in favore del pensiero economico e razionale. È, questa, una caratteristica fondamentale del genere: «dove c’è il sacro, ha scritto Berardinelli, non c’è posto per il romanzo» (o per la modernità) (Berardinelli 2016, 53). Similmente Milan Kundera ha inteso il mondo romanzesco come un mondo «sdivinizzato» nel quale «l’io pensante si sostituisce a Dio ma anche ad ogni altra autorità – come fondamento di tutte le cose» (Kundera 2000, p. 18).

Ma è esattamente così? O non si tratta, piuttosto, di un paradigma che assolutizza un dato sì reale ma geograficamente circoscritto, di fatto ignorando o semplificando gli impulsi propulsivi di altre tradizioni, e di prima importanza? Se il rapporto tra borghesia e romanzo è certamente cogente analizzando il caso inglese, non lo stesso si può dire per quanto riguarda la Francia. Benissimo lo ha mostrato Mazzoni (2001, pp. 190 e segg.): nello stesso periodo in cui la narrativa inglese si apre alla mimesi delle diverse classi sociali, quella francese sviluppa invece un «linguaggio dell’introspezione» che fa riferimento, da una parte, alla cerchia chiusa della corte – ovvero ad una cerchia «tenuta insieme da valori omogenei, composta da persone che, vivendo le une accanto alle altre in un regime di latente combinazione simbolica, sono abituate a osservare e osservarsi»– e alla tradizione «autoptica di origine agostiniana», dall’altra (ivi, p. 193). Il romanzo francese è quindi «mondano» nel senso di «terreno», ma anche nel senso di «romanzo del bel mondo» (della corte). Semplificando potremmo dire che il movimento di esplorazione della realtà del romanzo è orizzontale in ambito anglosassone (verso le diverse classi sociali) e verticale (nelle profondità di sé) in quello francese.

Il discorso si complica ancora, poi, se da Occidente muoviamo verso Oriente, guardando alla tardiva ma clamorosa stagione del romanzo russo. Da una parte, infatti, come notava Auerbach, si spezza, qui, quel legame tra «borghesia illuminata, attiva, ascendente al dominio storico e spirituale» e romanzo che «ovunque sta alla base della cultura moderna in generale e del realismo moderno in particolare» (Auerbach 2000, p. 300). Profondamente impregnato di spiritualità, il romanzo russo è dunque «nelle sue basi piuttosto imparentato con l’antico realismo cristiano che con quello moderno europeo» (ibid.). O ancora meglio, e come hanno sostenuto efficacemente Griffiths e Rabinowitz (2011), il romanzo russo si sviluppa, anche da un punto di vista stilistico e strutturale, come ripetizione e variazione dall’epica cristiana e, almeno a partire da Gogol’, porta la narrazione oltre sé stessa, verso «la predicazione (Tolstoy e Solzhenitsyn) o la visione profetica (Dostoevskij e Pasternak)» (ivi, p. 53). Se, tuttavia, in Tolstoy (come del resto in Manzoni) la tensione religiosa funziona (talvolta ma non sempre, basti citare due capolavori come La sonata a Kreutzer e La morte di Ivan Il’ic) contro il romanzo, quasi da suo anticorpo o contravveleno e culmina nel rifiuto dell’estetica moderna e nelle tesi pedagogiche di Che cos’è l’arte? (cfr. Tolstoy 2010), in Dostoevskij il rapporto tra terra e cielo è più complesso e, nella lettura di Nikolaj Berdjaev (2000), più vero e profondo. Se Tolstoy cerca Dio «come lo cerca il pagano, l’uomo naturale, lontano da Dio nella sua natura», Dostoevskij indaga l’uomo nella sua libertà e, indagandolo, trova Dio: «Dostoevskij – scrive Berdjaev – è tormentato dal mistero dello spirito umano», il suo pensiero è tutto rivolto all’uomo e «come uomo spirituale risolve il problema dell’uomo», perché «in verità, il problema di Dio è un problema umano» (ivi, pp. 14-15). Dostoevskij, continua Berdjaev, «prende l’uomo messo in libertà, sfuggito alla legge, uscito dall’ordine cosmico e studia il suo destino nella libertà, scoprendo gli infallibili risultati ottenuti per via della libertà» (ivi, p. 32). Il romanzo dell’introspezione tipico della tradizione francese si muta quindi, nello spirito russo, in tragedia, perché libertà è innanzi tutto libertà di fare il male, è libertà dell’arbitrio (e non per nulla «nichilismo» è parola e concetto-chiave di tutta una stagione, che da Padri e figli di Turgenev, passando per l’opera di Dostoevskij, arriva almeno fino a Bulgakov). Niente meglio del romanzo russo, con l’esempio massimo dell’opera di Dostoevskij, sembra confermare l’ipotesi che il genere sia, come afferma Pavel (2002), «il primo […] a porre, con ineguagliata acutezza, una questione assiologica fondamentale: se l’ideale morale faccia parte dell’ordine del mondo» (ivi, p. 35).

Ma lo fa a modo suo, ovvero non (o non solo), come succede nel romanzo occidentale, analizzando la separazione tra il personaggio e il mondo circostante, ma illuminando la scissione interna all’uomo. Più che la risposta – in Dostoevskij ancor più fortemente che in altri, il superamento della razionalità nella sottomissione evangelica – conta l’estensione delle possibilità di analisi del genere: il realismo, che in Occidente era stato declinato soprattutto in chiave sociale e politica, viene efficacemente applicato, come immediatamente notava Vogüé nel suo pionieristico studio (1857), «alle cose dell’anima» (cit. in Todd 2002, p. 399). Scoprendo la natura informe, inconseguente, della natura umana – il suo essere simultanee possibilità contraddittorie – e ponendosi con una radicalità fino ad allora sconosciuta la domanda sul Male e sulla libertà individuale, il romanzo russo anticipa i nodi cruciali e incandescenti di tutto il Novecento e giunge fino a noi. Il romanzo è genere che «resiste» ancora oggi soprattutto perché – uso l’espressione di Guido Mazzoni – la «grammatica dell’esistenza» di Lucien de Rubempré, di Renzo Tramaglino, del principe Andrej Bolkonskij o di Zeno Cosini – insomma: dei suoi personaggi – è anche e ancora la nostra (cfr. Mazzoni 2011, 398 e segg.). E così, pur parlando sempre di «nomi propri» (di individui specifici), il romanzo parla sempre anche di noi, del nostro «interno» (la psicologia) e del nostro «esterno» (la società); o ancor meglio parla sempre, indagandolo, dell’incontro disforico tra uomo e mondo, tra natura e cultura, tra reale e ideale. È, per dirla con Lukács, «l’epopea di un’epoca in cui la totalità estensiva della vita cessa di offrirsi alla percezione sensibile e la viva immanenza del senso diventa problematica»; e tuttavia, nonostante questa disgiunzione tra io e mondo, «persiste la disposizione emotiva alla totalità» (Lukács 2004, p. 49).

Se l’opposizione binaria epopea versus romanzo (totalità versus frammentarietà), che Lukács sviluppava a partire da una pagina famosa dell’Estetica di Hegel è stata ultimamente, e con molto profitto, messa in discussione, e se, come ha elegantemente dimostrato Massimo Fusillo (2002), è necessario considerare epica e romanzo come «due fasci di costanti transculturali che di epoca in epoca e di opera in opera possono essere più o meno attive, e possono anche trasformarsi del tutto» (ivi, pp. 12-13), l’opposizione sviluppata da Lukács mi sembra ancora utilizzabile: non tanto perché ci dica qualcosa dell’epica, ma perché enfatizza questo desiderio di completezza, questa ineludibile e sempre sconfitta tensione alla totalità che costituiscono il cuore pulsante del romanzo (e dell’essere umano). E che rendono il genere ancora oggi interessante e vivo. Perché, nonostante tutti i “debolismi” postmoderni, il percorso insieme gnoseologico ed emotivo del personaggio (ammesso che la distinzione, alla luce delle ricerche psicologiche e neuroscientifiche in proposito, conservi una qualche validità) costituisce ancora e dopotutto uno dei migliori utensili a nostra disposizione per la ricerca di un senso; vale a dire: affinché la realtà, riconosciuta come dato culturale, e quindi percepita (e ordinata) in insieme di valori, si costruisca in esperienza utilizzabile.

Il continuo accadere della realtà in quanto avvenimento imprevedibile, ha scritto Berardinelli, «sorprende e mette alla prova il personaggio» e per quanto «il caso finisca per apparire necessità e l’illogico per apparire logico, fra i due momenti prende corpo la narrazione, dato che soltanto una volta accaduti e studiati nella realtà empirica dell’accadere gli eventi si rivelano nel loro significato e mostrano di aver avuto un loro interessante “perché”» (Berardinelli 2016, p. 42). Renzo, Lucien, il principe Andreij e tutti gli altri sono portatori di senso in quanto soggetti di un accadimento che è sì finzione, ma che è anche possibilità data nella realtà. La rappresentazione è sempre diversa dall’esperienza, ma come ha scritto Philippe Forest «nei casi migliori può esserne la prova (nel senso teatrale del termine, cioè la preparazione) e la ripresa (nel senso che intende Kierkegaard: cioè, in questo caso, il rilancio)» (Forest 2004, p. 97). L’esistenza dei personaggi è quindi esperimento a partire da un’ipotesi, e in questo senso la distanza che separa il campione del naturalismo Zola dall’ipermoderno Walter Siti (per tacer di Proust, da Siti esplicitamente citato) è, mutatis mutandis, davvero minima. Se Zola rivendicava la verità della sua narrazione nel metodo delle deduzioni logiche più che nel contenuto, circa centocinquant’anni dopo Siti parlerà dell’io autobiografico come di «una specie di robot, o di clone, da spedire in avanscoperta dove il territorio è contaminato». Se al primo «non importa che il fatto generatore sia riconosciuto o meno come assolutamente vero» perché questo sarà soprattutto «un’ipotesi scientifica» (Zola, cit. in Pellini 1999, p. xviii), in Siti l’autobiografia sarà necessariamente di «fatti non accaduti», dato che «la struttura prende il sopravvento sulla memoria», e «la verità non è quella dell’esperienza ma quella della “legge” (Proust insegna)» (Siti 2013a)4. Certo, l’esperimento di Zola è, per dirla con Debenedetti (1999), «confortato dalla certezza che i motivi nei quali noi crediamo, sono gli stessi che conducono il corso delle cose» – la sua è una «epica della realtà» –, mentre Siti si muove in un mondo nel quale il «cielo a cupola, lungo le curvature della quale i destini dei personaggi si iscrivono e prendono disegno» (ivi, pp. 905, 920) si è forse irrimediabilmente frantumato. È evidente, insomma, che Siti scrive e ragiona in un mondo profondamente mutato, e come benissimo ha mostrato Tricomi, Troppi paradisi nasce in seno ad una critica della modernità che radicalizza in alcuni punti il Marcuse dell’Uomo a una dimensione; eppure, anche in questo orizzonte mutato, e in una nuova e più complessa declinazione del rapporto tra verità e finzione, il personaggio conserva ancora tutta la sua funzione conoscitiva. Il romanzo conosce attraverso la funzione-personaggio, perché vivere vicariamente una vita fittizia e possibile rimane, fino ad oggi, il modo migliore che abbiamo escogitato per sopperire alle insufficienze della vita, al suo «accadere» (solo apparentemente?) privo di senso. Il «disegno segreto e non appariscente» degli «accadimenti segreti e inavvertiti» che Gadda trovava magistralmente in opera nei Promessi sposi è, quindi, la spina dorsale di ogni romanzo degno di tal nome. (E, vale appena la pena notarlo, tale attività interpretante e ordinatrice può benissimo prescindere – come in effetti in moltissimi romanzi prescinde – da una prospettiva metafisica, dalla Provvidenza che opera invece a pieno regime nel testo di Manzoni).

Il personaggio, dunque: «deduzione logica» per Zola, «io sperimentale» per Kundera, «clone o robot» per Siti, è pur sempre, nel romanzo, quel «personaggio-uomo» di cui ha parlato Debenedetti; quello che «se gli chiediamo di farsi conoscere […] gira il risvolto della giubba, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è anche il suo motto araldico: si tratta anche di te» (Debenedetti 1999, p. 1283). Ne sono convinto: ogni tentativo di obliterare il personaggio è destinato, nel lungo periodo, a fallire; o, che è lo stesso, a disarticolare la forma-romanzo fino a renderla irriconoscibile e dopotutto irricevibile. Il «lettore dal volto umano» (cfr. Onofri 2007) – interessato prima di tutto, a quella «fauna spirituale» la cui creazione era il primo e ineludibile compito del romanziere già per Ortega Y Gasset – legge per ritrovare il suo accidentato cammino verso la totalità (ad un senso possibile); è questo nocciolo essenziale, questo groviglio di domande insistenti e fondamentali e a cui mai si può dare una risposta definitiva (chi sono io? Che cos’è la realtà? Ho un destino?) ciò che permette di riconoscere una certa aria di famiglia in personaggi tra loro diversissimi, dal fatalista Jacques a Lucien de Rubempré, al narratore della Recherche fino a Cosimo Piovasco di Rondò di Calvino, e oltre (e cos’è «l’eroe cercatore» di Lukács se non, letteralmente, l’incarnazione di questo processo conoscitivo?).

Più ancora che il genere pedagogico per eccellenza, un genere che ispirava a quel geniale affabulatore che è stato Manganelli «un sentimento più prossimo alla ripugnanza che al semplice fastidio», il romanzo mi sembra allora il genere del personaggio, e quindi il genere della ricerca morale. Il genere che più assiduamente tenta, e con più profitto, quella «sintesi tra ideale e reale» che Borgese attribuiva all’arte tutta. Un genere che è quindi, e costitutivamente, spinta ad una «modificazione del mondo» (e di sé) (Borgese 1934, 165 e xviii). Anche Adorno, del resto, proprio al principio della sua Teoria estetica parlava, per le grandi opere d’arte, di una coesistenza della «più acuta coscienza della realtà» con una «estraniazione» da essa, e del «desiderio di produrre un mondo migliore» (Adorno 2009, p. 14).

La differenza non è da poco, se ad un genere pedagogico competono risposte e precetti, mentre al romanzo-ricerca domande e fallimenti. Il romanzo come genere del fallimento, dell’io non pacificato: basterebbe questo a farne l’espressione più intimamente legata all’umanità. (E per chiedere che venga preservato come specie protetta, a maggior ragione in tempi in cui il successo a tutti i costi, soprattutto a scapito, non diciamo della morale ma della semplice decenza, è imperativo così ossessivamente ripetuto da esser stato a poco a poco interiorizzato quasi all’unanimità). Eppure, detto così, non è forse tutto un po’ troppo lineare, troppo «facile»? «Quale è – si chiede e ci chiede Ficara nel suo (splendidamente problematico e “dubitante” – si veda la frequenza delle congiunzioni avversative e disgiuntive lungo tutto il testo) Lettere non italiane propriamente, l’ethos di un romanziere?». È forse «lo stesso di un magistrato o di un politico o di un educatore?» (Ficara 2016, p. 102).

La domanda è retorica fino ad un certo punto, e se non può essere esaurita (se non ha, cioè, una risposta certa e definitiva), non deve neanche essere elusa. Inizierei col dire ciò che l’ethos del romanziere, o meglio del romanzo, non è: non è un ethos prescrittivo, non ci consegna la risposta alla domanda sulla vita giusta (Montale: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/l’animo nostro informe e a lettere di fuoco/lo dichiari e risplenda come un croco/perduto in mezzo a un polveroso prato»). Come ha scritto Camus, «giudicare nettamente (e) dividere nettamente la realtà fra il bene e il male» non è il regno dell’arte, ma del «melodramma» (Camus 2000, p. 1261). Altrove (2013 e 2014), mi sono concentrato su personaggi immediatamente e dichiaratamente negativi (Aue nelle Benevole di Littell, ad esempio) proprio per sottolineare come la relazione tra etica e romanzo sia rilevante non dalla prospettiva del contenuto, ma si sviluppi a partire dal pensiero morale – o pensiero sulla morale – che il romanzo è in grado di stimolare nel lettore, poiché «la riflessione morale è resa ciò che è dalla riflessione sulla vita: ma da una riflessione che è infinitamente toccata da una varietà di cose della vita, non soltanto dalla personalità morale» (Diamond 2006, p. 144). E la riflessione sperimentale sulla vita è esattamente il dono – o il fardello – che i personaggi romanzeschi ci consegnano. Ce lo consegnano, però, da un certo momento in poi – Mazzoni propone il 1774, con la pubblicazione del Werther di Goethe, come data simbolica (Mazzoni 2011, p. 209) – se è vero che almeno fino al Tom Jones di Fielding (1749), più dell’esperienza estetica o l’identificazione con il personaggio, ciò che conta è l’idea di romanzo come exemplum e conferma dilettevole di una morale già conosciuta (cfr. ivi, soprattutto pp. 205-218). Il processo di affrancamento da una morale precostituita si radicalizza nel Novecento e tocca forse oggi il suo culmine; non è, però, un processo concluso né lineare, e basti pensare ai numerosi processi per immoralità nell’Ottocento inoltrato o, ancora oggi, alle polemiche suscitate da romanzi come Le benevole di Littell o Il demone a Beslan e Il giardino delle mosche di Andrea Tarabbia, nei quali l’adozione del punto di vista del carnefice viene candidamente identificata con l’adesione morale e interpretata come giustificazione del Male e non, come invece è, un tentativo di ampliare il campo del dicibile, un modo per «cercare una verità storica e umana» che altrimenti sarebbe rimasta in ombra (Tarabbia 2015a). E non è forse questo, al suo cuore, il realismo del romanzo? un «inseguimento infinito a rappresentare zone sempre più nascoste e proibite della realtà, impiegando artifici sempre più sofisticati e illusionistici» (Siti 2013, p. 22).

Nel recente Il punto cieco, Javier Cercas ha istituito un rapporto originario e strutturale tra forma-romanzo e ricerca morale. I generi, afferma Cercas, si differenziano, come è evidente, per caratteristiche formali, ma soprattutto «per il tipo di domande che pongono e per il tipo di risposte che offrono». Al centro di ogni romanzo c’è, secondo Cercas, una domanda morale; per rispondervi il romanziere ha bisogno degli strumenti «dello storico, del giornalista, del saggista, del biografo, dello psicologo» (ritorna qui quell’idea del sapere romanzesco come sapere non specialistico sottolineata da Llosa, non a caso, insieme a Kundera, nume tutelare di Cercas), ma la sua risposta è essenzialmente diversa da quella di questi ultimi e in un certo modo paradossale: è la risposta del «punto cieco». Ovvero, nelle parole di Cercas stesso: «la risposta alla domanda è che non c’è risposta; vale a dire, la risposta è la ricerca stessa di una risposta, la domanda stessa, il libro stesso». Il romanzo è dunque quel genere la cui domanda centrale è una domanda morale e che «rifugge dalle risposte chiare, tassative, inequivocabili e che ammette soltanto di porsi domande a cui non si possa rispondere o domande che esigano risposte ambigue, complesse e plurali, essenzialmente ironiche» (Cercas 2016, pp. 43-44).

Vero? Falso? Solo parzialmente vero? Senza dubbio Cercas riprende e ripropone qui alcune qualità riconosciute del romanzo moderno: l’istinto a «cannibalizzare» gli altri generi (Bachtin), la tensione verso la complessità (come specchio della complessità, quando non indecifrabilità, del mondo moderno), l’ironia (Kundera), e le epitomizza nell’idea di «punto cieco», in quelle «verità plurali e contraddittorie» espresse dal romanzo. Queste verità, esattamente perché plurali e contraddittorie chiamano il lettore ad una interpretazione personale, ovvero ad un pensiero morale (invece di consegnargli un giudizio morale). L’effetto di queste multiple verità è molto simile allo straniamento di cui ha parlato Sklovskij, e ci permette di vedere il mondo come effettivo spazio per la scelta morale, e non come un sistema di situazioni già codificate dall’abitudine. Ogni letteratura «autentica» è, conclude Cercas, «impegnata, almeno nella misura in cui ogni autentica letteratura aspira a cambiare il mondo cambiando la percezione del mondo del lettore» (ivi, p. 133). Ancor prima, e similmente, ammoniva Alain Finkielkraut: per determinare il valore di un’opera d’arte non dobbiamo chiederci «a che cosa possa servirci» (cosa ci possa insegnare) ma, piuttosto, «da quale automatismo di pensiero possa liberarci» (Finkielkraut 2011, p. 15).

Siamo ancora, in fondo, all’interno di quella concezione di una sintesi tra ideale e reale capace di sovvertire una percezione pacificata della realtà di cui parlava Borgese o, più avanti, di quella capacità dell’opera di «rovesciare l’esperienza quotidiana» per mostrare come essa sia «falsa e mutilata» di cui ha parlato Marcuse nell’Uomo a una dimensione (1967, p. 81). Con una differenza cruciale, però, perché là dove Borgese vedeva una caratteristica ineliminabile dell’opera, Marcuse  vede  un’opzione  rimpianta  e  ormai  chiusa;  caratteristica prima della società industriale avanzata è infatti creare un «uomo ad una dimensione» distruggendo i «nuclei d’opposizione, di trascendenza, di estraneità contenuti nell’alta cultura» non attraverso una loro negazione «bensì mediante la loro riproduzione ed esposizione su scala massiccia», riducendo così «i regni della cultura al loro denominatore comune – la forma di merce. La musica dell’anima è (diventata) anche la musica del venditore» (ivi, p. 76).

Rileggendo oggi l’analisi di Marcuse è difficile non provare uno straniante shock of recognition: non, iuxta Coleridge, delle nostre aspirazioni, bensì del nostro desolante  presente  mercificato.  Oggi più che mai sembrerebbe vero, infatti, e anche per quanto riguarda l’industria editoriale, che il dominio capitalistico è capace di «far emergere forme di pensiero e di comportamento ad una dimensione in cui idee, aspirazioni e obiettivi che trascendono come contenuto l’universo costituito del discorso e dell’azione vengono o respinti, o ridotti ai termini di tale universo» (ivi, p. 75). Eppure. Ogni analisi, descrivendo lo status quo, solamente allude alla morale, ovvero a quel dover-essere che lo nega; ogni analisi, per quanto accurata e «vera» (o meglio: verificabile), si limita a descrivere una serie di forze che non vanno intese in senso deterministico, i cui effetti cioè non devono essere considerati necessari. Dato quindi un pessimismo di fondo della ragione, non resta che affidarsi ad un ottimismo della volontà, innanzi tutto notando e incoraggiando quei casi virtuosi che, malgré tout, ancora esistono.

E lo stile? Se un rapporto tra etica e romanzo c’è, deve ritrovarsi anche, e strutturalmente, a livello dello stile che, come ben faceva notare Spitzer sulla falsariga di Proust, è «etimo spirituale», spia di una vera e propria concezione del mondo («distinguere l’anima di un dato scrittore […] in quel suo determinato linguaggio») (Spitzer 1954, p. 119). Non è questa la sede per entrare nel dibattito sulla validità dei principi metodologici della critica stilistica, oggi fortemente messi in discussione, ma la definizione di Spitzer, al di là della obsolescenza dei concetti di scarto e deviazione dallo standard linguistico dai quali prendeva le mosse, conserva ancora, e proprio perché tanto vaga quanto suggestiva, la capacità di attirare la nostra attenzione su un quid che esprime la posizione complessiva del narratore – una posizione che è insieme linguistica, grammaticale, filosofica e psicologica – di fronte al mondo (rappresentato). Tanto più che, come è stato giustamente notato, il genere romanzo è quello che «più di ogni altro mette in crisi il concetto di stile e una sua ipotetica definizione unitaria, sancendone la sparizione in favore della nozione, globale e non più locale, di discorso» (Testa 2002, p. 280).

E tuttavia, quando Ficara rileva la frattura tra un certo romanzo contemporaneo e la lingua della tradizione, non lamenta esattamente una povertà, quando non assoluta mancanza, di quel quid – indefinibile quanto si voglia, ma reale e percepibilissimo ad un orecchio appena allenato – che chiamiamo stile? Un periodo come: «Ammirò le linee dal gusto rétro, l’eleganza della costruzione unita a un rigore funzionale frutto del genio di un architetto che aveva progettato quella casa per la “divina” Garbo» è, per Ficara, «del tutto simile alla falsa lingua “colta” – quasi riprovevole – in uso a tutt’oggi, ad esempio, nei magazine» (Ficara 2016, p. 87). Una lingua «riprovevole» perché falsissima (bellezza e verità qui platonicamente coincidono: «il problema, oggi, è la “bruttezza”, cioè la non verità di certi libri», ivi, p. 30) che, rinunciando (o peggio, ignorando) il legame con la tradizione, ha rinunciato anche alla polisemia e alla complessità, di sé e del mondo; una lingua tutt’altro che «naturale» o «semplice» – e d’altronde, come giustamente nota Ficara ricordando un fondamentale saggio di Enrico Testa, «anche lo “stile semplice” con tutta la sua proiezione popolare appartiene di diritto alla letteratura italiana alta, cioè all’unica letteratura italiana che si conosca» –, quanto piuttosto artefatta, un po’ pateticamente scimmiottata su una falsa idea di «cultura». Che è qualcosa di peggio, e di più sottile squallore, di quel «ritorno all’ordine» di una «lingua sobriamente tradizionale o – al più – moderatamente letterata» di cui aveva già parlato Giuseppe Antonelli nel suo Lingua ipermedia (2006, p. 14).

Dunque? In via preliminare mi limiterei a dire che l’ethos della lingua del romanzo ha a che fare con un recupero, un riuso e persino una negazione della tradizione, ma comunque con l’istituzione, con essa, di un rapporto vitale e consapevole. «La parola convocata sotto penna – scriveva Gadda in Come lavoro – non è vergine mai anche se in una ipostasi titillatoria, e narcissica (e nei momenti di più accesa bischeraggine), lo scrittore può tener sé aliato, al creare, dal soffio di una purità primigenia: e sognare che la sua parola la discenda, come diafana ala di libellula, dal disopra ogni azzurro: cioè dall’invisibile increato» (Gadda 1991, p. 436). Ovvero, un ethos possibile ha a che fare con la complessità di una lingua che si misuri con il mondo e la storia e possa, per questo, dirsi «vera» (e portatrice di verità). Ha ragione Ficara: «certi libri sono “brutti” […] perché rispetto all’attuale pena del mondo scelgono un falsetto estetizzante, disumano, pigramente discorsivo» (Ficara 2016, p. 31).


 

palumbo moscaRaffaello Palumbo Mosca (a cura di), La realtà rappresentata. Antologia della critica sulla forma romanzo. 2000-2016, Macerata, Quodlibet, 2019, pp. 389, €24.