Se si dovesse scegliere la serie televisiva di Netflix che maggiormente rappresenta il successo del servizio di streaming più famoso del mondo, quella sarebbe Stranger Things. Arrivata alla sua terza stagione, l’opera dei Duffer Brothers si ripresenta puntualmente come quell’oggetto mesmerizzante che invita una generazione – quella dei millennials – a rivivere l’eterno ritorno, dalla musica della loro adolescenza, alle atmosfere di quei film che hanno rivisto tante di quelle volte da consumare le vhs. Proprio come Netflix, Stranger Things ti culla in una bolla di confortanti richiami di un immaginario collettivo, riconfezionando con pregevole manierismo il già visto e il già sentito. Si potrebbe dire che la serie più amata del momento sia la prova che, per quanto si voglia combattere il sistema delle raccomandazioni della tv digitale in nome di un vago desiderio di novità, il consumatore non vuole altro che l’eterna ricombinazione di elementi a lui familiari. Così Stranger Things si ripresenta nella sua terza versione di collage di storie, ribadendo con forza la sua assoluta volontà nell’abolire l’originalità in ogni sua forma. La trama vede nuovamente la cittadina di Hawkins teatro della sfida tra l’ormai celeberrimo manipolo di ragazzini e una creatura dal sottosopra che vuole invadere il loro mondo per distruggerlo. Esordisce nel macro contesto il tema della guerra fredda, con tanto di stereotipato quanto funzionale laboratorio russo segretissimo dove scienziati spietati tentano di riaprire la frattura tra i due mondi. A cambiare è ovviamente anche l’età dei ragazzini protagonisti, ormai in piena adolescenza e alle prese con le prime turbe sentimentali. Le loro tempeste ormonali permettono ai Duffer Brothers di inserire nel loro perfetto JukeBox dei ricordi anche il genere romantic teen che tanto aveva infestato le produzioni a basso costo degli anni 80. Così vediamo la telepate Eleven pomiciare con Mike in cameretta, con lo stereo a tutto volume per confondere lo sceriffo Hopper, che li tiene d’occhio dal salotto. Oppure scopriamo che Lucas e Max fanno ormai coppia fissa e affrontano le loro prime crisi di coppia. Persino Dustin, il più nerd del gruppo di ritorno da una vacanza nello Utah, millanta di aver trovato l’anima gemella. Le serate nel seminterrato di Mike a giocare a Dungeons & Dragons sembrano essere un lontano ricordo, ma non per Will, l’unico del gruppo a non aver ancora abbandonato del tutto i giochi d’infanzia, forse per via dei traumi legati alla possessione del Mind Flayer, o forse semplicemente perché per ognuno c’è un tempo diverso per crescere. Con il passare delle stagioni Stranger Things sembra possedere l’ambizione narrativa di seguire l’intera vita dei protagonisti, accompagnandoli fino all’età adulta, quasi fossero una versione più cool della banda dei perdenti del capolavoro di Stephen King, IT. Il nemico proveniente da un’altra dimensione ritorna ciclicamente a minacciare la sonnolenta Hawkins, così come il clown Pennywise si risveglia ogni 30 anni per terrorizzare Derry, ed entrambe le entità malefiche assumono forme sempre diverse. Ma sono di certo altre le citazioni e gli omaggi più espliciti di questa terza stagione. Oltra alla principale fonte per l’estetica della creatura, ovvero l’Alien di Ridley Scott, troviamo infatti spunti dall’Invasione degli ultracorpi, da Blob, La cosa di John Carpenter e addirittura Terminator. Si direbbe che i Duffer Brothers abbiano una lista di tutti i film cult del genere horror e fantascientifico degli anni 80 e siano intenzionati a spuntarla completamente. I richiami continui ai capolavori di genere sono però, come sempre, ben integrati nel tessuto, anche se in quest’ultima stagione il meccanismo – forse anche per via di un occhio abituato al gioco del riconoscimento – sembra a tratti troppo scoperto, fino a essere gratuito, uno fra tutti l’inserzione di alcune scene di Ritorno al futuro, uscito nelle nel 1985, anno in cui è ambientata la nostra storia. Tutto questo non toglie alla serie il merito di costruire un intreccio convincente su pressoché il medesimo materiale narrativo delle due stagioni precedenti, giocando esclusivamente sull’uso di alcuni espedienti, primo fra tutti la suddivisione dell’azione in diverse sottotrame che viaggiano in parallelo, per poi convergere solo negli ultimi episodi. Questo stratagemma – anche questo peraltro già adottato in forma minore nelle stagioni precedenti – permette ai fratelli Duffer di dedicare il giusto spazio a quasi tutti i personaggi, evitando così l’eclissarsi fisiologico di figure minori e di mantenere un buon ritmo da binge watching. Non mancano poi i nuovi arrivi, come Robin, interpretata dalla rivelazione Maya Hawke, figlia d’arte al suo primo vero importante ruolo della carriera e che con ogni probabilità farà ancora parlare di sé. E poi c’è il Mall, il centro commerciale, il vero protagonista di questo Stranger Things 3, luogo di culto per almeno un un paio di generazioni americane, dove l’incanto delle merci si manifesta in tutta la sua magnificenza, diffondendo una colorata e mistificante felicità. È forse il grande centro commerciale il vero totem catalizzatore di energie nefaste, più del Mind Flayer o dei russi che cospirano nei sotterranei della città. È il Mall il vero spettro che incombe sulla città in tutta la sua imponenza, lo stesso luogo in cui gli zombi di Romero si radunano, nella pellicola del ’78 co-prodotta da un giovane Dario Argento. E non poteva che essere nel Mall il teatro in cui si decideranno le sorti di Hawkins, quando le forze del bene e del male si fronteggeranno. Stranger Things si conferma dunque un prodotto pianificato in ogni sequenza per offrire allo spettatore il miglior spettacolo casalingo possibile, ma si avverte la stanchezza di un meccanismo vicino all’usura. Nella quarta stagione, forse, i Duffer Brothers dovranno fare una scelta, tra un rischioso cambio di rotta o l’eterno ritorno.