NON NOMINARE IL NOME DELLA BALENA BIANCA INVANO. È un monito che ripeto spesso, per lo più ignorato. È il mio comandamento. Anzi, ne approfitto per presentare le mie rimostranze alla spett.le Direzione di questo sito (per cambiare il nome ormai è tardi, immagino): all’inizio dei loro messaggi della mailing list troviamo formule come «Cari balenieri» o cose simili, e a noi che prendiamo così sul serio Moby Dick viene sempre da pensare che la redazione ci stia augurando di fare la fine orribile dei balenieri del Pequod. Ma molto consigliabile l’iscrizione alla suddetta mailing list, certo.

A proposito, si avvicina il giorno del bicentenario di Melville, nato il primo agosto 1819: sarà prevedibilmente un florilegio di citazioni a sproposito e di violazioni ripetute del mio comandamento. Che ognuno si assuma le proprie responsabilità. Ma uno dei possibili rimedi per cercare di evitare di commettere quel peccato è, per esempio, leggere la biografia da poco pubblicata per Mimesis da Paolo Parisi Presicce: Herman Melville. Racconto di un tipo strano.

Più che in altri casi, tutte le biografie di Melville – e quella di Parisi Presicce, già autore di Impalcature. Teorie e pratiche della narratività (2017), non fa eccezione – si misurano con il bisogno, o meno, di separare il dato biografico reale e documentabile dalla sua elaborazione letteraria. Ciò riguarda in particolare la prima parte della carriera dello scrittore, quando le caratteristiche di romanzi di mare e d’avventura quali Typee (1846) e Omoo (1847) ponevano la questione della verosimiglianza dei fatti raccontati perfino alla critica del tempo. Lo stesso autore riflette: «Se nella vita Herman è veritiero e onesto, nella letteratura mescola un poco le carte, o forse altrimenti è impossibile».

In effetti, si potrebbero classificare le biografie di Melville in base al modo scelto dal loro autore o autrice di gestire il rapporto fra dato letterario e dato biografico. Penso alle biografie che hanno scelto di non preoccuparsene troppo: quella di Raymond Weaver (1921) o quella, bellissima, di Lewis Mumford (1929, disponibile anche in italiano per le Edizioni di Comunità), il cui capitolo su Moby Dick è entusiasmante quasi quanto Moby Dick stesso. O anche quella, misteriosa ma in anticipo sui tempi e quasi di culto, di Jean Simon, una tesi di dottorato in francese disponibile in microfiche in biblioteca a Parigi, una cosa proprio da carbonaro melvilliano o da stalker di un morto (mi sto autodenunciando). La biografia a frammenti di Jay Leyda, allievo di Sergei Eisentein, The Melville Log: A Documentary Life of Herman Melville (1951), è una formidabile, benché metodologicamente (e dichiaratamente) talvolta poco precisa, banca dati sulle tracce della quotidianità di Melville, e la potremmo anche considerare come uno spartiacque nella storia delle biografie di Melville. Dopo Leyda arriveranno infatti biografie più vicine a un lavoro storiografico metodologicamente rigoroso. Per esempio quella di Hershel Parker, in due volumi (1996 e 2002), a cui il volume di Parisi Presicce deve molto. O quella, striminzita ma bella, di Elizabeth Hardwick (2000); o quella, elegante ma forse poco coraggiosa, di Laurie Robertson-Lorant (1996); oppure, infine, quella notevole di Andrew Del Banco, Melville: His World and Work (2006), forse la più vicina a quel che possiamo considerare una sensibilità critico-biografica contemporanea. Ci sono poi opere critiche che, sbandando inavvertitamente, si trasformano in gioielli d’invenzione: è il caso di Pour saluer Melville (1941), di Jean Giono, che fu anche traduttore francese di Moby Dick.

In questo panorama, solo accennato e certamente non esaustivo, il lavoro di Paolo Parisi Presicce ha il merito di presentarsi come l’unico volume italiano in cui i tanti dettagli della vita di Melville e dei suoi familiari vengano riportati e, seppur in misura minore, discussi. La raffica di dati biografici riportati è da una parte il pregio e dall’altra il difetto del volume in questione. La sequela d’informazioni storiche è interrotta qua e là da considerazioni quali «personalmente non ci credo» o «tuttavia c’è qualcosa in lui che non si riesce a capire», formule che, viene da pensare, forse somigliano a ciò che dovettero dirsi alcuni critici scettici leggendo le avventure del protagonista di Typee e Omoo nei mari del Sud.

Tali ragionamenti sulla metodologia storiografica adottata dall’autore si complicano quando, qua e là nelle pagine, incontriamo alcuni omissioni e inesattezze. Alcuni di questi problemi sono dovuti forse alla mancanza di un ritorno sui documenti o alla difficoltà di coordinare fra loro le diverse e talvolta divergenti fonti a cui verosimilmente l’autore si è affidato, ovvero le biografie di Melville già esistenti. C’è poi un errore che, non volendo, ci spinge a immaginare creativamente quanto sarebbe stato diverso il senso profondo di Billy Budd – l’opera di Melville di cui si sono date più interpretazioni in termini filosofico-politici – se il bello e ingenuo marinaio Billy avesse effettivamente ucciso il maestro d’armi John Claggart con un coltello, quindi con un diverso grado d’intenzionalità e in circostanze diverse, e non con un pugno, come scritto nel racconto di Melville.

In ogni caso, e al di là dei piccoli o grandi problemi in cui qualunque lavoro biografico può incappare – perché non è solo la storiografia a essere talvolta scivolosa, ma anche le vite stesse che quella storiografia tenta di ricostruire – il volume di Parisi Presicce, che considera Melville «un tipo strano» a cui attribuisce «una forma di ottimismo incantato», si basa su un presupposto chiaramente enunciato in apertura: «l’ipotesi che Melville abbia sempre preferito la vita alla letteratura; non per goderla epicureamente o esaltarla irrazionalmente, ma in senso quasi metafisico, per un “immense et raisonné dérèglement” (parole di Rimbaud), a volte miserevole e a volte meraviglioso, con cui egli attraversa le tensioni e i crolli della sua ricerca di senso». È lodevole la scelta di basare esplicitamente tutta la biografia su un presupposto così ben definito – quello secondo cui a Melville interessava più la vita che la letteratura –, ed è una scelta che si fa più dialetticamente interessante soprattutto in un caso: quando non la si condivide.

Per giustificare il suo legittimo presupposto interpretativo, Parisi Presicce chiama in causa Rimbaud: un «immense et raisonné dérèglement», un immenso e ragionato sregolamento (è una citazione dalla Lettre du Voyant, a Paul Demeny, 15 maggio 1871). Eppure, proprio il caso di Rimbaud offre una buona occasione per interrogarsi sul rapporto fra vita vera e vita reale. Uno dei suoi versi più citati dice: «La vera vita è altrove». Lo si trova riportato spesso, piegata a questo o a quell’altro ragionamento. Sarebbe in effetti un verso che corroborerebbe il presupposto di Parisi Presicce. Ma c’è un problema, un problema che ci fa presente anche Didier Fassin in Le vite ineguali (Feltrinelli): quel verso non esiste.

In Una stagione all’inferno Rimbaud scrisse infatti che la vraie vie est absente, «la vera vita è assente». Aggiungendo poi che «non siamo al mondo». Leggendo la sua biografia da questa prospettiva, è difficile attribuire a Melville una preferenza per la vita sulla letteratura, se consideriamo che, a leggerne le tappe, come il lavoro di Paolo Parisi Presicce ci permette di fare, si ha l’impressione che per lui la vita non fosse altro che poco più di una faccenda da sbrigare per poi trasformarla in letteratura.

È qualcosa che nel caso di Herman Melville si fa anche più tristemente evidente: la sua carriera di scrittore celebre e riconosciuto sostanzialmente finì con la pubblicazione di Moby Dick, un fiasco. Aveva trentadue anni. Da lì iniziò una progressiva discesa in una vita nell’ombra di se stesso, una vita grigia in cui il ricordo del passato e un umido e piovoso novembre sulla sua anima immobilizzavano il presente, in cui la sua presenza in famiglia si faceva evanescente – quando non minacciosa e violenta – e in cui gli stimoli a vivere una vita piena – qualunque cosa essa sia – erano molto pochi: quella vita piena era riservata ai suoi romanzi passati, la vita vera distillata dalla vita reale. Quando Melville morì, in molti si stupirono che fosse ancora vivo.

Colta da un punto di vista opposto – o forse complementare? – al presupposto della biografia qui discussa, la vita di Melville pare incarnare perfettamente ciò che, quasi quarant’anni dopo la sua morte, Proust avrebbe scritto ne Il tempo ritrovato, a conclusione della sua Recherche: «La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura». Ma, madeleines a parte, per riflettere sul rapporto fra vita vera e vita reale rispetto alla biografia di Herman Melville, riprendiamo infine una volta di più una delle sue frasi più citate, ora a proposito ora meno. Moby Dick, dodicesimo capitolo. Raccontando della vita – appunto – di Queequeg e della sua isola di provenienza, Melville (o meglio, Ishmael) scrive un’altra frase (troppo) spesso citata: «Non è segnata in nessuna carta: i luoghi veri non lo sono mai». Vale allora la pena di concedersi una forzatura e, pensando alla vita di Herman Melville e di molti altri, se non di tutti, modificare la citazione: «Non è segnata in nessuna biografia: le vite vere non lo sono mai».


Presicce_Melville

Paolo Paris Presicce, Herman Melville. Racconto di un tipo strano, Mimesis, Milano-Udine 2019 364 pp. 28,00€