Note incrociate di letture diverse. Antoine Volodine (dal recentissimo Sogni di Mevlidò [trad. Anna D’Elia, 66thand2nd, 2019], ma a raggiera su molta parte dell’opera) e In territorio selvaggio di Laura Pugno (nottetempo, 2018). Libri diversi, di autori diversi. Mi chiamano, tuttavia. Parlano all’unisono – l’unico modo per apprezzare le differenze vocali.

L’umanità sopravvive. Ma forse è più sensato riformulare: l’umano sopravvive, come a indicare una proteina del residuale. Il consorzio civile, le abitudini, le strutture, le morfologie biometriche sono obliterate: Antoine Volodine ci parla dell’umano dentro il corpo mutante di uccelli. Interessanti queste metamorfosi apuleiane. Uomini e donne dal corpo di volatile, dal sesso ricoperto di piume, oscene trasformazioni genetiche. Guasti di quella civiltà che è stata spazzata via, sostituita da una miscela di anticapitalismo e dittatura, terroristi e bolscevichi, disuguaglianze colossali, parecchi secoli dopo la nostra quota di strage planetaria, nel post della dissoluzione della Seconda Unione Sovietica. E poi, a margine, che senso ha parlare di tempo per Volodine? Nell’intervallo di un diaframma oftalmico secoli trascorrono: si muore, si nasce di continuo. Anche il ciclo di reincarnazioni è sballato.

Laura Pugno scrive nel suo bellissimo e nuovo In territorio selvaggio che il suo diario, regesto di appunti su – come recita il sottotitolo – romanzo, comunità e corpo poteva chiamarsi L’oltre. Ebbene, una variante nominale del corpus di Volodine potrebbe essere Il residuale.

La città di Ulang-Ulan, centro nero di Sogni di Mevlidò, è una città puramente asiatica. Il tanfo irrespirabile notturno, il petricore del derma, l’alito inumano (ancora: il residuale; quanto sopravvive in ciò che sembra ostile e inconciliabile con le pratiche dell’umanità?) sono le sequenze d’apertura di Millennium Mambo, le riprese della giungla che aprono Days of being wild. Perlustrazioni gocciolanti intorno a edifici marci. Le città di Volodine – così anche in Angeli minori (trad. Albino Crovetto, L’Orma editore, 2016), in Lisbona ultima frontiera (trad. F. Di Lella, Edizioni Clichy, 2013) – sono topografie incanalate nella membrana umida dei sogni. L’attività onirica dei suoi personaggi, nelle sue narrazioni post-esotiche, è quella di una persona con la febbre alta.

Si è nel proprio letto. La febbre ci consuma. Il tempo esaudisce il vaticinio einsteniano. Si contorcono nei budelli terrestri i vermoni del tempo. Le gallerie colme di sangue incandescente trasportano il corpo immobile, come nel Viaggiatore stellare di Jack London, avanti e indietro nel ciclo di nascite, morti, rinascite. L’ineffabile protocollo per la reincarnazione prevede il passaggio in un tubo. Digestione della prossima vita.

Questo è un punto importante, tuttavia. Dov’è il corpo («si sta col corpo. Che è la mente», Pugno, p. 17) nei Sogni di Mevlidò? «Cosa desidera questo corpo?», si domanda la scrittrice. I corpi del Mevlidò sono straziati, uccisi, calpestati, se ne fa macelleria, sono nudi, sono trasformati, come si è già detto, hanno piume addosso, sono maciullati dalle torture, ma sono soprattutto assenze. Se la mente è anche il corpo allora la mente di Volodine ragiona per assenze. Il che non è necessariamente un male. Eppure nella lettura si percepisce appunto la mancanza di un nodo doloroso, di una questione rovente da risolvere.

volodineLa fortuna di Antoine Volodine, in Italia, è recente. Lo scrittore franco-russo, in patria (e qual è la sua patria?), pubblica con i maggiori editori da almeno vent’anni. Forse la sua potenza, che all’uscita di Terminus radioso (trad. Anna D’Elia, 66thand2nd, 2016) è sembrata profetica, di libro in libro è andata un po’ esaurendosi: in certe parti dei Sogni di Mevlidò si respira stanchezza, si ripercorrono pratiche romanzesche un po’ insterilite. Solo lo stile salva dalla noia. «E la scrittura, è solo luogo di conforto, o è ancora forma di conoscenza, oggi?» (Pugno, p. 17). Questo è un altro paio di maniche. Se di una scrittura dovremmo salvare la visione del mondo: quale visione del mondo traspare da Volodine? La domanda potrebbe essere la seguente: quanto abbiamo ancora bisogno di distopie? Distopia è una parola che non sopporto più: decolorata dall’uso, stinta. Eppure Volodine ha creato delle forme, ha scritto discorsi sulle forme. Tutta la letteratura post-esotica che è frutto della sua invenzione, tutta quella narrativa di lamento e clandestinità, che «proviene dall’altrove e incede verso l’altrove, una letteratura straniera che accoglie numerose tendenze e correnti», una letteratura interstiziale, formalizzata nel libretto gustoso Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione. undicesima (trad. Anna D’Elia, 66thand2nd, 2017) e della quale il miglior esempio sono forse i narrat di Angeli minori, questa sua invenzione programmatica è la cosa che meglio gli è riuscita. I narrat, giustappunto, sono elevazioni al cubo di una fantasmagoria mentale. Letteratura mentale. Eppure la mente è anche il corpo. La scienza ne sta prendendo atto. Il corpo, leggiamo, «è il primo luogo del selvaggio». Selvaggio come nucleo pulsante dell’oltre, dunque.

Scrive Pugno, a proposito di “fisica quantistica”: «L’idea di essere-insieme, non più corpi separati e chiusi nel tempo ma energia che si risponde, entangled, probabilità che si cancellano e si invertono,

storia che si riscrive». È questo quel tanto di confortante che c’è nei “lampi di luce”: una prospettiva decisamente contraria rispetto al tempo eventuale del Terminus radioso. In effetti anche la complicatissima e misterica fisica delle microparticelle è divenuta comfort food, una forma d’accatto di religione conciliante, dove nessuno muore, dove nessuna scelta è definitiva.

Ci si domanda, ancora, nel Territorio: «Il romanzo, allora, è un territorio addomesticato? È una casa, un giardino? Se è un giardino, è uno spazio in cui una nuova conoscenza è proibita?». E si torna a domandarci, ossessivamente: «E la scrittura, è solo luogo di conforto, o è ancora forma di conoscenza, oggi?» In Volodine cosa sferza l’ottusità delle superfici per aprire crepe di conoscenza? Ogni pensiero su Mevlidò porta al Bardo Thodol, a quei capitoli nerissimi di morte-rinascita e soprattutto caos, indistinto, informale; come se tutto il romanzo, tutta la drammaturgia noir e distopica fosse un’incrostazione di calcare intorno a un nodo d’acciaio. Laura Pugno fugge dal conforto inseguendo il corpo, perché il corpo – che è mente – è il primo luogo del selvaggio.

Si traccia un confine: la poesia come arte da guerriglia, che utilizza strumentazioni leggere, quasi invisibili, un foglio una penna, poco altro, a volte neanche quelle; la prosa ha bisogno di macchinari più pesanti. Macchine del tempo. Se la poesia è un’esplorazione (orfica), la prosa è la spartizione del bottino fra la comunità. Pugno riflette sulla comunità che rimane ad ascoltare le storie, che deforma il tempo per ottenerne di altro. È un discorso politico, naturalmente, sotto la biacca dell’ennesimo elogio (alquanto raffreddato anche come elogio) dell’affabulazione. Infatti scrive: «Se la letteratura trasmette l’esperienza del tempo […] se è, come è, un’acqua ferma in una fonte che consente di guardare nel futuro, o nel passato, quel futuro inconoscibile finché non ci sei – e sì, fa questo, la letteratura, la trasmette, l’esperienza del tempo e del corpo, del tempo nel corpo, chiudendoti nel pugno una moneta di cui bellezza e verità sono due facce indistinguibili, due facce uguali».

Allora più che la visione del mondo potremmo riformulare: quale la quidditas dell’esperienza temporale che viene trasmessa dal Mevlidò appena pubblicato? O dalle prove precedenti dello scrittore? Un tempo da sonnambuli. L’ho già scritto e il pensiero torna a chiedere conferma. Dovrei diffidare dai pensieri che chiedono conferme, ma credo di non aver sbagliato. Volodine trasmette l’idea della catalessi, della sospensione sinusoidale nel Bardo Thodol – una aderenza alla linea dell’encefalogramma quand’è praticamente piatto, ma in quel praticamente c’è il segreto della fluttuazione oltremondana, del sorvolamento da drone dei territori del non-più-vita e del non-ancora-morte. L’esperienza volodiniana è quella di Bartleby, o quella del Terzo paesaggio di Clement, citato da Laura Pugno: «Spazio che non esprime né potere, né sottomissione al potere». Anche tutta la parte della reincarnazione – che è la migliore dei Sogni di Mevlidò – è costruita su un vuoto pneumatico. Esprime la potenza di ciò che può essere e, al tempo stesso, non è, oppure non è ancora. Le metamorfosi degli umani («[gli ominidi] non riescono più a far la differenza tra la vita, i sogni e la morte», p. 179) – laddove però l’umano rimane come fluorescenza – esprimono la transitorietà fra due stati di esistenza. Un po’ banale tutto questo? A volte, però, la coerenza sovrasta la presunta originalità e Volodine è coerente come pochi. Nel suo universo formale tutto si tiene e si recupera, è il caso di dirlo.

Dal Territorio selvaggio di Pugno: «quello che è offerto alla vista è il momento in cui, da lontano, e ancora dietro una protezione, guardiamo ciò che è ancora più lontano, nel tempo o nello spazio o nei domini dell’umano, e decidiamo di avvicinarci, di entrare nella sua prossimità, da cui torneremo cambiati, ma non inutilmente».


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Laura Pugno, In territorio selvaggio, nottetempo, Milano 2018, 128pp. 10,00e

Antoine Volodine, Sogni di Mevlidò, trad. Anna D’Elia, 66thand2nd, Roma 2019, 416pp. 18,00€