Proseguono gli incontri con i finalisti del Premio Narrativa Bergamo. Dopo Andrea GentileGiulia Corsalini e Giorgio Falco, mercoledì 27 marzo, alle ore 17, alla Biblioteca Tiraboschi è il turno di Francesco Targhetta con Le vite potenziali (Mondadori).
Qui il calendario completo degli incontri.


 

Nel 2012 Francesco Targhetta pubblica per ISBN un romanzo in versi, Perciò veniamo bene nelle fotografie, uno spaccato della generazione dei nati negli anni Ottanta in bilico tra la fine degli studi, l’impossibilità di perseguire una carriera universitaria, e le prime deprimenti esperienze di lavoro precario.

Esce in questi giorni la sua seconda prova in ambito narrativo che, formalmente, prende le distanze dall’esordio: Le vite potenziali è un romanzo in prosa dalle solide strutture narrative, tridimensionale, scritto da un italianista e incentrato su una storia di nerd. A differenza del suo romanzo in versi, Targhetta sceglie questa volta di occuparsi della realtà di persone che non solo sono riuscite a inserirsi, ma anche ad avere successo e a fare carriera nel famigerato mercato del lavoro.

Ancora prima di accennare agli snodi significativi della trama e alle figure che fanno di questo romanzo qualcosa di più del racconto dell’esperienza geek degli anni Dieci del ventunesimo secolo, è necessario accennare alla soluzione stilistica proposta dall’autore, soprattutto considerando che lo stile in questo libro ha una funzione strutturante. Targhetta, infatti, riesce a integrare armonicamente il lessico informatico in un modernissimo italiano scritto, superando in maniera letterariamente molto matura lo straniamento di Perciò veniamo bene nelle fotografie generato dallo stridio, in quel caso tanto più acuto quanto più utile al lettore, tra forma e contenuto; una tappa stilistica, quella delle Vite potenziali, che avrà una notevole rilevanza tanto per l’autore quanto per il contesto letterario italiano.
Per tutta la narrazione la scrittura non è altro che un tentativo di discorso logico, che preferisce in ogni occasione l’argomentazione allo sfogo, il controllo all’abbandono, la verifica all’immaginazione.

In un universo costituito da zone industriali in apparenza disabitate attraversate da vie dell’elettricità, della pila, delle macchine, sopra cui incombe un «cielo ormai blu elettrico» (21), le vite dei tre protagonisti del romanzo si consumano all’interno dell’orbita della Albecom, azienda veneta con sede a Marghera che si occupa di servizi per il web, in particolare di e-commerce. L’informatica è la rete di salvataggio che preserva i personaggi da cadute esistenziali, che li accudisce, che simula la percezione di trovarsi all’interno di una comfort-zone in cui «ogni cosa era conoscibile e catalogabile, e conoscere e catalogare erano le loro specialità» (17).

Per la Albecom, fondata dal giovane Alberto Casagrande, lavorano Luciano, artigiano programmatore e GDL, pre-sales. I tre, coetanei, sono legati da una amicizia evoluta in un rapporto di lavoro: Luciano e GDL sono dipendenti di Alberto e sarà la messa in discussione dei loro ruoli a destabilizzare l’equilibrio aziendale e a metterli in crisi. Luciano, infatti, è il tipico nerd che non riesce a staccarsi dalla famiglia di provenienza e a crearsene una sua, ossessionato dai ricordi di un’infanzia in cui la competizione con gli altri si concludeva sempre a suo sfavore, goffo, timido, sottomesso, onesto. GDL in pieno spirito millenial, è l’uomo della molteplicità: moltiplica continuamente le possibilità di guadagno e di carriera, moltiplica le relazioni, riproduce la sua vita all’infinito, non vede ma prevede, perennemente proteso verso il futuro.

I tre, in una finzione di ispirazione dantesca, ma ribaltata, hanno circa trentacinque anni, «un’età giusta per levarsi di mezzo, che non significa morire, perché forse è chiedere troppo» (142), e la loro unica sicurezza è paradossalmente il lavoro. Alberto, ma soprattutto Luciano e GDL, si trovano in un momento della vita in cui «si comincia a lavorare immersi in una reale rete di relazioni sociali, in cui si debutta come contribuenti, ossia esseri umani; in sostanza, il cominciamento della vita vera» (142); ma purtroppo qui pare che si parli di una vita a somma zero, che si esaurisce al suo principio. Tutto il resto, semplicemente, è: la vita accade mentre loro creano negozi che non esistono materialmente.

I protagonisti delle Vite potenziali sono l’emblema della generazione che rischia di perdere i padri prima di generare dei figli, costretta, quindi, ad affrontare la crescita, la maturazione sentimentale con la consapevolezza di aver perso la continuità delle relazioni parentali, non avendo nulla da imparare e nulla da insegnare, cloni di un’umanità già remota. E che ci sia un’anomalia nel mondo di questi nuovi uomini è una sensazione che Targhetta è riuscito a ricreare nella rappresentazione dei luoghi. Non c’è quasi mai una natura accogliente, confortante ma soltanto abbandonata e vuota:

E così Luciano […] seguì GDL, che spostò la macchina di qualche centinaio di metri verso via dei Sali, scese, si guardò in giro, scavalcò facilmente una bassa rete metallica, si inoltrò in un parcheggio tirato a nuovo ma misteriosamente inaccessibile e si accinse a valicare un alto muro di cinta attraversato a mezza altezza da una sottile tubatura arrugginita. Facendo leva su quella, non senza difficoltà, riuscirono entrambi a oltrepassare il muro, per ritrovarsi di fronte alla pozza del canale industriale nord, smisuratamente sovrastata dalla gru della Fincantieri. «Li vedi quelli? I padiglioni Pilkington. Appena dopo c’è il nostro ufficio. Nuoti anche tu?» «Sei pazzo?» disse Luciano, distogliendo gli occhi da GDL e guardandosi attorno: c’era del sublime, ma al rovescio (33).

La rete metallica, il parcheggio, il muro di cinta, la tubatura arrugginita, la gru, i padiglioni: del mare in cui il lettore suppone che i due dovrebbero nuotare resta solo una pozza, sovrastata da ferro e cemento. Il sublime non può che rovesciarsi e allo sforzo – il doppio scavalcamento – non corrisponde mai alcun risultato.

Con questo romanzo, Targhetta ottiene un risultato notevole: riesce a naturalizzare la digitalizzazione, a problematizzare le vite di chi, a una prima occhiata, pare proprio avercela fatta; dimostra come la stabilità lavorativa non generi automaticamente una stabilità esistenziale, infrangendo il tabù contemporaneo del lavoro considerato ormai unico fine e unica possibilità di realizzazione, nonché ragione di formazione dell’essere umano. In una realtà in cui Alberto Casagrande è Alberto Casagrande, cresciuto in un paese che si chiama Paese, vicino a un lago che si chiama Lago, non sembra possibile conoscere nulla di più di quello che già si manifesta di per sé e ogni tentativo di forzare il presente cercando di «far succedere qualcosa» (209), come per esempio ridurre la dispersione dei dipendenti che lasciano l’azienda che li ha formati per un poco rilevante aumento di stipendio, fallisce.

La parabola della possibilità del lavoro e di una carriera nel Nord Italia in generale e in Veneto in particolare fruttifica e però poi marcisce nell’episodio in cui un barista, non ancora laureato in informatica, ascolta casualmente una conversazione e vi si inserisce facendosi notare, e nel giro di poche settimane, liquida in poche righe il narratore, gli viene fatto un colloquio a cui segue quasi d’ufficio un’assunzione presso la Albecom. Un fotogramma che richiama immediatamente le poco originali commedie americane degli ultimi vent’anni, in cui i giovani talenti si nascondono sempre nelle periferie più disagiate finché ignari produttori, per sconosciute coincidenze astrali, si ritrovano davanti la giovane promessa del ballo/canto e in pieno stile american dream le concedono una possibilità di riscatto. Un evento che nonostante sia una parte minima all’interno dell’opera riesce a stomacare chi legge, a dare la sensazione di come si muova la ruota del web, considerata alla stregua di un motore magnetico, capace di continuare a produrre energia cinetica per sempre, una giostra del lavoro su cui chiunque ha la possibilità di fare almeno un giro.

Scegliendo l’informatica come chiave di accesso alla realtà, Targhetta marca una distanza da tutti coloro che ancora si chiedono come Internet abbia cambiato la vita di tutti. Il cambiamento, nelle Vite Potenziali, non è percepito come un distacco da una situazione pre-digitale, da una realtà analogica, semplicemente perché la vita dei protagonisti di questo romanzo inizia con i computer, le loro prime relazioni si consolidano programmando in Basic, passando i weekend barricati in casa a scrivere codici, non per lavoro ma per divertimento. E se l’approccio all’informatica non è stato problematico, lo sono state le relazioni umane, i rapporti con i partner e con i genitori, la comunicazione tra colleghi, tutte situazioni di connessione che devono essere affrontate senza preparazione, ma procedendo per tentativi – e per fallimenti.

Proprio per questo deficit di base, a cui si accompagna il motto «being too smart ain’t a big deal» che incarna «la più autentica declinazione di Leopardi nell’era digitale» (19), l’approccio alla vita è stato prima digitale e poi analogico; tutti i personaggi, infatti, vivono vite squilibrate «mentre un equilibrio, in questo mondo, è solo sinonimo di morte» (106), disperse nel lavoro, come se questa fosse l’unica soluzione praticabile, una scelta binaria tra vita e morte, squilibrio ed equilibrio.

Ma esiste, allora, un’uscita di sicurezza per tutte queste vite in potenza?
Si può seguire, tra le righe, una traccia di desiderio di umanità costante che attraversa e contiene tutto il romanzo, una forza endogena che non perde mai la sua carica: si ritrova nell’immagine di Luciano che porta da mangiare ai gatti randagi, nei fratellini che si tengono per mano, che proprio Luciano osserva, per «verificare cosa sia una famiglia» (101), nella consapevolezza che «ci sono persone a cui neanche una volta nella vita capita di essere amate. Tutto l’amore che provano torna loro indietro, come un’altalena vuota» (p.176). Allora ecco perché dovremmo leggere il libro di Targhetta, perché abbiamo bisogno di verificare cosa sia questa potenzialità di cui le nostre vite vengono rivestite, tirate in mille direzioni diverse.


 

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Francesco Targhetta, Le vite potenziali, Milano, Mondadori, 2018, pp. 252, € 19.

 

 

 

 

 


Immagine:
Opera di Tomás Saraceno, esposta presso i giardini del Palazzo delle esposizioni, Biennale di venezia, 2009. Foto di Mararie, 15/10/2009 (licenza creative commons; originale qui).