Durante una vacanza all’estero, discutendo su quale strada prendere per tornare alla casa dove alloggiavamo, un caro amico genovese mi ha detto: «io, per essere sicuro di non sbagliarmi mai, faccio come i bambini, percorro sempre la stessa strada all’andata e al ritorno». In questa breve sentenza è riassunto lo spirito di chi vive a Marassi, quartiere della periferia popolare di Genova, che fa da culla alla vicenda di Ferdinando, protagonista di Un marito, l’ultimo libro di Michele Vaccari (Rizzoli, 2018).
Per chi non la conosce, Marassi è una periferia che incarna perfettamente lo spirito genovese tendente alla laboriosità, ma anche alla stasi e alla fissità degli equilibri: a Marassi nulla cambia, «Marassi, la felicità come consuetudine», «Marassi vuol dire palude». Dedito al lavoro duro, Marassi è luogo di accasamento per i prezzi buoni e la relativa distanza dal centro, dalla fisionomia immutabile da anni, residenza dello stadio e della prigione e sede di botteghe che ancora non cedono all’economia globale, proprio come la rosticceria che Ferdinando conduce insieme a sua moglie Patrizia e a cui i due hanno votato la loro esistenza.

Il libro di Michele Vaccari è un libro dominato dal sentimento dell’abitudine, intenzionato a mostrare come, se da un lato è necessario per sopravvivere crearsi un ordine, vivere all’interno di un ritmo, dall’altro chiudersi nelle proprie abitudini può rendere fragili e impreparati agli assalti della realtà circostante.
La struttura ruota attorno a un’omissione centrale, che avviene passato il primo quarto del libro. Come un enorme buco nero, il centro gravitazionale del romanzo giace oscuro, non detto, attirando a sé le vicende precedenti e successive. La “Tragedia”, così, come viene chiamata da Ferdinando, è lo scoppio di una bomba in centro a Milano che fa scomparire Patrizia, proprio durante la loro unica gita fuori porta,: l’unico sfizio concesso in anni di duro e ripetitivo lavoro, l’unica divergenza dall’abitudine in occasione dei cinquant’anni di Ferdinando. Una divergenza forse accettata da Patrizia proprio per scongiurare qualche ipotetica crisi di mezza età, qualche cambiamento repentino e imprevisto.
Il libro è diviso in tre parti, identificabili dialetticamente in tesi, antitesi e sintesi del percorso di elaborazione del lutto da parte di Ferdinando. Nella prima viene infatti descritta la quotidianità dei coniugi; successivamente, superata l’omissione della Tragedia, si passa al momento di dolore di Ferdinando (che giunge addirittura a fare uso di eroina per sopportare la sofferenza) e infine la terza parte – con un’analessi che scopre i fatti omessi in precedenza – ricongiunge i tasselli della narrazione consegnando il protagonista al superamento del lutto e al finale della storia.

È facile a questo punto rintracciare in Un marito una certa esposizione verghiana dell’esistenza – dunque, nulla di nuovo –; Ferdinando e Patrizia non si discostano poi così tanto dalla morale dell’ostrica dello scrittore siciliano. Anche la trama conferma questo aspetto: non appena i due tentano di uscire dal loro luogo sicuro, da ciò che è effettivamente il guscio della loro quotidianità, vengono travolti dalla violenza del mondo esterno e confermati – Ferdinando in qualità di sopravvissuto – nelle loro precedenti convinzioni. Anche quando, esasperato dal dolore, riflette sulla sorte dell’attività fino a quel momento condivisa con Patrizia, Ferdinando «sapeva che chiudendo bottega avrebbe dovuto trovare il coraggio di cambiare, e dato che cambiare per Ferdinando significava morte, […] conservare e mantenere erano diventati i verbi che dettavano il ritmo della sua volontà […]. Conservare e mantenere, i verbi sacri della rosticceria». Eppure era stato proprio Ferdinando, nelle pagine precedenti alla Tragedia, a spingere per un piccolo sgarro, per una screziatura di imprevisto (in realtà fanaticamente regolamentato). Aveva sentito lui, sulla soglia dei cinquant’anni, l’esigenza di una piccola fuga dalla routine, chiudere un quarto d’ora prima il negozio, poi partire per Milano durante il ponte di Sant’Ambrogio. Queste concessioni, che agli occhi del lettore si presentano come teneramente ridicole, hanno il potere di turbare Patrizia a tal punto da generare attrito all’interno della coppia, aspetto che denuncia quanto l’immobilità più assoluta sia un tratto non solo rassicurante, ma vivificante per l’esistenza di questa coppia. A lui che dice «Sono impaziente, tutto qua. E sì, se lo vuoi sapere, vorrei provare questa cosa nuova: stare con te senza il lavoro a farci da orchestra romantica è la sola cosa che non abbiamo mai provato», lei accusa: «ci siamo innamorati di questa dittatura e adesso, alla prima occasione, tu le giri le spalle». Questo legame indissolubile, questa abnegazione al lavoro e al rapporto, la subordinazione delle singolarità a istituzioni terze, esposta in più punti, è per entrambi un aspetto necessario, ma realizzabile solamente all’interno di una realtà circolare, ripetitiva, sicura.

«Ho deciso che dagli interrogativi, dagli “e se”, soprattutto, bisogna scappare perché inquinano la felicità che già c’è e di cui dobbiamo essere appagati, anche quando non lo siamo. I dubbi, le novità, gli imprevisti che senti in giro siano il senso dell’esistenza, per me la corrodono, la uccidono, mettono in ombra il bello che avevi e che avevi deciso lo fosse più di qualsiasi altra cosa al mondo.»

Dei due è Patrizia, la più tetragona, a cedere alle delicate pressioni di Ferdinando – «lo so che hai paura delle rivoluzioni. L’unica cosa che non sai è che puoi stare tranquilla […]. Non cambierà niente, e noi saremo gli stessi ovunque. Il mondo va per la sua strada, noi per la nostra» – eppure, fare esperienza della realtà dovrà convincerli del contrario.

Se dunque al fondo del libro giace la nobile questione che interroga su come realizzare (e mantenere) la felicità senza logorarla, su come e se sia possibile “andare per la propria strada, mentre il mondo va per la sua” (come estrarsi, sostanzialmente, dalla Storia e dalla sua violenza), va detto che la strategia narrativa non riesce a sostenere questo intento per tutta la durata del libro. È vero che la prima delle tre parti risulta particolarmente vivida nelle sue descrizioni urbane e riuscita nel dipinto della quotidiana fatica dei due personaggi, delle loro insicurezze e paure,: ma a partire dalla seconda parte fino alla conclusione vengono esasperati due tratti dello stile che prima apparivano maggiormente contestualizzati. Il libro infatti è caratterizzato da lunghe sequenze descrittive o riflessive – che spesso si aprono una all’interno di un’altra – costruite su di una subordinazione intricata mista ad elenchi, che mostra l’intenzione di identificare gli oggetti attraverso una nominazione sovrabbondante. Prendiamo ad esempio una sequenza dalla terza parte in cui, dopo lo scoppio della bomba, il narratore riflette sui sopravvissuti:

«Loro sono gli occhi della catastrofe, le voci che ricostruiranno, i testimoni che saranno chiamati a rendere vere le commemorazioni, saranno i reduci, i miracolati, essenziali per le dirette tv, per fare da ago narrativo nei dibattiti mediatici sulle responsabilità, sarà il loro destino annuale, diventeranno personaggi, martiri imperituri dell’odio intollerante. Vittime da osannare, interiorizzeranno le facce da tenere, le bocche contrite, gli sguardi da bastonati, erano lì, saranno gli eroi, le voci di un aldilà imprevisto che li ha graziati, tutti vogliono ascoltare chi ha sconfitto la morte certa, i soli uomini capaci di rovinare i suoi piani, senza volontà, fuori da ogni logica scientifica, la prova incontrovertibile dell’esistenza trascendente, assisteranno alla vivisezione dei profili social dei defunti, le loro prime impressioni, i loro commenti a caldo, saranno rimandati in onda migliaia di volte, saranno superiori, saranno i nuovi santi, la risposta giusta alla domanda suprema, saranno gli immortali, il tossicchio d’orgoglio del clero, la prova della vita creatrice e della resurrezione terrestre, impareranno a usare la profondità delle pause per descrivere il trauma subito, prenderanno familiarità con gli applausi, saranno fedeli al ruolo, lentamente sarà loro abitudine e cura indossare la maschera del dolore, si stupiranno della facilità con cui impareranno a veicolare l’empatia, annuiranno agli appelli giustizialisti, si schiereranno con chiunque, diventeranno politici, lo faranno in modo automatico, saranno lucidi, ricorderanno, saranno vivi e come molti prima di loro si piegheranno al volere delle formule retoriche, l’apice del loro racconto esperienziale sarà la recita emozionata della preghierina della gratitudine, grazie alle forze dell’ordine, grazie ai soccorritori […]» ecc.

Questo passaggio è uno tra i tanti, costruiti nella medesima maniera, in cui la disamina di una situazione e delle sue conseguenze – o, in altri casi, una descrizione – viene costruita attraverso una fitta e incessante nominazione, sempre in bilico tra ironia e lirismo. Se in alcuni punti del libro, come ad esempio nella descrizione iniziale di Marassi, questo procedimento tende ad sostanziare l’atmosfera descritta senza risultare eccessivo, nel resto del romanzo – nonostante l’intenzione di calare il lettore dentro la psicosi di Ferdinando e di inserire la sua vicenda in un quadro antropologico più ampio e attuale – questo processo di accumulo connotativo fa perdere a tratti il contatto con la realtà ottenendo il risultato contrario; facendo cioè perdere la messa a fuoco sull’oggetto e rischiando di far intuire al lettore una costruzione artificiale. La scelta stilistica di produrre un ritmo di accumulo incessante – definito in più sedi come “barocco” – diventa forse l’elemento più debole del testo. In opposizione a uno stile tagliente e sentenziale, come può essere quello di Targhetta ne Le vite potenziali o, per l’estero, di Mohsin Hamid in Exit West, che squadra gli oggetti e le situazioni ponendoli nitidamente al centro del discorso con poche, secche parole, Vaccari crea un vortice di frasi che finisce con l’allontanarsi sempre di più dal punto di partenza rischiando in più punti di far perdere l’orientamento al lettore, producendo una dispersione e un distacco dalla vicenda.

Per finire, dunque, c’è un’istanza che sembra una chiave attraverso cui leggere tutta la storia. Si tratta della teoria sulla “fatica della bellezza” che un operatore sanitario espone a Ferdinando:

«È al bello che non ci si abitua. Il brutto, invece, può diventarti familiare. […] Il brutto non ti costringe a nulla, anzi […], tutti possiamo diventare brutti, è universale. Basta che ti lasci andare e farai schifo. Il bello, invece. Il bello è difficile, pretende, spinge per la perfezione. Il bello non è di tutti […]».

Questa fatica del vivere in maniera “bella”, del “vivere bene”, sembra essere totalmente avvalorata dalla storia di Ferdinando, essere il concetto centrale nel romanzo. La felicità può essere identificata con la tranquillità, con la sicurezza o con una piccola trasgressione, ma ogni scelta produce conseguenze a cui dover reagire. Che sia la logorante routine del quotidiano senza prospettive, o la Storia che colpisce con violenza, vivere inseguendo il “bello” sembra una prospettiva costantemente preclusa o comunque difficilmente raggiungibile. Questo concetto, il più valido del libro, ha però il difetto di emergere unicamente nel testo citato e di non essere sostanzialmente più ripreso, rischiando così di cadere nel vuoto, nonostante la sua importanza.


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Un Marito
Michele Vaccari
Rizzoli 2018, 235 pp.
20€