La prima volta che incontrai Andrea Pinketts, al secolo Andrea Pinchetti (Milano, 1961-2018) fu circa quindici anni fa. Ero uno studente distratto della Statale di Milano, facoltà di Lettere Moderne. Uno dei tanti giovani aspiranti scrittori che ingolfavano via Festa del Perdono.
A dir la verità, io volevo fare il giornalista. Uno di quelli d’assalto, da combattimento. Come tutti i ventenni avevo un’idea molto romantica e avventurosa della professione. Molto hemingwayana.
Venivo dalla provincia, e Milano era l’unico orizzonte possibile per chi voleva intraprendere quella strada.
Uno dei miei primi passi fu partecipare alla fondazione di un giornale universitario, 
Vulcano. Tutt’ora vivo e vegeto, tra l’altro.
Il direttore scelse di affidarmi la pagina delle interviste. Un’impresa improba: a Milano non conoscevo niente e nessuno, i social non esistevano e internet non era ancora così pervasivo. Inventarsi un’intervista al mese a qualche vip non era semplice per me. 

Poi comprai un libro, un romanzo. Lo scelsi per la copertina, come spesso accadeva in quegli anni. Campeggiava un faccione a me noto, con lo sfondo nero striato di fulmini. Una grafica molto accattivante come quasi tutte quelle della collana Strade Blu di Mondadori.
Si intitolava
 Nonostante Clizia, l’autore era un certo Andrea G. Pinketts.
Lo guardai attentamente attraverso la vetrina: io quel tizio col sigaro attaccato alle labbra lo avevo già visto… Ma certo, era quell’opinionista strambo dell’Isola dei famosi!
Mi fiondai dentro e lo comprai. Aveva l’aria di un noir dei più duri, si rivelò una sorpresa folle e carnevalesca, ma in linea col suo scanzonato personaggio televisivo. Ricordo che a ogni puntata si presentava alticcio e paonazzo, col sigaro spento tra medio e indice; si faceva sempre sgridare da Simona Ventura a causa dei suoi adorabili e geniali sproloqui puntualmente fuori luogo. Da mammut in una cristalleria boema.
Indubbiamente un idolo ai miei occhi.

Avrei imparato presto a conoscere lo stile pinkettsiano, uno stile che avrebbe fatto scuola, definito “noir” solo per brevità e comodità, appunto perché inclassificabile: un caotico e ruggente circo Barnum affollato di personaggi grotteschi, episodi surreali in cui commedia e tragedia, trash e sublime si alternano senza soluzione di continuità. Nella sua prosa convivono combinazioni lessicali stravaganti, contorsionismi sintattici, citazionismi alti e bassi; i dialoghi sono spesso demenziali, e le assonanze e allitterazioni sono disseminate in periodi lunghissimi e “supersonici”, ma sempre coerenti e conchiusi. Come un’astronave impazzita ai cui comandi litigano Woody Allen, Raymond Chandler, Shakespeare e Mel Brooks. Da far apparire i testi di Guido Catalano dei temi di terza elementare.

Diceva che tutti i suoi libri erano a sfondo autobiografico, e che il protagonista Lazzaro Santandrea era il suo alter ego: difficile credergli, impossibile non farlo.
Era uno di quegli scrittori di cui volevi leggere tutto, i cui libri tiravano gli altri come le patatine, e per il quale la famosa, quanto abusata, frase di J.D. Salinger calzava a pennello («I miei scrittori preferiti sono quelli che, appena terminato il libro, vorrei chiamare al telefono tutte le volte che voglio», o una cosa del genere).

Più folle dello stile e delle trame, infatti, fu forse la sua scelta di pubblicare il numero di cellulare all’interno della postfazione dei suoi romanzi. Dapprima pensai che fosse una delle sue burle, ma lo chiamai ovviamente subito, convinto dell’inesistenza di quella sequela di cifre.
Invece rispose lui, con la sua voce spessa, cavernosa e sbiascicata: il giusto impasto di fumo di sigaro e birra. Inconfondibile. Spiazzato, la mia reazione istintiva fu di mettere giù.
Mentre attesi che il cuore rallentasse, maturai la decisione di intervistarlo. Lasciai aspettare qualche giorno e poi lo richiamai, sperando in un secondo colpo di fortuna.
Rispose ancora. Trovai il coraggio di proporgli l’intervista. La mia piccola voce contro la sua, timorosa di essere fagocitata, o aggredita da una qualche reazione ubriaca.
«Sì, certo» rispose. «Ci facciamo una birra.»

Ci tengo a riportare il cappello introduttivo di quell’intervista cartacea (!) e squisitamente acerba. Si intitolava Andrea G. Pinketts, lo scrittore più dritto di Milano.

Lo incontriamo in un elegante bar di via Washington. Si presenta puntuale e ci stringe cordialmente la mano. Rischio la frattura multipla: è un gigante gentile come quello di Roald Dahl, ha uno sguardo acuto e distratto allo stesso tempo. Ci fa accomodare in un tavolino, obbligatoriamente nella sala fumatori, e ordina tre “Pinketts” (come ha ribattezzato le sue pinte di birra). Scarta il primo di una lunga serie di sigari. In una nube densa di fumo toscano incominciamo a parlare.

Ci offrì due birre ciascuno, a me e al direttore del giornale. Rimanemmo a parlare per un paio d’ore, forse anche di più. Durante le quali sciorinò i suoi cavalli di battaglia: i suoi rituali creativi (birra e sigari al tavolino del bar, foglio bianco e penna biro), il suo passato avventuroso (sceriffo, giornalista investigativo e trasformista, pugile, modello, maestro di arti marziali, attore porno…), le sue passioni (il trash, i gialli, le donne, la vita notturna, gli eccessi) condite dalla sua ironia lapidaria e dai suoi aforismi scanzonati («Cosa fai nel tempo libero?» «Io sono contro il tempo libero»; «Cosa pensi della tv dei reality?» «Una puttanata. Ma a me non interessa: io vado, faccio la mia porca figura e torno»; «Cosa ne pensi del fenomeno Camilleri?» «Camilleri è un po’ come il Marsala»; «Per cosa sta la G. del tuo cognome?» «Genio o Guai, a seconda delle situazioni»; «Chi è il tuo scrittore preferito?» «Hemingway, ça va sans dire»; «Credi in dio? E’ lui a credere in me»).

Prima di andarcene gli feci autografare Nonostante CliziaScrisse: «Per Luca. Benvenuto sulla mia zattera dopo la tempesta».

Negli anni seguenti era ritornato a scrivere nel suo quartiere generale, il Le Trottoir di piazza XXIV Maggio, del quale era quasi un’attrazione turistica e fulcro della vita culturale. Io e i miei amici passavamo spesso a trovarlo, a salutarlo, a scroccargli qualche sigaro, a farci autografare libri su commissione. «Ehi, c’è Pinketts!» Una volta addirittura gli chiedemmo di chiamare al telefono un nostro amico, suo grande fan, alla mezzanotte dei suoi diciott’anni. Lo chiamò davvero, mandandolo in visibilio. «Diciott’anni è l’età perfetta per leggere i miei libri» disse.
Ricordo ancora la dedica che gli fece a 
Fuggevole turchese, indimenticabile: «Che dio (o chi per lui) ti preservi da Baricco e ti mantenga sulle barricate».

Gli anni passavano. Nel frattempo ero riuscito in qualche modo a fare il giornalista, avevo intervistato e incontrato e lavorato con molti scrittori e scribacchini che reputavo più bravi, seri e importanti di lui. Non leggevo più i suoi libri, i suoi infiniti giochi di parole li trovavo indigesti, banali ed esasperanti nella loro lucida follia. Il tempo passava, mi erano venuti i capelli bianchi, il mondo era cambiato almeno venti volte.
C’era stata la crisi, la rivoluzione digitale, gli smartphone e gli ebook, le serie tv; e
Vulcano, il giornale universitario, aveva cessato le pubblicazioni cartacee ed era retto da ragazzi con la metà dei miei anni.
Ma lui era sempre lì, al Le Trottoir, a uccidersi d’alcol e fumo davanti ai suoi quaderni inchiostrati e al cellulare analogico, a provarci con le ragazze e a fare apparizioni in programmi trash come
La pupa e il secchione; fasciato nei suoi vestiti sgargianti, con i suoi cappelli improbabili e le cravatte arlecchinesche. Lui era sempre lì, eterno ragazzone, al bancone o ai tavolini del bar, come un’entità metafisica, numinosa: come il Pirellone, la Madunina o il Negroni sbagliato: il faccione un po’ imbolsito e gli occhi appannati, a volte circondati da un alone violaceo come ricordo di qualche rissa notturna. E neanche un capello bianco nella sua chioma folta e nera.

Diciamocela tutta, anche la cosiddetta intellighenzia milanese un po’ lo snobbava, relegandolo per lo più a una figura pittoresca e macchiettistica (quale in parte, volutamente, era) che non aveva più niente da dire da anni. Uno scrittore che ti abbaglia a diciott’anni, massimo a venti. Poi cresci, e passi a qualcosa di più serio. Una volta all’università, per farmi bello con una giornalista affermata, avevo detto che avevo intervistato Pinketts: lei sorrise cinicamente e rispose: «Oh, be’, lo hanno intervistato un po’ tutti…».

Nel frattempo ho pubblicato il mio primo romanzo, l’anno scorso. Il giornalismo l’ho accantonato con delusione, concentrandomi sulla scrittura narrativa. Un giorno, un mio caro amico mi propose di organizzare una presentazione al Le Trottoir, un posto dove andava spesso a suonare.
Non ci tornavo da molto al mitico Le Trottoir, e a Milano capitavo sempre meno: ormai non c’era quasi più bisogno di spostarsi per scrivere pezzi o intervistare persone. Figuriamoci per scrivere racconti o romanzi.
Ma a dare il mio libro al proprietario del locale andai di persona, e lui lo avrebbe dato a Pinketts, che si occupava delle presentazioni. Non sapevo cosa pensare, non sapevo neanche se si sarebbe fatto vivo: ero sinceramente molto dubbioso, poco fiducioso.

Quella sera, infatti, iniziammo l’evento senza di lui, bevvi circa due birre mentre lo aspettavo, così da essere più sintonizzato sulle sue frequenze. Ormai ogni speranza era persa, tutti lo immaginavamo spiaccicato su qualche bancone di un bar o risucchiato da una donna, quando apparve sulla soglia del locale.
Sembrava un ingresso da saloon, di un western girato dai fratelli Cohen. «Signore e signori» dissi, «Andrea Pinketts»; e lui: «Devo andare a pisciare», e deviò verso i bagni.

Tirata su la patta dei pantaloni, si sedette davanti a me, microfono in mano e sigaro pressato tra le dita; si scusò per il ritardo ma c’era lo sciopero dei mezzi, aveva dovuto attraversare mezza città a piedi per arrivare. Non voleva mancare, perché secondo lui avevo scritto un romanzo bellissimo.
Era sicuramente più lucido di me, che ero alla terza birra a stomaco vuoto. Era ficcante e molto preparato sul romanzo, che probabilmente aveva letto in poche ore, come era solito fare. A un certo punto mi redarguì severamente perché avevo dimenticato come si coniugava un verbo.

Mentre i miei amici suonavano, durante il post-presentazione, uscii a fumare con lui. Lo trovavo in forma nonostante l’inizio della malattia, che sapevo lo stava tormentando da un pezzo; era sempre il solito omaccione robusto con lo sguardo tenero e puerile. Mi suscitava dolcezza. Ed ero convinto che avrebbe preso a pugni anche il cancro. Gli poggiai una mano sulla spalla, la strofinai con affetto e lo ringraziai di cuore per la sua gentilezza. Ero un po’ ubriaco. Ci tenni a ribadirgli il concetto che una gentilezza gratuita come la sua, nel mondo cosiddetto intellettuale, era una cosa più unica che rara. Soprattutto nei confronti di uno sconosciuto. Nessuno si sarebbe speso così, senza chiedere niente in cambio. 

Avrei voluto chiedergli scusa per aver dubitato di lui, per averlo trascurato. Per esserci cascato anche io ogni tanto, nonostante gli sforzi, nel tranello della piccola boria del letterato.
Mi limitai a chiedergli di brindare insieme a me, una volta per tutte.
Promettendomi di non abbandonarlo mai più.