Diciamo subito che questo ultimo libro di Italo Testa è un’opera stratificata e complessa. Non solo perché è un libro di poesia e – si sa – la poesia è ormai uno dei pochi luoghi dell’arte occidentale in cui la complessità può essere mostrata come una delle possibili e legittime vie di rappresentazione del mondo; e non solo perché, come ci avverte la nota in fondo al volume, è stato composto in un lungo arco di anni (2003-2010), durante i quali ha interagito e resistito, formandosi, accrescendosi, ad altre uscite editoriali dell’autore di segno e di stile diverso; L’indifferenza naturale è un’opera complessa e stratificata per chiara ed esibita volontà autoriale: qui la materia è infatti suddivisa in ben 11 sezioni, di lunghezza assai variabile (dal testo singolo di Il cuore pesato e Intorno alla stanza – ai tredici testi di Gloria e gelsi), a cui corrisponde l’ispirazione varia ed eclettica delle forme adoperate: diverse poesie rilanciano il poemetto per frammenti, altre la ballata o la poesia in prosa, l’idillio, il frammento più o meno lirico, più o meno innico.

Di contro a questa varietà estrema, e quasi ostentatamente, su tutto il libro però domina un fondo comune, che è, contemporaneamente, più e meno di un paesaggio: è quasi un tono, un colore; è però qualcosa di tattile, eppure invisibile: un suono, una specie di rombo lontano che è percepibile in ogni componimento. A questo “tono” potremmo dare un’immagine, che, sebbene sembri presa dal mondo quasi primitivo e preistorico, è una parte fondamentale del paesaggio italiano fra Marghera e Chioggia, ed è l”immagine della laguna: una distesa infinita di terra umida, fertile e limacciosa, salmastra e dolce-amara, semisommersa; da cui si intravedono rovine industriali e animali, resti e indistinte proliferazioni; anche «ruspe tra la ghiaia in controluce» (p. 98); in esso, tutto è toni di grigio, «lame di luce». Per entrare allora dentro questo terreno inospite ma ricchissimo, possiamo usare tre chiavi possibili.

La prima chiave è un’immagine di una celebre fotografa americana che molto ha lavorato anche in Italia: Francesca Woodman. In una fotografia del 1976, possiamo vedere un paesaggio di alberi in lontananza. Al di qua degli alberi, alcuni piccoli monumenti bianchi in una radura, che potrebbero sembrare delle tombe sparse in disordine; e infine, al centro, in basso e in primo piano, un grande albero, con le radici che oltrepassano la riva e si gettano in un fiume, di cui si vede l’acqua e il riflesso della luce su esso. Il centro dell’attenzione compositiva è chiaramente il nucleo denso delle radici e l’acqua, acqua che riflette bianca la luce di un cielo che non vediamo. Ma fra le radici, bianco, semi sommerso, nascosto eppure visibilissimo, che prova a nascondersi e non riesce, prova a fondersi con l’insieme ma dall’insieme emerge e si stacca, ecco, incastrato fra le radici vediamo bianchissimo, esattamente come la luce riflessa sull’acqua, il corpo di una giovane ragazza: il corpo di Francesca Woodman, il corpo dell’autore. All’apparenza, nulla lega la fotografia della Woodman alla scrittura di Testa; eppure in entrambe si cela e si dà a vedere una medesima strategia: infatti sia la fotografia di Francesca Woodman sia la scrittura poetica di Italo Testa (non solo nell’Indifferenza naturale ma anche nei libri precedenti) è come un tentativo di sparizione. Non una sparizione completa e totale, ma un tentativo. Attraverso un insieme complesso e per ogni libro variabile di strategie e modalità, la scrittura di Italo Testa riesce a mostrare da un lato l’emergere prepotente di un’alterità rispetto all’io, ma dall’altro non rinuncia mai a rendere conto di un punto di vista, di un vedere orientato. L’io dell’autore è come se fosse immerso, meglio semisommerso e inestricabilmente legato alle forze che agiscono in quel luogo dove è puntato lo sguardo: è lì, eppure è preso sempre per sottrazione. È dentro e fuori il coacervo di un’alterità in azione: è esso stesso, mentre vi si stacca, preda e parte del paesaggio. La scrittura di Testa, più si costruisce e accumula materiale, più è presa nel gioco interscambiabile, volatile e volubile dei pronomi personali: dove un tu vale io, un io un egli o un noi.

Questo aspetto metamorfico e indecidibile delle personae loquentes emerge con forza nella sezione La preda e in particolare nella poesia di p. 83, dove leggiamo questi versi: «e tu sei lì, a poco a poco ti cancelli\ dal registro delle cose animate\ a favore delle nuvole turchesi\ di un faro insocievole nella luce verde». Ma è presente fin dalle prime righe del libro. Non è un caso se il primo testo della raccolta inizi proprio con l’antitesi fra costruzione e sottrazione. Se Testa al v. 1 ci dice che «Lo sguardo è lenta costruzione» , all’ultimo invece ribadisce «La mente rumina le cose\ le afferma nella sottrazione». Come l’immagine di Francesca Woodman vorrebbe sottrarre il soggetto umano, mostrandolo nella composizione naturale, e così invece lo mostra nel suo farsi e disfarsi, così la scrittura di Testa, più si addentra nella sottrazione, più mostra e rende conto al lettore del procedere del soggetto che vede: ovvero mostra il soggetto come processo.

Questo movimento dell’arte di Testa ha qualcosa di inebriante: di lussureggiante, di carnale. Non sa rinunciare mai ad un corpo, ad una densità. In questo senso, la scrittura di Testa non è mai astratta, non è mai concettuale: è sempre radicata nelle sensazioni fisiche e fisiologiche di un concretissimo percepire, anche laddove abbia di mira la costruzione della mente. Fin da subito, come nella poesia pastura, la scrittura prende di mira sì «la vita che ignota fermenta dai fossi» (p. 16), oppure «la vita che anonima fermenta\ il ritmo uguale dei giorni senza meta» (p. 17), ma non rinuncia a renderne conto attraverso l’esplicito uso di verbi di percezione e di azione che accompagnano tutto il libro: «se chiudo gli occhi», oppure gli imperativi «guarda», «senti». Così la scrittura di Testa sembra unire due aspetti impossibili: il corpo proprio di chi percepisce e una qualche forza che continuamente lo porta via, lo trascina, lo smembra.

Cosa vediamo, allora? La seconda chiave con cui si può entrare nell’opera di Testa è un testo di Bartolo Cattafi da Marzo e le sue Idi (1977): «Come avanza la luce\ a onde\ a segmenti\ a spezzoni\ fluttuazioni\ a shrapnel\ a trance rotolanti\ a gorghi alla van gogh\ a trucioli che si srotolano\ a sberle in faccia\ a ditate negli occhi\ colpi bassi\ tutto colpito\ ci vuole stomaco\ fegato per la luce». La luce è uno dei protagonisti di questo libro, ma, come in questo brano di Cattafi, è una luce tutt’altro che astratta: è una forza che stordisce, che taglia, che colpisce. Si metamorfosa in tutte le sue possibili sfumature: è controluce (p. 98), è dura (p. 99), è luminosa, è candore, è nitore (p. 104). Ma se le poesie di questo libro sono concentrate nell’azione del vedere e nel registrare il vedere, nel dare argine e limite alla visione che di per sé sembrerebbe senza limite e senza argine, ciò che è messo a fuoco dalla percezione lascia tutt’altro che indifferenti: è violenza, una violenza muta, calma, struggente, enorme. Violenza che trasuda anche dall’anonimo sorgere di uno stormo di uccelli: «sanguina piano la luce serale; \dal fondo d’oro della velma sale\ la schiera d’uccelli al cielo immane» (p. 18); violenza che si nasconde e scatta dalle barene di Limonio di p. 19: «mentre accosto il morso alla bocca». La luce è una fitta, qualcosa che «scava nello sterno»; qualcosa che «ghermisce gli occhi» (p. 22): infine, implacabilmente, «metro per metro\ la luce ti assale» (p. 115).

Il componimento che più di altri però racconta la violenza mobile e trascinante della luce è a p. 78, brano con cui il libro raggiunge un picco di potenza musicale e semantico: «Ma sbanda e in ogni dove s’irradia\ questa luce che bianca\ t’assale e germina a vampe nel verde». È come se il viaggio attraverso la carnalità della luce e l’indifferenza della natura sia un viaggio verso il centro di un dolore che è, proprio di ciascuno, ma come oltre ogni determinazione: «sul fondo azzurro cupo dell’orizzonte\ lo inchioderà al suo dolore» (p. 30). Ed è così che la luce, la cosa fisica più rarefatta e incorporea che sia dato percepire all’uomo, proprio poiché mostra i corpi, si confonde alla violenza per eccellenza del movimento e della trasformazione: la putrefazione. La forza più astratta e quella più concreta si trovano riuniti in questi versi e davvero il loro suono può essere accostato a quella «strana musica» di cui scrisse Baudelaire in Une charogne: «Et ce monde rendait une étrange musique\ Comme l’eau courante et le vent». In questo libro appaiono le voci di un coro che recita: «anche noi il mondo a concimare» (p. 36); e la verità della putrefazione non si nasconde alla coscienza, se si può affermare con decisione la premessa che «tutto è putredine» (p. 89). I due opposti, la luce e la putrefazione, appaiono legati indissolubilmente in questo libro, fino a fondersi esplicitamente nel componimento che inizia con il verso «e un palmo d’acqua vi prema la fronte», che è quasi un’ode «a ciò che muove e varia», allo sfasciarsi delle cose nella luce e nelle correnti: «così ci ghermisce e con equità\ la furia infeconda delle correnti\ spiana le rughe, macera i contorni\ spiana le rughe macera i contorni,\ per dirupi scoscesi sbrana le tempie\ e sdiluvi di luce tramano fitti\ il fondo incatramato» (p. 75).

Ed eccoci così alla terza chiave con cui entrare in questo progetto di versi. Il libro L’indifferenza naturale sembra il seguito (o forse meglio: il rovescio della medaglia) di un altro precedente libro di Italo Testa: La Divisione della gioia (Transeuropa, 2010). Se infatti apriamo a p. 47 di quel libro troviamo questi versi: «L’indifferenza naturale\ appena ti ho lasciato torna,\ emerge nel gelo animale\ come una pelle mi contorna». Non solo dunque il titolo di questo ultimo è preso da un verso di quel libro precedente, ma i rimandi fra le due opere sono molteplici. Letto alla luce della Divisione, L’indifferenza naturale cambia aspetto, si chiarisce e si completa. Il tema dell’amore e dell’eros, che era al centro esplicito della Divisione, è ora intrecciato a quello dell’indifferenza naturale: «Ciò che muove e varia» nell’indifferenza è anche ciò che sfugge e si trasforma, ovvero l’erotico per eccellenza, come insegnano centinaia di miti di eros e metamorfosi. Il tema erotico, del resto, è presente nell’Indifferenza naturale fin dalle prime pagine (si vedano le poesie di p. 23, 24); si fa però sempre più esplicito nella sezione Gloria e gelsi e il libro qui inizia a trasformarsi: da un inno alla distruzione di ciò che vive sullo sfondo delle barene, L’indifferenza naturale diventa il racconto di una tensione erotica, di un rincorrersi a perdifiato nelle forme di ciò che vive; il che spiega il grande investimento stilistico e retorico, il grande trascinamento emotivo, l’entusiasmo che questi componimenti suscitano nel lettore, fra avvicinamenti, allontanamenti delusioni e rapidi contatti fra lo sguardo che vede e il paesaggio che, come una preda d’amore, metamorfico sfugge, e sfuggendo ferisce, lascia dietro di sé resti, tracce morte e putrefatte e scappa via. La fuga d’amore si rivela infine esplicita nella sezione Bancali, nella poesia Salti del diavolo: «è stato lì che non ti ho più visto… se saprò aspettare\ che un’altra mano raggiunga l’unghia\ e faccia presa\ la stacchi dalla carne, se mi potrai amare» (p. 103).

Ma alla fine della fuga, fra metamorfosi e paesaggi, il lettore de L’Indifferenza naturale approda ad una serie di componimenti che preparano la scoperta di un’ulteriore sfumatura del termine che dà il titolo al libro. Se indifferenza dapprima acquisisce il valore di φύσις, ciò che è indifferente perché è fonte inesausta delle distinzioni, se poi passa attraverso una tonalità più malinconica sentimentale e l’indifferenza si scopre quella dell’amata, si giunge infine ad un significato più profondo ancora, che associa l’indifferente all’impermanente: «chi entra nella stanza sa che il piede non è mai fermo» (p. 109). È come se dopo tutta questa oscillazione, questa densità carnale, il poeta abbia imparato una postura sospesa, connessa e sconnessa insieme, capace infine di accettare ciò che accade, senza che vi sia desiderio di possesso: un eros che è insieme un «disamore» (p. 113). «A ogni cosa sospeso», «a ogni cosa sei preso» (p. 116): la scrittura di Testa proclama una sorta di adesione che non aderisce, indifferente, ma erotica, tesa ma disamorata, senza volontà né possesso, ma sempre verso ciò che nondimeno «immobilmente splende nell’assenza» (p. 117).