Nel 1977 il critico cinematografico del Corriere della Sera, Giovanni Grazzini, apre la sua recensione a Suspiria conferendo a Dario Argento “una laurea honoris causa in tecnologia degli spaventi”. La pellicola del regista romano si presenta immediatamente come una pietra miliare nel suo genere, lo spartiacque con cui le generazioni successive si dovranno confrontare. Girato perlopiù in pochissimi interni dai folli cromatismi, e sostenuto dalla leggendaria colonna sonora progressive rock dei Goblin, Suspiria di Dario Argento è una sanguinosa macchina visiva che non lascia scampo allo spettatore, offrendogli una escalation di ingegnose violenze realizzate da potenti streghe. Erano gli anni in cui il cinema italiano continuava a stupire il mondo soprattutto grazie al mestiere di registi geniali come Argento, che ovviavano al problema di budget risicati adottando soluzioni inedite e linguaggi visivi sfrontati. Finita quell’epoca, il cinema italiano sembrava aver esaurito la vena creativa, finendo ai margini dei festival e dei botteghini, salvo qualche rara eccezione. Ultimamente, però, qualcosa è cambiato: si parla di rinascenza o nouvelle vague del cinema nostrano, merito soprattutto di registi talentuosi come Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, ma anche Alice Rohrwacher, Roberto Minervini, Gianfranco Rosi, Saverio Costanzo e certamente Luca Guadagnino, più amato all’estero che in patria. Dopo il travolgente successo di critica e pubblico di Call Me by Your Name – film diventato instant cult – l’insolita scelta di affrontare il remake di un film horror leggendario come Suspiria aveva attirato l’attenzione, e le perplessità, di molti. A una prima occhiata il mondo di Argento – fatto di urla, azione e una persistente ferocia figlia degli anni di piombo – sembra essere lontano anni luce dalla sensibilità di Guadagnino, con le sue atmosfere rarefatte e un diffuso languore. Eppure l’idea di un nuovo Suspiria nasce ben prima di Call Me by Your Name, esattamente nel 2007, quando il regista palermitano comincia a corteggiare i fratelli Argento per un’opzione sul remake. I soldi di Amazon e una sceneggiatura roboante di David Kajganich – sceneggiatore del gioiellino The Terror e già all’opera con Guadagnino per A Bigger Splash – fanno il resto.

La rivisitazione del capolavoro di Argento è totale: Kajganich decide di puntare su un’analisi approfondita delle dinamiche stregonesche, a scapito dell’aspetto più thriller dell’originale. Scompare, infatti, il killer senza volto e l’iconica lama che splende nella mano inguantata dell’assassino. Ma il sangue resta, eccome.
La storia è ambientata a Berlino nel 1977. Sono gli anni degli attentati terroristici della banda Baader-Meinhof, e la città divisa in due dal muro è il centro di molteplici tensioni. L’americana Susie giunge in città in un giorno tempestoso, proprio come nell’originale, e raggiunge l’accademia di danza Markos dove perfezionerà le sue tecniche di ballerina. La giovane è ansiosa di conoscere Madame Blanc, ex étoile di livello internazionale e direttrice carismatica dell’accademia. Fin da subito Susie dimostra doti eccezionali, tanto che Madame Blanc le offre di cimentarsi nel ruolo principale del balletto in preparazione da mesi: il Volk.
Da qui nasce la prima grande differenza con il film originale. Se Dario Argento trascurava le scene di danza riducendole a mero elemento narrativo, Guadagnino le riporta al centro, caricandole di una valenza rituale. Come nel Black Swan di Darren Aronofsky , la danza riacquista l’originaria dimensione dionisiaca, in grado di generare maledizioni e trasfigurare i danzatori. Ne abbiamo subito una prova dopo una ventina di minuti con una delle scene più forti del film, dove assistiamo a una sfrenata Susie in un passaggio del balletto, mentre a pochi metri da lei, in un’emblematica stanza specchiata, un’altra ragazza muore in una sinfonia di spasmi e ossa rotte. Solo questa sequenza varrebbe a dimostrare quanto Guadagnino faccia sul serio con questo remake, ma siamo solo all’inizio e il film dura quasi un’ora in più rispetto all’originale.

Una questione di donne

Il tema delle streghe sta vivendo negli ultimi anni una seconda giovinezza, attraverso film horror d’autore come i recenti The Witch, Hereditary o serie decisamente più commerciali come il remake di Sabrina La strega, che rileggono il mito della stregoneria femminile anche come potenza liberatoria e affrancamento dal patriarcato. Sebbene il nuovo Suspiria avrebbe tutte le carte in regola per proporsi come nuovo, decisivo capitolo di questo trend, Guadagnino racconta invece una storia di streghe in qualche modo senza femminismo, per il semplice fatto che il maschio, la controparte, è totalmente impotente. Le poche figure maschili presenti nel film si riducono a un paio di patetici poliziotti – emblematica la sequenza che li vede spogliati e derisi dalle streghe – e di un vecchio psicanalista alla ricerca della sua paziente scomparsa. Se si considera inoltre che quest’ultimo, il dottor Klemperer, è interpretato da un’irriconoscibile Tilda Swinton, la presenza maschile risulta ancora più evanescente. In un contesto simile, il potere delle streghe appare incontrastato e minabile solo da una crisi interna, da un conflitto di natura più politica che spirituale.

Congrega o collettivo?

Nella scuola Markos vive un nutrito numero di accolite, streghe di varie età ed etnie che svolgono diverse mansioni. A una prima occhiata molte di loro si potrebbero scambiare per delle semplici impiegate, concierge, tuttofare che si muovono nell’imponente edificio in totale anonimato, vestendo grigi uniformi da Stasi. Scopriamo quasi subito che la congrega è nel bel mezzo di una votazione, da cui uscirà la nuova reggente del gruppo. Il “partito” si divide in due correnti: da una parte le fedeli a Markos, la cosiddetta Mater Suspiriorum, e dall’altra la carismatica Madame Blanc. Vediamo le streghe fare colazione insieme in cucina, dibattere animatamente, in un’atmosfera che ricorda quella di una segreteria di partito o movimento piuttosto che di un conciliabolo. Persino le azioni più efferate vengono eseguite con fare impiegatizio, come si svolge il turno in archivio o la compilazione del registro.

Il corpo di Dakota

Guadagnino è maestro nel raccontare il desiderio, il suo insinuarsi, espandersi e rompere gli argini fino a travolgere ogni cosa. Ne ha dato ampia dimostrazione in Call Me by Your Name e anche nel precedente A bigger splash; i mezzi visivi per raccontarlo sono molto discreti: l’intensità di uno sguardo, il movimento di un busto, una battuta rapida. Ma in ogni gioco del desiderio ci deve essere un centro, un catalizzatore, che nel caso di Suspiria è Susie, la ballerina americana. A interpretarla è una Dakota Johnson già vista nel ruolo di preda erotica nella famigerata saga di Cinquanta sfumature. Se in quelle pellicole il sesso diventava (ridicolo) sfoggio di pratiche poco ortodosse, qui il sesso esplicito non ha mai luogo. il corpo di Dakota Johnson è sempre coperto benché ossessivamente inquadrato e studiato nel suo piegarsi, girarsi, distendersi. L’atto sessuale è solo suggerito, pur propagandosi come un’onda in tutto l’edificio e attraverso i corpi delle danzatrici. “È stato come scopare” confesserà Susie a Madame Blanc, dopo aver seguito il suo assolo di danza durante le prove iniziali, e il loro scambio di sguardi sembra comunicare più di quanto faranno le battute. Persino un esercizio per migliorare i salti può trasformarsi in una conversazione amorosa, come ben descritto da Guadagnino in questo video.

Cinquanta sfumature di grigio (e Thom Yorke)

A sostenere queste diaboliche affinità elettive c’è un apparato visivo e sonoro molto ambizioso e pensato avendo in mente l’originale di Dario Argento, il quale faceva di fotografia e musica le colonne portanti del suo feroce thriller. Nel Suspiria del ’77 il pubblico assisteva a un vero e proprio bombardamento sensoriale, fatto di colori saturi, grida, effetti sonori agghiaccianti e una colonna musicale da concerto rock. Parte dell’iconicità del film di Argento è merito di queste trovate, semplicemente irripetibili dopo più di quarant’anni. Così Guadagnino opta per un’estetica quasi antitetica a quella del suo predecessore, fatta di una fotografia dai colori smorzati, edifici austeri e privi di decorazioni, e soprattutto da una colonna sonora meno invadente, dove le chitarre elettriche sono sostituite da pianoforte, archi e tappeti sonori elettronici realizzati da un ispirato Thom Yorke (per maggiori dettagli vi rimando alla recensione dell’album).

There will be blood

E poi arriva il sangue, a fiumi, analogico, come ai vecchi tempi dei film di Romero o di quell’horror tutto italiano dei vari Fulci, Deodato e ovviamente Argento. È chiaro quanto Guadagnino sia ansioso di dimostrare la sua profonda conoscenza del genere e di meritarsi la direzione di questo remake, presentando una gamma di trovate colte e persino inattese suggestioni, come quella da Salò di Pasolini o Bad Taste di Peter Jackson. A ogni modo, Suspiria si rivela un’opera tra le più ambiziose dell’ultimo cinema italiano, certo non priva di vizi di forma o di qualche cedimento, ma pur sempre un lavoro capace di spiazzare lo spettatore, demolendo quella comfort zone in cui l’horror e il suo pubblico rischiavano di perdersi.