«Sono un ragazzo del Basso Piave.»
Ernest Hemingway, Di là dal fiume e tra gli alberi

 

Nascere a Treviso significa essere indissolubilmente legati al Piave, il fiume che “mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio”, quello della canzone patriottica più famosa d’Italia (e che, a mo’ di sbeffeggio ai tanti leghisti che si assiepano da queste parti, è stata scritta da un napoletano doc). Il Piave, infatti, taglia in due la provincia da Nord a Sud, dividendo dialetti, modi di dire e paesaggi: da una parte la zona più densamente abitata, industrializzata, quella del “modello nordest”; dall’altra un’area più propriamente agricola, dagli spazi aperti e punteggiata di vigneti. In mezzo, questo corso d’acqua che si disperde in mille rivoli su un enorme letto di ghiaia bianca, tanto che a volte l’acqua, per vederla, bisogna andare a cercarla.

È seguendo il corso del Piave che si andava e tuttora si va in vacanza. Si risale la corrente, lungo la A27, e si superano i colli di Valdobbiadene e del suo Prosecco, arrancando verso il Cadore, territorio alpino di occhialerie, polenta e maestose quinte dolomitiche. Oppure si segue il corso del fiume in senso opposto, attraversando una campagna che, a poco a poco, si scrolla di dosso conurbazioni e zone industriali, per diventare davvero soltanto campagna, fino a raggiungere il mare: Eraclea, Jesolo, a volte Caorle. Spiagge sabbiose, meduse e, laggiù in fondo, in mezzo alla laguna, i campanili e le cupole dorate di Venezia.

Per comprendere il Piave bisogna proprio partire da Venezia, o meglio dalla Venezia del passato, quella che dominava il Mediterraneo con la sua flotta. Le navi della Serenissima, capolavori di ingegneria pre-industriale, venivano forgiate nell’Arsenale, nel sestiere di Castello, ma era dai boschi cadorini che arrivava il legno necessario per costruirle, a centocinquanta chilometri di distanza. Con il tempo si era instaurato un sistema efficiente, che legava a doppio filo la capitale al suo entroterra: stuoli di taglialegna lavoravano sulle pendici dolomitiche, ammassavano i tronchi e li portavano sulle rive del fiume, dove addetti specializzati li legavano gli uni agli altri fino a creare delle grandi zattere. E, alla guida di queste zattere, si lanciavano alla volta di Venezia i battellieri, prima sfruttando la pendenza naturale del suolo, poi pagaiando. Un legame testimoniato ancora oggi: la lingua del Cadore, innanzitutto, ha sonorità molto più simili a quelle di pianura che a quelle dei suoi dirimpettai dolomitici; poi il capoluogo, Pieve di Cadore, è in tutto e per tutto una cittadina veneziana, con i suoi portici e il suo leone alato che fa la guardia alla piazza centrale.

Era un altro Piave, quello, impetuoso e ruggente. Un corso d’acqua non ancora addomesticato dal sistema di rogge e canali che, lungo il tratto pianeggiante, rifornisce d’acqua la gran parte delle colture del Veneto orientale, né interrotto dalle dighe che, sulle Alpi, modellano il paesaggio e incanalano l’energia elettrica destinata alle industrie di pianura. Già, le dighe. La più tristemente celebre è quella del Vajont che, anche se non propriamente sul Piave, fa parte del suo bacino: sono ormai passati cinquantacinque anni da una delle più grandi tragedie della nostra storia recente, quando una frana – ampiamente prevedibile e, infatti, prevista – è crollata dentro il lago prodotto da una diga che non avrebbe dovuto essere costruita lì, creando una mastodontica ondata che si è riversata sui paesi attorno. La cittadina di Longarone è stata pressoché cancellata, le vittime poco meno di duemila. Di cose da dire ce ne sono molte – sulla cecità politica, sull’asservimento della tecnica al potere, sulle colpe di chi poteva avvisare la popolazione e non l’ha fatto –, e per fortuna c’è chi ci ha già pensato.

Sebbene il Piave non sia più quello di un tempo, le leggende sono difficili da estirpare, e ancora oggi le madri consigliano ai più piccoli di non fare il bagno in quelle acque perché “bisogna stare attenti ai mulinelli”, i mitologici nemici delle domeniche primaverili, quando non si ha voglia di guidare fino al mare e allora ci si riversa sul fiume e sul suo ampio letto di ciottoli. Sempre qui converge la popolazione della Marca armata di barbecue, salsicce, sopressa, Asiago e Merlot, per la tradizionale grigliata di Ferragosto. Giusto a un passo dalle lapidi, dai monumenti funebri, dalle iscrizioni commemorative e da tutto ciò che resta della memoria storica della Grande guerra.

Ma non soltanto di storia si nutre il Piave. Anche la letteratura accompagna il corso del fiume. A partire da Goffredo Parise che, in una vecchia casa colonica – la “casetta rosa” – affacciata sui flutti, in uno di quei tratti in cui il letto è più ampio e d’aspetto più selvaggio, ha scritto i suoi Sillabari: prose d’arte o poesie in prosa, poco importa la definizione. E nelle vicinanze, a Ponte di Piave, oggi si può visitare la sua casa-museo. Poi c’è Giovanni Comisso, l’autore che forse più di tutti, nel Novecento, è stato legato a questi luoghi. Così, per esempio, parla del Piave in Veneto felice:

È facile salire su questo monte e di lassù si vede il largo disnodarsi del Piave nelle sue bianche ghiaie fino al Montello e oltre, giù per la pianura. Allora si comprende come la terra trevigiana riceva il suo marchio da questo fiume che la dipartisce e la feconda. È il Piave la grande vena di questa terra.

Infine, Ernest Hemingway, che ci riconduce ancora alla Prima guerra mondiale. È sul fronte del Piave che l’allora diciottenne e non ancora scrittore americano viene spedito, dopo essersi aggregato alla Croce rossa internazionale. Hemingway vive qui le prime avventure di una vita fin troppo avventurosa e scopre il sapore del sangue, le gioie dell’alcol e quel misto di orrore e fascinazione che la guerra gli susciterà per tutta la vita. La sera dell’8 luglio 1918, a Fossalta di Piave, viene ferito da una granata austriaca. E, con la gamba trivellata da 227 schegge di mortaio, si carica sulle spalle un soldato ferito e lo porta in salvo (azione per cui riceverà una medaglia dallo Stato maggiore italiano). Nei giorni successivi, verrà spedito prima a Treviso, per le cure d’urgenza, poi a Milano, all’ospedale americano, dove scriverà Addio alle armi. Ma questa è un’altra storia.

N.B. A proposito di storie, il Piave ne nasconde molte – per esempio ha due sorgenti e altrettante foci –, e per chi volesse saperne di più è stato ripubblicato da poco per il Saggiatore un reportage bello e suggestivo di una decina di anni fa: si intitola Piave. Cronache di un fiume sacro e l’ha scritto Alessandro Marzio Magno.