All’ultimo Festivaletteratura di Mantova ho fatto due chiacchiere con Paolo Bacilieri, venuto nella città di Isabella d’Este per parlare di Milano con Giorgio Fontana. Ne ho approfittato per chiedergli qualcosa su di lui, sulle sue opere e sul mondo del fumetto in generale.

Partiamo da molto indietro, quando avevi 17 anni e un certo Milo Manara ti presenta ad Andrea Pazienza. Erano gli anni di Frigidaire e di un fumetto immaginato come eversivo e underground. Ora ti ritrovi al Festivaletteratura e insieme a te in questa edizione ci sono diversi altri fumettisti, come Daniel Cuello e Zerocalcare. Sembra quindi che il fumetto abbia finalmente l’importanza che merita e che si associ sempre più spesso alla letteratura. Eppure, l’epoca di Frigidaire viene sempre incensata come il momento in cui tutto cambiò. Allora qual è secondo te il momento migliore del fumetto? Quello leggendario di Pazienza o quello che stiamo vivendo?

Senza fare categorizzazioni o classifiche di migliore e peggiore (faccio fatica a fare questo tipo di classifica – e se la faccio tendo a mettere in testa autori del passato) Frigidaire è un’esperienza nata in contrasto a un certo tipo di linguaggio fumettistico presente in quegli anni. All’epoca, nei primi anni 80, ero molto giovane e ricordo che l’industria del fumetto ancora produceva per l’80% prodotti rivolti ad un pubblico giovanile, di ragazzini. Nonostante in Italia il fumetto avesse già fatto passi da gigante – basti ricordare l’arrivo di Linus negli anni 60 e in Francia c’era stato negli anni 70 Metal Hurlant, una delle esperienze di riferimento per il gruppo di Frigidaire – il contesto rimaneva pressoché dominato da prodotti per giovanissimi. L’arrivo di Frigidaire è stato come un’esplosione, qualcosa di molto liberatorio e virulento, molto simile a un’esperienza legata alla musica, gli autori di Frigidaire venivano paragonati a Rockstar. Ora il fumetto è entrato nella sua “fase adulta”, per questo ci sono fumettisti invitati a un festival di letteratura e trovi molti fumetti nelle librerie. E sono diversi, rispetto a quelli dei tempi di Frigidaire e anche rispetto a se stessi, sono molto diversi tra loro e in molti casi sono più maturi. Il contesto editoriale e industriale del fumetto è cambiato totalmente.

Rimanendo sempre in ambito letteratura, ti chiedo di soffermarci sulla parte testuale del fumetto, il lettering, ovvero il testo scritto a mano all’interno dei fumetti. Nelle tue opere giovanili come Phonx del ‘95 è presente un lettering anarchico, fantasioso, a volte volutamente sgrammaticato, mentre ora il tuo stile è decisamente cambiato e si è fatto più ordinato, più lucido. Puoi raccontarci questa evoluzione?

Sì, per me il lettering è un aspetto importante. All’inizio non facevo il lettering per i miei primissimi fumetti. Lo lasciavo fare a bravissimi professionisti. A un certo punto della mia stramba carriera – che ha avuto un percorso tutt’altro lineare, tra salite, discese vertiginose, svolte a destra e sinistra – a metà degli anni 90, dopo un inizio negli anni 80 folgorante, con pubblicazioni prestigiose per le migliori riviste francesi, ho dovuto ricominciare da capo perché le riviste chiudevano e il fumetto entrava in una fase che definirei “desertica”, in cui il vecchio modo di fare fumetti stava morendo e non c’era all’orizzonte il panorama che c’è oggi, con le graphic novel e i fumetti in libreria. Gli unici libri di fumetti a uscire erano quelli di Crepax e Hugo Pratt e poco altro. Io (come molti altri) dovetti in qualche modo ripartire da capo. Ripartii “disegnando” la parte letteraria del fumetto, per dare così maggior coesione tra testo e immagini, impossibile da ottenere con un lettering professionale. Per me è stata una conquista importante: l’appropriarmi di un elemento sempre troppo sottovalutato del fumetto. Col tempo sono passato a un lettering di più facile leggibilità, pur rimanendo una parte integrante della tavola disegnata.

Anni dopo la fase di Phonx e del lettering si passa alla storia con la Bonelli. In uno degli ultimi lavori per la nota casa editrice ti sei cimentato in un numero di Dylan Dog scritto a più di 8 mani, Graphic Horror Novel Story con Ratigher alla sceneggiatura e tu e Montari&Grassani alle matite. In questo episodio la letteratura ha un ruolo importante in quanto il protagonista ha le fattezze di David Forster Wallace. Ci può raccontare la genesi di questo albo?

Qui devo fare delle rivendicazioni ben precise, perché le cose sono andate in questo modo. Recchioni mi chiede se mi va di fare un Dylan scritto da Ratigher, io accetto con entusiasmo –Ratigher oltre ad essere un genio con idee grandiose è uno con cui c’è già una bella intesa– . Tempo dopo Ratigher passa in studio da me e mi racconta il soggetto della sua storia: un tizio, un autore di graphic novel, si chiude in un bagno pubblico e incomincia a disegnare una storia sulle piastrelle bianche delle pareti, ogni piastrella una vignetta. Io rimango perplesso. Il protagonista è un fumettista, quindi bisogna disegnare le vignette che rappresentano il personaggio chiuso nel bagno e descrivere la storia che questi sta disegnando sulle piastrelle con un altro stile. Le storie dunque sono due e dovevano essere realizzate con stili diversi. Le possibili soluzioni erano due: o disegnare con la mano destra una storia e con la sinistra l’altra, oppure contattare Montanari & Grassani, i disegnatori più iconici di Dylan Dog. Ratigher e Recchioni sono stati subito d’accordo. Qui e ora rivendico l’idea di scegliere i due storici disegnatori di Dylan Dog, che non lavoravano per la collana ufficiale da parecchio tempo, e la rivendico come uno dei miei capolavori di fumetto concettuale (ride). Quand’ho visto il fumetto stampato mi sono detto, “Accidenti ma che belle idea che ho avuto”, Montanari e Grassani sono perfetti e perfettamente complementari alle mie pagine. Ratigher ovviamente ci ha messo del suo, ironizzando sulla scena fumettistica e letteraria odierna e utilizzando la maschera iconica di David Forster Wallace. È una storia che i lettori del Dylan Dog degli anni 80 non capirebbero, si parla di cose come graphic novel ecc., ma quelli di ora invece hanno i riferimenti adatti per capire il contesto e infatti hanno dimostrato in molti di apprezzare.

Bacilieri_dylan_dog

Ci sono altri numeri di Dylan Dog in cantiere con le tavole di Bacilieri?

Sì, al momento sto lavorando su un’altra storia ma molto più “classica”, con Riccardo Secchi alla sceneggiatura.

Avviciniamoci sempre di più al mondo della letteratura. Cosa stai leggendo o cosa ti ha colpito di più negli ultimi tempi?

Sono un lettore abbastanza onnivoro ma anche incostante. Però posso dirti che l’ultimo lavoro che mi ha colpito è stato La ragazza con la Leica di Helenza Janezcek, vincitrice del premio Strega. Mi piacciono molto le biografie, leggere di persone realmente vissute. Ho apprezzato molto il mondo con cui l’autrice ha organizzato il materiale narrativo, con continui salti temporali e filtrando la storia attraverso diversi punti di vista.

Nelle tue storie compare più volte un personaggio, Zeno Porno, che è il tuo alter ego. Quali le necessità narrative di creare un personaggio uguale a te?

Non pensavo di tirarmi dietro il personaggio di Zeno Porno per così tanto tempo, ormai sono quasi vent’anni che faccio storie con Zeno. Credo che sia da una parte un fatto di estrema comodità. Il personaggio più immediatamente a disposizione è sempre te stesso e infilare se stessi nelle storie risulta anche abbastanza facile. Usare un alter ego è anche però al contempo prendere le distanze dal tuo alter ego. Come mettere un cartello per il lettore “attenzione non sono io, sono anche io ma non sono io”.  Zeno ha un superpotere che è la collosità, cioè riesce a tenere tante cose diverse, cose che sembrano incompatibili. E lo uso proprio in questo senso. In Fun e More Fun ha proprio questo ruolo.

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Chiuderei con un cambio di rotta verso Milano, la tua città d’adozione. Che cosa ti piace di lei?

Che milanese si può diventare. Romano no, napoletano tanto meno, ma milanese un giorno puoi diventarlo. Non è facile, ci vogliono anni di duro lavoro. E non è detto che ne valga la pena, ma ti è data comunque questa possibilità. Ecco. È questo che mi piace di Milano: la sua capacità di sintetizzare l’Italia, la provincia italiana e di aggiungere (o togliere?)un quid propriamente meneghino.