Molte persone non capiscono come qualcuno si possa dedicare all’arte. Derubricano il fatto a una sensibilità eccedente, o a un goffo tentativo di sostituire il godimento della vita con un simulacro. C’è un passo illuminante di Philip Roth a questo proposito: «Non è colpa tua se non sai cosa pensano i gentili quando leggono una cosa come questa. Non ci pensano come a una grande opera d’arte. Non s’intendono di arte. Forse non me ne intendo nemmeno io. Forse nessuno di noi se ne intende, in famiglia, come te ne intendi tu. Ma è proprio questo il punto. La gente non legge pensando all’arte: legge pensando alle persone. E le giudica per quello che sono».

L’autore non è un costruttore estraneo al testo, ma un personaggio prodotto da quello. Autore e lettore non sono figure simmetriche messe a contatto da un artefatto: l’autore partecipa al farsi del testo, il lettore assiste al farsi dell’autore.

Una poesia dovrebbe agire sul discorso critico come un’ambulanza nel traffico.

La poesia è arte nella misura in cui smonta la tecnica dello sproloquio (Beppe Salvia: «sproloquiammo in vita»). Sproloquio: discorso prolisso, enfatico e inconcludente, dal latino pro + loqui: dire prima, annunciare (con s intensiva).

I poeti dovrebbero gravitare intorno alla poesia come i filosofi intorno alla filosofia, cioè non come a delle formule fissate ma a un’interrogazione incessante.

Chi ama la poesia apprezza anche il valore della chiacchiera (quando sia confinata fuori della pagina), sana testimonianza che il mondo continua a zigzagare in attesa di essere colto dall’arte.

Il poeta deve sottoporsi al processo che lo guiderà dall’impulso iniziale alla fabbricazione del testo. Il testo pronuncerà la sentenza.

Una brutta poesia rimanda la propria urgenza e il proprio orizzonte a una tradizione testuale preesistente.

Una buona poesia mette a fuoco il mondo, lo squassa di nitore.

Una poesia fallisce quando ha bisogno di essere riconosciuta come tale per essere credibile.

Il lettore cerca libri bifronti, che funzionino nello stesso tempo come vie di uscita e come solide mura.

La gravità di una poesia spesso non prescinde dalla presenza di un gioco interno, sia un’assonanza, una similitudine o una virgola fuori posto. Senza quel gioco la poesia cesserebbe di essere tale e la gravità si dissolverebbe come schiuma.

Leggere poesia non significa estraniarsi dai discorsi circostanti, ma vederli come confusi spezzoni di un discorso corrente privo di autore.

Si potrebbe affermare, correndo il rischio di una certa pretenziosità, che un autore riesce a concentrare il succo del linguaggio e la polpa di una lingua. (Spesso ci si trova davanti a lavori compiuti a metà).

Il poeta si disincaglia dalla lingua e dice ciò per cui si è lungamente sforzato. (Non diversamente da uno storico, un politico, o qualunque altra figura intellettuale).

Sulla materia della poesia restano memorabili le parole di Borges, che in un racconto ha scritto: «il tempo spoglia i castelli e arricchisce i versi».

È una vera scortesia, o una scortese verità, ammettere che si scrive anche nella speranza che i dischi rotti smettano di cantare.