Davide Castiglione si cimenta volentieri in “duelli” epistolari con giovani poeti, volti a sviscerare con acribia la lingua di una raccolta, e le posizioni che – più o meno apertamente – la innervano (si veda, ad esempio, qui e qui). Da oggi pubblichiamo questi scambi sotto il nome di #botta&risposta, convinti che il dialogo (e i buoni argomenti) servano molto a lettori e autori di versi. Buona lettura!


Ciao Marco,

ho letto il tuo poemetto, Il sogno di Pasifae (ora in Hula Apocalisse, Prufrock Spa 2018) e vorrei lasciarti alcune impressioni a caldo.

Io credo che sia sinceramente apprezzabile il tentativo di uscire fuori dalla lirica – e anche dal campo sperimentale della disgiunzione o della ecolalia – con un poemetto che, come dici tu e come è evidente, fonde mitologia e pornografia. Certo, questa come sappiamo è un’operazione postmoderna, e perciò circoscrivibile a un periodo e a un’attitudine precisi (mentre la lirica, intercettando delle costanti antropologiche, e se rinuncia al poetese, appare più impervia al tempo storico e alle forme estetiche dominanti in un certo periodo): ci sono riferimenti, anche se localizzati, alla modernità gluten-free (e quella dei follower) un po’ hipster; c’è il ricorso alla maschera (non parla l’io ma Pasifae, o l’io per tramite di lei); ci sono le note a piè di pagina disinvoltamente, perfino sornionamente, mescolate fra le filologiche e le burlone (per esempio la lunghissima nota sull’ercolina e la poliercolina, il cui eccesso, la cui estensione sembrano ingiustificati; in pragmatica, si parla di violazione della massima della quantità di Grice); c’è la trovata del testo sistematicamente mancante in V – Frammenti che riporta un po’ a Papyrus di Pound. Insomma, il tutto mi dice che c’è, e chiara, la volontà di rifarsi a una tradizione che, sebbene forte in area anglosassone (vedi McHale, The Postmodernist Long Poem), in Italia sembra avere avuto pochissimo seguito (la stessa centralità del mito nel citato Ted Hughes non sembra avere molti corrispettivi da noi, ma posso sbagliarmi).

Quello che però trovo più interessante, almeno secondo il mio sentire, è il tentativo “de-mascolinizzante”, e cioè quello di incarnare una voce e un pensare femminili. Il modus infatti rifugge dalla complessità modernista e postmoderna (della quale, mi pare, trattiene appena qualche vezzo, e cioè quei mescolamenti di antico e contemporaneo, quelle note, un certo gusto per il mescolamento degli stili), ponendosi nell’ordine di una leggibilità alta, scorrevole, eccezion fatta per alcuni momenti sovra-elaborati ma in chiave iperbolico-ironica, come in II: «luogo di riparo dalle vaste | torme di neoterici esoterici, | di lugubri bizantinisti itterici, | di porporati pallidi ed isterici». Sembri perseguire una specie di confessionalità analitica per cui il soggetto s’interroga con lucidità, con distacco quasi (donde il tono filosofico, senz’altro discorsivo), sul suo essere vittima passiva del possesso maschile, «un pezzo di carne concluso e soddisfatto» (espressione alquanto forte nella sua brutalità). Perfino il riferimento al Tupperware Party (pratica sessuale di cui, confesso, non ero a conoscenza) può sottilmente indicare quel senso d’asfissia, di mancanza di aria per la donna, che si ritrova letteralmente tutti gli orifizi ingombrati.

Questa onestà di cui dicevo giunge a rovesciare il modus dell’unreliable narrator, come quando Pasifae chiede di non essere creduta («non credeteci, ma ricordo la corte di un neoterico»). Questo, dicevo prima, per me è importante perché, perlomeno su un piano potenziale, non nega una qualche possibilità di empatia e avvicinamento al lettore. E l’intento filosofico funziona, per esempio, con il ritorno circolare di “mare” all’inizio e alla fine del primo movimento (ma anche del VI, e cioè l’ultimo del poemetto), ma con uno slittamento: il mare “letterale” è in letteratura metafora di mutamento (cfr. Montale «esser vasto e diverso e insieme fisso»), ma alla fine del primo movimento il referente di questo mare, prosaicamente, si appalesa in una specie di avverbio di quantità (un mare di gente), in una metafora morta che nega proprio il mare letterale, l’essenza oceanina della ninfa.

Insomma, come queste mie digressioni o incursioni nel corpo del testo rivelano, si tratta senz’altro di un’opera consapevole, ben scritta e ben progettata. E tuttavia ho come il sentore che il rischio sia, paradossalmente, quello di una censura: questo di più di cultura e intelligenza da un lato incoraggia una fruizione intellettuale-erudita (che, nonostante il modus confessionale, a me pare soverchiante) a scapito di una più empatica; sembra essercene consapevolezza, in un gioco di chiusure e fortezze, nel movimento III, dove il narratore ammette che si tratta di letteratura, non di vita. Insomma, l’immediatezza pornografica del tema si scontra con la mediazione iperletteraria, intertestuale dell’intero progetto, e in un gioco di specchi questa viene còlta – metaletterariamente – in seno al testo. Questo girarsi attorno, questo schermarsi, potrebbe chiaramente funzionare in quanto strategia indirizzata a certi fini (per esempio, la mimesi di un raggiro, o di un corteggiamento ambiguo). Eppure nel tuo caso ho come l’impressione che la volontà intrinseca, cioè comunicativo-esistenziale del poemetto (mi) rimanga opaca. È una cosa curiosa: il modus esplicito del linguaggio, che non si fa problemi a squadernare le fonti e a farsi letterale (il che non vuol dire sciatto, anzi, e senza per forza tirare in ballo uno degli esempi più lampanti di ornatus, come l’iperbato «che le luci | illuminano bluastre degli smartphone») non basta a togliermi certe riserve sulla opacità globale del progetto, cioè sul tipo di fruizione e reazione richiesti a un lettore ideale.

Sopra le illuminazioni locali e al di là di un gusto della lingua evidente, aleggia per me una mancanza o nebulosità di direzione, intenzione, teleologia, una forza centripeta che comandi l’attenzione. Si intuisce il senso dell’operazione intellettuale, di cultura critica, ma forse manca o è poco visibile un legame (per me necessario) tra questo e le necessità intrinseche dello scrivente: un’ossessione forse demodé questa mia, ma una a cui non so rinunciare, pena il sentore o sospetto di esercizio letterario, di sperimentazione non covata fino in fondo. Non so se questo sia un limite mio (e di un po’ tutti noi, talmente abituati alla lirica e al culto della necessità compositiva ed espressiva da faticare a prendere sul serio altri generi fino in fondo, inclusi quelli del divertissment e della poesia d’occasione) o indice di una tua ricerca che magari non ha ancora trovato un’articolazione sicura di sé, dico negli intenti di fondo; d’altronde tu stesso accenni, in una tua mail di risposta, alla necessità di passare ad altro, mentre per me già l’idea “progettuale” di passare ad altro assomiglia a un cappio all’ispirazione, alla negoziazione con il momento e con l’imprevedibile mutevolezza degli stimoli esterni; o forse un po’ ambedue le cose. Sarebbe bello sapere le tue considerazioni in merito.

Davide

Vilnius, 11/02/2018-Valenza 19/08/2018


Caro Davide,

Grazie per l’attenta lettura & rigorosa, & per le critiche costruttive che mi permettono di spiegare qualcosa di Pasifae, e di sciogliere qualche equivoco.

Sono felice che il tentativo di “uscire dalla lirica” sia stato colto, benché io non sia un grande appassionato dei dibattiti teorici sull’argomento: quello che mi interessava fare (e che mi interessa fare in generale con la mia scrittura in versi) è costruire uno spazio che sia equidistante da quella noiosissima poesia sulle minuzie della vita quotidiana che tendiamo, con poca fantasia e non so quanta correttezza, a chiamare lirica, e dalle superciliose arguzie della poesia cosiddetta sperimentale, che non solo mi è largamente incomprensibile, ma soprattutto non suscita in me alcun desiderio di approfondimento. Si tratta, è chiaro, di macro-categorie molto generiche, e le mie letture sono costellate di eccezioni alla regola che ho appena esposto: cionondimeno, il mio desiderio, soprattutto con Pasifae, era di costruire un testo dove potessero verificarsi nello stesso momento quelli che sono tutto sommato i due scopi della poesia – uno studio dell’animo umano, e una riflessione sull’atto di comunicare.

È anche per questa ragione che accolgo con una certa perplessità l’etichetta di “postmoderno” che affibbi a Il sogno di Pasifae: capisco da dove proviene, ma non la condivido, altro non fosse che per la connotazione negativa che questo termine, almeno nel tuo uso, porta con sé. Se le scelte lessicali dei miei lettori dipendessero da me, preferirei di gran lunga che il mio lavoro si rubricasse sotto la categoria di modernismo, piuttosto che di postmodernismo. La tradizione a cui ho inteso rifarmi è decisamente quella modernista, quella di Eliot, di Pound (cui giustamente mi accosti), di H.D., di Saint-John Perse, senza dimenticare tuttavia che da quell’esperienza ci separa circa un secolo, e che non si può tornare, semplicemente e con faciloneria, a scrivere facendo finta che non sia trascorso. In questo senso, i caratteri più marcatamente postmoderni del mio lavoro, che tu rilevi (le note a margine, il testo mancante), sono volti, attraverso la messa in scena della finzionalità del discorso e dunque proponendo una visione del mondo come testualità, a esibire non una presa di distanza da quei modelli, bensì la distanza (culturale, cronologica) che inevitabilmente mi separa da essi. Ma la sostanza dell’operazione è e resta modernista: i riferimenti, insieme, al mito e al presente, alla tauromachia micenea e alle diete gluten-free, non sono un escamotage postmoderno, ma hanno un modello molto anteriore, che è quello di Eliot.

Il mito è ciò che, io credo, permette di unire questi due scopi (lo studio delle passioni, lo studio della testualità), proprio perché incapsula motivi archetipici entro storie il cui moltiplicarsi già in tempo antico attraverso la difforme pluralità della loro trasmissione rende inevitabile il confronto con la loro dimensione eminentemente testuale. La citazione di Hughes che metto ad aprire il testo, non a caso, viene dalle sue versioni di Ovidio: il mito è un archetipo, ma è anche un oggetto profondamente letterario. Anche la lingua che ho scelto (una lingua piana, da recitativo, ma con momenti deliberatamente arcaizzanti) mira a rendere non qualche linguaggio fintamente vetusto e atemporale, in un rigurgito di orfismo, ma semmai una delle principali manifestazioni del mito nella cultura europea, cioè quella del melodramma.

Come mi è capitato di dire e di scrivere spesso, quello che intendevo fare era produrmi in un esercizio di erudizione al sangue: di usare i temi e le forme della tradizione per parlare di qualcosa di molto presente, a me e non solo a me. La storia di Pasifae, nello specifico, mi offre un modello paradigmatico ed estremo dell’insistenza e dei pericoli del desiderio, e del rifugio in esso come fuga dalle costrizioni sociali, mentre il modello del melodramma mi permette di cambiare la mia voce in quella di un personaggio femminile. Tutto questo (e una lingua leggibile, relativamente piana se non per il dilatarsi di parentesi e subordinate e qualche inversione) mira senz’altro a una leggibilità che favorisca l’empatia, il coinvolgimento del lettore, puntando tutto, come diceva Coletti per l’opera, «su due presupposti imperiosi e tenaci: la dottrina degli affetti e l’idea del meraviglioso».

Io credo che Pasifae sia un testo tutto sommato semplice, onesto, immediato, e non nell’accezione banale di questi termini, ma nella misura in cui si può leggere, se lo si desidera, come confessione (fittizia), come manifestazione in una storia mitologica di un problema (una serie di problemi) veri sempre, per tutti. Allo stesso tempo, esiste nel poemetto una dimensione metatestuale che fa da contorno al monologo di Pasifae. Tu trovi il senso di questa operazione opaco, e la definisci erudita (termine, al solito e inspiegabilmente, con connotazione negativa): se sull’opacità, in quanto autore, non ho il diritto di pronunciarmi, rivendico senz’altro l’erudizione che sta alla base del mio testo, ma la rivendico come fondamentale non solo a Pasifae, ma alla pratica poetica in generale. La dimensione metaletteraria ed erudita del poemetto serve a due scopi: il primo, e più immediato, di raffreddare la materia del discorso di Pasifae, di operare un imprigionamento analogo a quello che lei, con le sue parole, tematizza (e tu parli giustamente di «chiusure e fortezze»); il secondo scopo, attraverso una riflessione sulla distanza del mito, è interrogare i modi con cui, e la possibilità stessa di, fare letteratura.

È difficile rispondere alla tua domanda su quale lettore ideale preveda Pasifae: sai meglio di me che le dimensioni del mercato della poesia italiana mi permetterebbero tranquillamente di chiamare i miei lettori per nome e cognome, e l’elenco non prenderebbe troppo tempo… Ma, scherzi a parte, è evidente che il fruitore ideale di Pasifae è il lettore medio di poesia in Italia, cioè un lettore specializzato, senz’altro in grado di sciogliere gli equivoci e le difficoltà che il testo presenta. Allo stesso tempo, come mi hanno confermato diversi pareri e tutte le presentazioni, penso che Pasifae si presti a essere letto anche nella sua immediatezza di confessione, di ruminazione: quindi il mio circolo di lettori ideali potrebbe, in un mondo ideale, allargarsi. Sono quindi dispiaciuto che trovi nebuloso e privo di direzione il testo, e tanto più che tu non ne veda la necessità «compositiva ed espressiva», perché secondo me si tratta di versi profondamente necessari, che affrontano argomenti vicini a me (e di nuovo: non solo a me) come la vena del collo. La mia posizione di autore e il mio pudore mi impediscono ovviamente di giudicare se io sia riuscito o meno a costruire il testo a cui miravo, ma senz’altro posso dire che le intenzioni esistevano, e chiare. Purtroppo non si scrive quello che si vuole, ma solo quello che si riesce.

Due postille, infine, su due cose solo relativamente marginali. Per la questione delle note, va notato che originariamente erano assenti dal testo, e le ho aggiunte solo in un secondo momento, quando Luca Rizzatello ha deciso di pubblicare Il sogno di Pasifae in Hula Apocalisse, con le raccolte di Roberto Batisti e Francesco Brancati. Delle tre, solo quella di Roberto aveva un apparato di note, ma abbiamo deciso di dotarcene tutti (a me, poi, sembrando assai coerente con il resto del mio lavoro), e di disporle disordinatamente e creativamente nella pagina, per uniformare l’oggetto-libro. Per quel che riguarda, infine, il Tupperware Party, ci tengo a fare notare che non avevo idea che fosse una pratica erotica tanto affollata: mi riferivo in verità alle dimostrazioni a domicilio per casalinghe che organizzava, e forse organizza ancora, la ditta, finalizzate alla pubblicità e alla vendita dei Tupperware suddetti, ossia praticissimi contenitori ermetici per la conservazione dei cibi. Si capisce però che questo equivoco che tu mi rendi noto gioca tutto a mio favore.

Best,

MM

Padova, 17/02/2018; 24/08/2018


Caro Marco,

ti ringrazio per questa esauriente risposta; vorrei aggiungere qui una coda partendo da alcune delle tue precisazioni.

Sul postmoderno: in parte mi sono forse frettolosamente affidato a una vulgata, in parte è difficile negare che fra modernismo e postmodernismo ci sia una sostanziale continuità di forme, un processo di filiazione (Perloff parla di un Eliot «d’avanguardia», proto-postmodernista, e le stesse costanti individuate da McHale potrebbero applicarsi in buona misura al modernismo classico); tenendo tuttavia per buona (o almeno, per me più utile) la doppia dicotomia euristica “problema epistemologico” (modernismo) vs. “problema ontologico” (postmodernismo), e “anelito all’unità organica” (assente dall’orizzonte postmoderno, presente eccome nel modernismo – e in effetti il mito è un principio unificante, un generatore di senso), concordo con la tua obiezione.

Sulla mia parziale freddezza o limitatezza ricettiva, penso di poterci fare ben poco: ora che hai esplicitato il senso dell’intera operazione, mi avvedo che la distanza è una distanza di poetica ed estetica, o più banalmente di gusto: come esiste una letteratura che espone la propria natura fittizia, di artificio (non a caso si chiama Radical Artifice un libro della Perloff, incentrato su una idea di letteratura come medium), ne esiste un’altra che insegue un ideale di trasparenza, di letteratura come rivelazione ed esperienza, mettendo in sordina la testualità esibita: se vuoi, Stevens e Larkin (o anche Plath) contro Eliot e Pound (o Frasca). In te le due istanze si compenetrano (confessionalità diretta e intertestualità esibita), ma appunto la prima è letteralmente inglobata e diretta (framed) dalla seconda; quanto al senso dell’operazione (l’intenzionalità che giustamente rivendichi), forse la difficoltà sta proprio in una percezione di mondo (di fondo): e cioè che, se non ho problemi a riconoscere che la ricerca del soddisfacimento (e la conseguente clausura, e insoddisfazione: “apatia”, “abulia”, “anedonia”: ma “che differenza fa”) sono perspicue oggi, più difficilmente vedo il desiderio come un tema a cuore di molti: proprio il desiderio sembra anzi scomparso dal dibattito pubblico e anche in quello privato, perlomeno nei circoli e nella percezione che ne ho io. Se ci fosse desiderio (desire, non lust) non potrebbero esserci apatia e chiusura, ma tutt’al più una tensione vibrante, una forza propulsiva che fa di chi lo esperisce un soggetto pieno, pronto a travolgere il circostante.

Il mio ultimo punto afferisce a un piano diverso, non di sociologia contemporanea ma di estetica della lettura, se vuoi: se ho capito bene il tuo ragionamento, bisognerebbe tacitamente invocare un principio di almeno parziale rispecchiamento fra la visione dell’autore e quella espressa dal personaggio da questi rappresentato (lo suggerirebbe il buon senso: perché profondere fatica e sforzi su figure che si sentono da sé distanti?). Il problema è che, a meno di non segnalarla o incoraggiarla esplicitamente nel testo (per esempio con strategie di montaggio alternato fra Pasifae e un “io” che faccia più direttamente, cioè senza giochi di specchi e mise en abyme, le veci dell’io), questa rimane una premessa non necessariamente condivisa, men che mai comune. Inoltre, forse si risente (o risento io, almeno) di una doppia interferenza: se leggo Le metamorfosi di Ovidio, posso anche non cercare l’autore nei miti narrati, posso cioè operare, quasi d’istinto, una distinzione netta fra autore e narrazione; ma se leggo una scrittura contemporanea in versi, la forma mentis della separazione confligge con la convenzione di default (lirica) che identifica io grammaticale e io empirico, e che genera la finzione di una presenza non mediata; mi aspetto insomma dalla scrittura in versi una finalità che stia dentro il suo stesso enunciato, piuttosto che nell’operazione a monte o nel mestiere retorico che interviene dopo o durante (cioè l’operazione non giustifica mai, per me, se stessa). Senz’altro una mia miopia: se, per dire, di Pound posso apprezzare Hugh Selwyn Mauberley, è perché la maschera, la persona in senso etimologico, è facilmente sovrapponibile all’autore, ingenerando un senso di vicinanza che non è filtrato dalla coscienza della diffrazione. Sento la voce più che vedere i caratteri stampati. E forse è questa coscienza della diffrazione, che fa da diga parziale al mio avvicinamento al tuo Sogno di Pasifae.

Davide, Vilnius 26/08/18


Caro Davide,

Dal momento che sul primo punto ci troviamo d’accordo e che sul secondo, trattandosi di distanza di gusto, non ho nulla da dire, passo al terzo. Non sono sicuro di avere invocato un rispecchiamento tra autore e personaggio, tra me e Pasifae: ho scritto semmai che quello che ho fatto dire a Pasifae è necessario per me, ma il lettore questo non lo sa e, in teoria, non può saperlo. Semmai, trovo che sia l’oggetto del discorso di Pasifae (il desiderio, il suo incistarsi, e così via) a rendere quel discorso fruibile e condivisibile trasversalmente. Io non chiedo a nessuno di cercarmi in Pasifae, né ritengo di essere particolarmente importante, come entità biografica, alla comprensione del testo. La maschera di Pasifae è una maschera esattamente come lo è l’io delle mie altre poesie: solo, si tratta di una maschera con connotati biografico-mitologici ben precisi, a differenza dell’io lirico, ma questo non rende il tutto un’impostura maggiore o minore; si limita solo a rendere più evidente il carattere di artificio (inteso come artifizio, ma anche come fuoco d’artificio, si capisce) dello scrivere versi.

MM, Padova 26/08/18