Le storie vengono da un luogo lontano, dove eravamo già stati.

 

Iniziare una recensione su Il professore di Viggiù, ultima fatica di Aldo Nove, con un verso di Milo de Angelis può apparire un gesto fuori luogo, ma non è così. Inizio da queste parole non solo perché il poeta meneghino viene citato due volte in questo romanzo ma perché credo che intorno a questi versi si possa basare la lettura del romanzo. Il legame con Milo de Angelis è evidente anche nella postfazione che Nove fa a Millimetri:

Quando ho aperto per la prima volta Millimetri mi si è spalancato un mondo incomprensibile, ma di quel mondo avevo memoria. Ero un neonato che si guardava attorno. C’era solo il dovere arcaico di entrare in quel mondo, così come per ogni neonato. Avevo sedici anni ed è stata l’esperienza più forte che la poesia mi ha regalato. Leggevo quelle parole oscure ma necessarie ad alta voce sul pullman, al mattino presto, andando al liceo. Altri ragazzi ascoltavano. Alcuni ridevano, altri scuotevano la testa, qualcuno restava ammutolito. Poi c’era chi ripeteva i versi che leggevo, diceva che erano pazzeschi, che la poesia è una cosa pazzesca.

Aldo Nove, ricordando di quando ancora era un giovane Antonio Centanin sui pullman del varesino, utilizza infatti alcuni termini che dopo circa 30 anni – su per giù – da quella lettura risultano utili per comprendere qualcosa in più di lui oggi.

Con Il professore di Viggiù, romanzo edito da Bompiani lo scorso maggio, torniamo nella provincia di Varese, a Viggiù per l’appunto, che è «casualmente il luogo dove anche io sono nato». L’io che parla è quello di Aldo Nove, di nuovo nella provincia, che sia realtà o finzione (forse) poco cambia; il soggetto si colloca infatti sul confine tra queste due dimensioni portando con sé i tratti della persona reale. Non si può non considerare infatti molto vicina all’autore una dichiarazione come «continuano a considerarmi uno scrittore “cannibale”, cosa che è quanto di più lontano da me possa essere». L’Aldo Nove che troviamo in queste pagine è lontano da quello di Superwoobinda, ma ne mantiene l’abilità di sospendere la narrazione tra l’illusione e il saggio antropologico. Non è nemmeno quello della Vita Oscena, ma conserva, nell’unità del nome, i tratti di un io-critico e provocatorio nei confronti del mondo. Si potrebbero piuttosto leggere in filigrana alcune pagine di Anteprima mondiale, lo stesso sguardo disincantato e ironico sull’oggi, simili gli slanci distopici.

Per quanto il titolo ponga l’attenzione sul Professore, è proprio Nove a inventarsi come personaggio all’interno del racconto, figura che si autodefinisce:

centro di una sorta di moto interiore del pianeta e della sua coscienza (non saprei come meglio definire lo stato dei fatti) tanto veloce quanto prossimo alle rivelazioni lasciatemi, tramite Matteo, dal Professore. Mi sentivo insomma investito di una sorta di missione.

Siamo così portati agli altri personaggi nel primo livello diegetico: la provincia. A fianco di Aldo Nove troviamo il suo amico di infanzia Matteo cui spetta il compito di trascrivere su un taccuino gli esiti degli incontri con il Professore, contenenti le sue teorie sul mondo, i suoi consigli, le sue memorie.

Del tutto appartenente a questo mondo è Matteo, il discepolo del Professore, che funge da contraltare al colto Nove. È il personaggio-specchio del lettore, egli viene infatti definito dal Professore: il «Prescelto […] come ciascuno di noi» e non a caso figura fuori luogo all’interno delle varie discussioni, bonariamente ignorato in quanto portatore di uno sguardo comune, ristretto, dal quale il Professore tenta di rimuoverlo. Eppure già si intuiscono i piccoli cambiamenti registrati dallo sguardo delle figlie che lo scoprono più sereno, più maturo, più “padre”.

Più difficile l’identificazione con il Professore, anzi esplicitamente impossibile in quanto «Il Professore era lo straniero. Uno straniero gentile e un custode di più profondi segreti. Il Professore era l’Altro». Inizialmente di lui «si sa tutto e niente», poi a poco a poco si delineano i tratti del centro intorno a cui ruota la narrazione: nato nel 1932 in Germania fu portato dal padre ebreo e italiano in India dove visse per vent’anni. Una vita vissuta da sempre «come una battaglia», ma inadatta alla lotta politica così come a quella accademica, ambiti che richiedono inevitabilmente compromessi cui non è disposto a cedere perché «quello che aveva conosciuto non gli era piaciuto», ma la sua ricerca continuava, perché «il mondo quello vero continuava a interessargli, sempre di più lo interessava, e voleva capire meglio». Questa figura è centrale non solo perché posto nel mezzo del sistema dei personaggi che senza di lui perderebbero un raccordo tra loro, ma piuttosto in quanto effettiva forza centripeta dell’ordito narrativo. Ritroviamo il Professore a una sorta di rush finale, unico attore in grado di muoversi tra i diversi livelli diegetici, tutti più o meno esplicitamente tendenti a questo scontro finale.

Aldo Nove, Matteo e il Professore si muovono anzitutto in questo mondo ristretto del varesino, un primo cronotopo apparentemente pacifico: ma è da qui che «tutto sta cambiando».

 

Ahi serva Italia

La tensione che soggiace alla narrazione si manifesta anzitutto nell’attacco critico e violento nei confronti del mondo contemporaneo, che è, come si diceva, leitmotiv dell’opera di Nove, il quale utilizza elementi danteschi nel dialogo con Matteo, appassionato della poesia del Sommo Poeta:

Noi rifiutiamo con tutte le nostre forze il Paradiso! Perché abbiamo deciso di restare in questa parodia di qui. In questa specie di mondo che è l’infernale purgatorio, squilibratissimo purgatorio del cavolo in cui abitiamo […] Abbiamo scritto, su quel patto, che l’inferno è il purgatorio, e il purgatorio è l’inferno. Così che non ci sia alcuna remissione. Ma solo colpa.

Il tempo dell’opera è infatti un eterno presente di monotonia, e le connotazioni di chi lo abita sono tutte legate al campo semantico della morte: nel 2012 siamo ormai vicini allo stadio terminale del mondo così come viene conosciuto, e chi lo abita sono «i morti che avvertono questa parodia di terra in cui viviamo» o «i supermorti che si raccontano a vicenda di essere al massimo della loro vita».

Secondo alcuni storici il Purgatorio è un’invenzione della Chiesa medioevale che nel XII-XIII secolo volle aumentare il proprio potere, oltre che con la pratica delle indulgenze; lo storico Jacques Le Goff afferma ad esempio che «il Purgatorio ha rinforzato la struttura ecclesiastica che così, oltre che dei vivi, è responsabile in parte anche dei morti».

E non è a caso che il romanzo si collochi proprio in uno spazio purgatoriale d’immobilità, forse memore di quell’origine storicamente economica, dal momento che il vero demiurgo delle magnifiche sorti e progressive è «la religione paranoica e mostruosa che superando le religioni storiche ha creato la nostra condizione di morti inediti: l’Economia». È questo il fantasma che aleggia in ogni pagina del romanzo di Nove, questo il cappio di ogni paradossale esistenza, paradossale perché per suo merito non esiste più nulla e nessuno, perso com’è nella moltitudine ironica dei giochi della Finanza. Allo stesso tempo però questo ordine economico si sta sgretolando: non esistono i numeri da cui dipendono le vite di continenti, nazioni, persone, come marionette giostrate da nessuno. In tal modo la critica ai sistemi economici e bancari odierni viene ricollocata al livello dell’esistenza dei personaggi: il mondo governato dall’economia è un mondo ultimamente vuoto.

L’uomo, perso lo statuto di Essere (e quindi di Bene) è diventato uno dei beni tra gli altri beni, una roba, e dunque un prodotto sullo scaffale di un supermercato metafisico, in attesa di essere comprato nelle fluttuazioni dell’agghiacciante, spietata unica religione attuale.

Questo permette a Nove di porre un’equazione «talmente banale che nessuno sarebbe stato disposto ad accettarla»: che l’esistenza è vuota se svuotata di significato e l’uomo non è solo confuso o disorientato, ma addirittura morto.

In questo quadro subentrano, come da una logica alternativa, eventi improvvisi a metà tra l’apocalisse e la resurrezione:

«Ultimo minuto. Dopo il confronto televisivo con Schulz, la cancelliera tedesca Angela Merkel è stata misteriosamente sbranata da un coccodrillo»;
«Ultima ora. Colpito il cuore del mondo civile. Un improvviso e inspiegabile assalto di migliaia di scoiattoli invade la sala delle contrattazioni della New York Stock Exchange»;
«Bufera e clamore sul mondo dei social. Il noto miliardario Gianluca Vacchi, diventato celebre per i suoi video in cui è felice, ha subito l’attacco di un orso polare mentre ballava con un drink in mano sulla sua piscina. Illeso»;
«Un canguro dichiara sciolta l’Unione Europea. Inutili le iniziali proteste dei rappresentanti dei membri del collegio dei commissari che, dopo avere incredibilmente accettato la sostituzione del presidente della commissione Jean-Claude Juncker con l’esotico animale, ha votato all’unanimità il provvedimento».

A questo livello si gioca anche quella che ritengo essere la più divertente e divertita scrittura di Nove. Affiorano qui tracce delle pagine di Superwoobinda in cui per criticare la società dei consumi con i suoi miti e le sue ideologie Nove si insediava al suo interno, facendo dire a un ragazzo «Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal. […] ma io uso Vidal e voglio che tutti in casa usino Vidal» in pagine stringate e dense, come una notizia di TGCOM24.

Nel Professore di Viggiù, Aldo Nove (autore) torna a giocare in trasferta e porta con sé Angela Merkel, Gianluca Vacchi, Junker, Tsipras e Trump; l’impianto strutturale dell’intreccio narrativo è ora però più vasto e complesso: a permettere queste infiltrazioni entropiche non è solo la volontà autoriale di svelare i lati paradossali del mondo in cui viviamo, piuttosto una sorta di necessità, che accompagna la riflessione sul tempo, la riflessione filosofica e anche quella sullo statuto delle narrazioni.

Un primo aspetto da mettere in luce è il fatto che l’autore non ceda al frammentismo, ma unisca la narrazione in un unicum. In questo senso, questa serie di catastrofici eventi che vedono il frammentarsi di istituzioni nazionali, continentali e mondiali per mano di improbabili personaggi mitologici o animali non è considerabile solo in quanto sfondo fantastorico della vicenda principale, ma ha piuttosto i requisiti per essere considerato come un ulteriore livello della narrazione, inscindibile dal primo. Anche in questa dimensione, infatti, e in modo molto più esplicito, si legge l’idea di uno scontro finale, proprio per l’aria apocalittica che vi aleggia. Anche a questo livello torna quindi l’idea di una esistenza radicalmente messa in discussione proprio perché svuotata. Si può così comprendere perché la storia dell’umanità sia una storia «che come ogni storia non è facile da abbandonare». La storia del singolo uomo, così come la storia universale dell’umanità, risultano narrazioni che hanno perso la propria coerenza e coesione, la propria credibilità. L’importanza dell’aspetto narrativo viene anche sottolineata con alcuni accenni metaletterari: «un romanzo è una storia. Una storia è una successione di fatti che hanno un inizio e una fine. Le migliori sono quelle a cui riusciamo a dare un senso».

Tuttavia, questa dimensione non ha il sapore ironico e metafinzionale del postmoderno, ma è indirizzata a porre una equivalenza tra storia, esistenza e significato:

Non sto parlando di nessun romanzo scritto, né di una storia universale. Ma della storia che ognuno di noi si fa, e che è il suo romanzo speciale. […] Tu, adesso, sei la prima e l’ultima pagina dell’intero Romanzo dell’Universo. Questo è il solo mistero.

Se viene meno il significato della storia viene meno il valore stesso, l’esistenza stessa dei personaggi.

  

E ‘l pensamento in sogno trasmutai

A questo punto si attiva il terzo livello diegetico: di fronte al crollo del mondo conosciuto, il campo di battaglia su cui il Professore combatte appartiene inevitabilmente a un’altra dimensione. La realtà per come era stata conosciuta non ha più senso e quindi, in quanto narrazione, non ha più senso di esistere. Per adempiere dunque – come si diceva all’inizio – al «dovere arcaico di entrare in quel mondo, così come per ogni neonato», il terzo livello della narrazione è uno spazio altro, il sogno:

sogno e realtà, lo sappiamo, si confondono che è un piacere, oppure una profonda disgrazia, ma si confondono: e spesso uno risponde alla chiamata in appello dell’altro, come due gemelli scemi o che hanno una gran voglia di giocare.

Il Professore sfrutta proprio questa assenza di confine tra sogno e realtà per poter agire attraverso il primo sulla seconda. Per questo, e dovendo coinvolgere anche gli altri personaggi, ne definisce anzitutto lo statuto: il sogno «non è il paese dove si annebbia la spina intelligente e nemmeno il massimo materiale in cui frugare per interpretare i vostri problemi psicologici o per giocare i numeri del lotto, e quindi per fare soldi»; il sogno si colloca nel punto sublime e gnomico della generazione di un mondo: «una frazione di secondo è molto più di quello che serve per generare un mondo. Il tempo indeterminato e brevissimo che a un’energia ormai del tutto dimenticata da noi uomini “evoluti” è necessario per creare universi».

È in questa frazione di secondo che il lettore viene trasportato: la misteriosa unione dell’io con il Tutto, che sgrava l’io contemporaneo dai fantasmi di successo, soldi e visibilità e gli ricorda che si è dimenticato di essere creatura nel mondo: «Coscienza del sacro. Parola oggi non più di moda, anzi: letteralmente vietata. Tabù».

Si riacquistano così, in questa terza dimensione, i tratti che permettono di sostenere l’esistenza della realtà, è qui che si riabilita la possibilità di dire io, di esistere:

Perché “venire al mondo”, come si dice, è davvero entrare da una porta secondaria in una storia complessa in cui già da tempo accadono tante cose, troppe, e per un istante tu, proprio tu, ne sei l’evento principale. Quello è il momento di massima ebbrezza. Quello è il momento nostro di massima libertà e schiavitù. Quando ciascuno diventa “io”. Ma poi passiamo sempre a essere comprimario, poi a una sorta di granello di sabbia di una spiaggia vivente e alla fine arriva il mare e ti travolge.

L’abbandono non egoistico dell’io a tale coscienza cosmica è impossibile da definire, si può solo denunciare l’importanza del tentativo di farlo, di quanto sia ostinatamente umano provarci: «“magico” come la Teoria che tutto unifica, e che Dante chiamava Amore»; ma di quanto al contempo sia naturalmente umano accedervi: la stessa forza «che si comunicarono con un abbraccio».

Aldo Nove, oscillando fra sogno e realtà, fra l’apocalisse e la preistoria ci richiama al dovere arcaico di entrare nel mondo, attingendo agli strumenti che più sono consoni a questo compito e rifiutando quelli che sembrano adatti per una acritica eredità borghese. Non è però uno sforzo elitario, ma parte piuttosto dalla constatazione che la risposta c’è già, e bisogna solo mettersi nel posto giusto per guardarla.


il professoreAldo Nove, Il professore di Viggiù, Bompiani, Milano 2018, 192 pp. 17,00€