Bruno Tertrais, coautore dell’Atlante delle frontiere, e Franco Farinelli hanno discusso ieri intorno al significato delle frontiere al Festivaletteratura di Mantova 2018.


Oggigiorno le frontiere sono continuamente evocate giocando sulla prossimità concettuale con le barriere, i muri, i reticolati, le sentinelle, la sicurezza e l’identità nazionale – un gioco inconsapevole del fatto che il significato di frontiera è più radicato nell’immaginazione che nella realtà materiale del mondo.

Infatti, almeno a partire da Kant, la filosofia ha individuato una distinzione netta fra limite e barriera. È infatti un topos – poi ampiamente rielaborato dall’idealismo tedesco – chiarito distintamente nei Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza (1783): Grenze significa limite e Schranke, invece, significa confine o, meglio, barriera. Al riguardo, il seguente passo di Kant è esemplificativo:

I limiti (Grenzen) presuppongono sempre uno spazio, che si trova fuori di un certo determinato luogo e lo racchiude; i confini (Schranken) non han bisogno di ciò, ma sono semplici negazioni che affettano una grandezza, in quanto non ha completezza assoluta.

La nostra ragione vede, per coì dire, intorno a sé uno spazio per la conoscenza delle cose in sé, sebbene non possa mai averne concetti determinati e sia confinata soltanto entro i fenomeni. […] Possiamo adesso anche determinare i limiti della ragione pura; giacché in tutti i limiti vi è anche qualcosa di positivo, […] all’opposto i confini contengono semplici negazioni.

Nell traduzione italiana questa duplicità di significati tende a perdersi, tuttavia si può riassumere il pensiero di Kant sostenendo che la ragione si può spingere fino ai propri limiti per intravedere oltre di essi un orizzonte possibile seppur sconosciuto e pieno di incomprensioni. Quali proprietà o caratteristiche abbia ciò che si trova al di là di tali confini non è dato saperlo tramite l’uso di concetti determinati. La barriera invece preclude ogni sconfinamento, poiché respinge completamente la presenza di uno spazio in cui sconfinare: per questo è solo una negazione.

Tenendo ferma questa distinzione concettuale è possibile comprendere in modo più articolato il concetto di frontiera, intesa non solo come linea o spazio fra gruppi umani, ma anche come «storia inscritta nella geografia». L’Atlante delle frontiere pubblicato da Add restituisce in modo intuitivo esattamente la struttura concettuale dell’idea di frontiera, aggiungendovi un elemento fondamentale di cui Kant non teneva conto: la storia. Anzi, le storie.

Le storie, al plurale, perché tramite l’Atlante, grazie alle infografiche curatissime, alle belle illustrazioni e ai testi che le accompagnano, si accede in modo non banale alla complessità del disordine mondiale relativo alle frontiere: intorno ad esse, infatti, si intersecano storie complesse, gomitoli di vicende che dal passato si proiettano nell’incertezza del futuro, ma anche stazionamenti impigriti intorno a nodi irrisolti.

Sia mostrandone l’evoluzione diacronica sia mettendone in evidenza la struttura sincronica, l’Atlante offre una stratigrafia dei confini: come su lucidi trasparenti, le molteplici forme delle frontiere si sovrappongono, determinando sotto diversi aspetti uno stesso Paese o popolazione, a volta anche in modi divergenti.

Siano essi naturali, culturali, fisici, religiosi, militari, etnici, i tracciati dei confini, pur tentando di limitare e regolare i rapporti fra Stati, civiltà e persone, generano e sono generati dalle storie dei loro continui incroci: raccontano storie evolutive di rapporti complessi, di identità in contrasto che nascono e spariscono. Anche quando diventano barriere invalicabili – con tanto di sistemi di sicurezza e controlli costanti – la negazione dell’altro che esse rappresentano non può fare a meno di esprimere una coalescenza di sentimenti contrastanti.

Il caso dell’Unione europea non è diverso da molti altri, ma ci riguarda più da vicino. L’integrazione europea è una storia vincente di superamenti di limiti culturali, tanto da aver ormai posto da tempo anche il problema dei suoi limiti geografici. Al riguardo, non c’è saggio che non rifletta su quale debba o possa essere la vera forma dell’Europa, domandandosi oltre quale limite non possa spingersi: in genere si finisce con un nulla di fatto oppure con riflessioni sulla natura ideale e universale della cara vecchia Europa, per timore di pronunciare una parola: identità. Un termine capace di attirare su di sé l’avversità e le minacce di opposte fazioni: di coloro che precludono ogni discussione sul tema perché le ritengono un attacco ad una presunta identità definitiva e di coloro che, invece, non ne vogliono sentir parlare in nome delle alterità contrarie alla supremazia opprimente dell’uno. In altri termini, da una parte ci sono coloro che, alzando gli scudi e le croci, predicano la difesa di favolistiche identità nazionali (quella europea viene dopo, forse) a tutti i costi, dall’altra quelli che predicano la morte delle distinzioni in nome delle non-identità liquide e onnipresenti.

L’incapacità dell’Unione europea di darsi dei confini riconoscibili è un elemento che partecipa attivamente alla riaccensione dei focolai nazionalisti se non, addirittura, al riaffacciarsi di quanti tornerebbero volentieri allo scontro fra patrie rimuovendo l’impaccio delle frontiere, in favore delle barriere. Un tema troppo grande e importante, diluito nella terribile e angosciante cronaca quotidiana, che è impossibile inquadrare in poche battute senza essere superficiali.

Allora può venire in soccorso il breve e provocatorio saggio di Regis Debray, Elogio delle frontiere (sempre Add Editore), secondo il quale l’Europa non osa darsi dei confini netti proprio perché si ostina ad essere un progetto aperto e universalistico. Porre dei confini, infatti, significherebbe riconoscersi in un’identità distinta, diversa dall’altro che sta al di là di quei confini (e qui è da notare che dall’Atlante appare evidente come negli scaglioni temporali intorno all’800 d.C., al 1500 e al 1900 si sia perpetuato stabilmente e in varie forme, una sorta di limite religioso, culturale e politico fra Europa Occidentale ed Orientale).

In un mondo diventato globale, ormai «fuori dalla scala umana», e rappresentato dal tipo umano dell’«ipermnestico disorientato» – l’essere umano sopraffatto dalla mole di informazioni cui ha accesso -, per una sorta di contraccolpo paradossale, la realtà si impone rimettendo in primo piano le frontiere, piccole e grandi, fisiche e immateriali, sottili come reticolati e vaste come il mare. La realtà della storia si sente e senza il suo peso non si è in grado di porsi come identità in un oceano di altre identità, cioè non si è in grado di incontrare gli altri, se non si pone la distinzione fra io e altro, fra identità e alterità. Non si può conoscere l’altro se non si ha la minima idea di chi ci sia ad incontrarlo. La frontiera, sostiene Debray, è «buona per pensare, dal momento che tutti i riordini simbolici di un caos o di un rimescolamento passano ogni volta, in ogni campo, attraverso un gioco di contrapposizione».

Per questo le frontiere servono a conoscere sé stessi, «sono rimedi e veleno assieme», il «vaccino migliore contro la proliferazione dei muri» e delle barriere che rappresentano il rifiuto dell’altro e il disconoscimento di sé stessi.

Seguendo una sequenza di temi (frontiere ereditate, frontiere invisibili e in fiamme), l’Atlante avverte che le forme delle frontiere sono molteplici e che si manifestano tramite la geografia, la cultura, la politica ed anche attraverso qualche bizzarria.

Nel loro disegno si annidano orrori politici, increspature di storie accidentate, ma anche slogature concettuali – fino a quei casi bizzarri di enclave e contro-enclave presenti in Europa (fra Belgio e Olanda, o meglio, in Belgio e in Olanda) e in Asia (fra Bangladesh e India), che pongono in maniera curiosa un ozioso problema logico-filosofico: quando staccata dal tutto cui appartiene, la parte può ancora dirsi tale? Dimostrazioni implacabili e singolari che, nella definizione dei confini, l’accumulo di storie, per quanto piccole e irrazionali, conta e non si può fare finta di niente.

Tuttavia, le frontiere sono in larga misura risultati storici, frutto di contingenze in movimento che producono allo stesso tempo inclusione ed esclusione, dando così una forma concretissima alle illusioni e alle speranze, all’esperienza e ai desideri, alle paure e alle identità: a ciò che siamo e a ciò che crediamo di essere.

Insomma, senza un atlante delle frontiere, dei confini e delle barriere, ci perderemmo.


 

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Bruno Tertrais, Delphine Papin, Atlante delle frontiere. Muri, conflitti, migrazioni, trad. di Marco Aime, Add, Torino 2018, pp. 140 € 25,00