Da tempo ormai Jennifer Egan aveva abituato i lettori a un certo grado di sperimentazione formale nei suoi lavori. Magari non con soluzioni estreme – niente di paragonabile agli esperimenti di Foster Wallace, per intenderci, e nemmeno alle strategie narrative e iconiche di un certo Safran Foer, solo per dare alcune coordinate –, ma certamente la serie di tweets che compongono il breve The Black Box (2012) o le slide in Power Point di A Visit from the Goon Squad [Il tempo è un bastardo] (2010) hanno contribuito a far eleggere la Egan tra le voci più originali della letteratura contemporanea americana, facendole vincere il Pulitzer per la narrativa nel 2011. Sempre molto attenta al mondo contemporaneo dei social networks e alle ricadute e conseguenze spesso grottesche della cultura mediatica (Look At Me e, in parte, anche la raccolta Emerald City), l’autrice torna con un libro per lei insolito e, per certi versi, dalla veste un po’ più “classica”.

Manhattan Beach non ha la verve di Il tempo è un bastardo né l’impatto di The Black Box, ma ha senza dubbio ciò che fa di Jennifer Egan una grande scrittrice: una potente e ben calibrata struttura narrativa. Lo sfondo è quello della New York degli anni Trenta e Quaranta, della seconda guerra mondiale, delle navi che partono dai cantieri di Brooklyn e delle corazzate al largo del Pacifico, dell’attacco a Pearl Harbor e degli U-Boot tedeschi che affondavano le navi mercantili in appoggio agli alleati. La storia, invece, è quella di Anna Kerrigan, di suo padre Eddie, irlandese che si guadagna da vivere muovendosi in affari al limite tra il lecito e l’illecito, e della madre Agnes, ex ballerina che ha mollato tutto per accudire le figlie Anna e Lydia, la sorella paraplegica dalla nascita. Ogni volta che Eddie guarda Lydia sente il peso di un fallimento che fatica a sopportare e che lo porta a instaurare con Anna un legame speciale di cui la bimba va fiera, per quanto capisca inconsciamente lo squilibrio affettivo e l’ingiustizia insiti in quella scelta: «ogni volta che Anna passava dal mondo del padre a quello della madre e di Lydia, le sembrava di liberarsi da una vita a vantaggio di una più profonda».

Fin dalle prime pagine, nella vita della famiglia Kerrigan compaiono due figure destinate a svolgere un ruolo fondamentale: da una parte il gangster e proprietario di locali notturni Dexter Styles; dall’altra il mare infinito e cangiante che lambisce la costa e il porto di Brooklyn. A più riprese i due elementi s’intrecciano e segnano passaggi centrali nell’esistenza di tutti i personaggi, a partire dall’incontro posto all’inizio del libro tra la piccola Anna, il padre Eddie e Dexter Styles sulla spiaggia privata della villa di quest’ultimo:

Anna guardava il mare. Trovarsi sul bordo le dava una strana sensazione: un misto elettrico di attrazione e timore. Che cosa sarebbe successo se tutta quell’acqua fosse scomparsa all’improvviso? Un paesaggio di oggetti smarriti: navi affondate, tesori nascosti, oro, pietre preziose, il braccialetto con i ciondoli che le era caduto dal polso finendo dentro un tombino. “Cadaveri” aggiungeva sempre suo padre con una risata. Il mare, per lui, era una terra desolata.

Si dispongono gli elementi del thriller, del noir, del romanzo storico, ma anche di un certo immaginario cinematografico a metà tra Casablanca e C’era una volta in America, soprattutto per quel che riguarda la rappresentazione del mondo dei criminali. Inoltre, ormai da qualche anno, il periodo della seconda guerra mondiale è al centro dell’interesse di molti registi e sceneggiatori, basti pensare a film come Allies (2014) o ai più recenti Hacksaw Ridge (2016), Darkest Hour (2017) e Dunkirk (2017), oppure alla serie inglese The Halcyon (2017). Ma questa non è che la patina superficiale di un libro fatto di grandi sorprese e aperture su profondità abissali. Del resto, come afferma la stessa Egan in un’intervista: «il mare è una metafora potente, ma lo puoi toccare. Non è distante come lo spazio. È una massa amorfa regolata da leggi precise. E suggerisce sempre più di quello che si vede. Follow the water. Segui l’acqua» [in D – La Repubblica, 3 marzo 2018]. E questo è esattamente ciò che succede nel libro, tutti i personaggi seguono l’acqua – ne sono attratti irrimediabilmente –, chi parte per arruolarsi in marina, chi si imbarca per sfuggire da se stesso e chi invece annega o si perde. Poi c’è Anna che, innamorata del mare, comincia a lavorare ai cantieri di Brooklyn come saldatrice e, sfidando le convenzioni della società sessista dell’epoca, diventa la prima donna palombaro in grado di competere ad armi pari con ogni presunta superiorità maschile.

Così Egan porta a galla anche una parte di storia femminista e civile in cui il mondo sembrava improvvisamente essere diventato delle donne, poiché gli uomini erano tutti in guerra. Appena ci s’immerge al di sotto della superficie, quindi, il libro si rivela ricco di ricerche e ricostruzioni minuziose: sulle condizioni delle donne che lavoravano al “servizio della Guerra”, il cui ruolo è stato fondamentale tanto quanto quello dei soldati inviati sulle navi; sul gergo e sull’ambiente dei criminali che orbitavano attorno ai porti; sui traffici illeciti della malavita e dei locali notturni della città dopo il proibizionismo… Tutti riferimenti ampiamente documentati nelle quattro pagine di ringraziamenti che corredano il romanzo. Insomma, esattamente come in mare, anche in Manhattan Beach esistono diversi livelli di profondità e l’andamento narrativo segue esattamente il movimento delle onde, quelle che coprono e si ritirano ritmicamente dal bagnasciuga così come quelle che in mare aperto si spalancano sugli abissi. Proprio in questi fondali, in queste profondità oscure, si muove Anna, sentendosi perfettamente a suo agio nello scafandro da palombaro che le vale il rispetto dei colleghi e l’ammirazione delle colleghe, lontano dalle falsità e dalle convenzioni della vita in superficie. In quelle profondità, però, si nascondono anche i suoi segreti, le sue paure e speranze difficili da rivelare.

Anche le otto parti che compongono il libro seguono l’andamento sinusoidale e altalenante che percorre la narrazione, ma nei titoli l’accento è posto soprattutto sulla vista: La spiaggia, Il mondo delle ombre, Ammira il mare, Il buio, Il viaggio, L’immersione, Il mare, il mare e La nebbia. L’alternanza buio/luce o luce/ombra prende vita all’interno degli intrecci e delle vicende che portano i personaggi a fare costantemente i conti con una forza che li trascina verso destini difficili a cui cercano – con risultati alterni – di opporsi. Nelle pagine di Manhattan Beach si riconosce un po’ di epica della guerra ma c’è soprattutto, forse in modo preponderante, la volontà di tracciare una parallela epica civile: quell’inspiegabile e dirompente resistere della vita a tutte le tragedie possibili. Ci sono personaggi deboli e forti – inutile dire da che parte stia Anna –, ma il confine non è mai troppo netto. E del resto, ancora una volta, si parla di mare; lo stesso mare rappresentato nella fotografia della bella copertina dell’edizione italiana, dove i colori distinti che creano una gradazione in superficie si perdono e si confondono nelle profondità, in quel «primordiale buio degli incubi, che copriva segreti troppo atroci per essere esposti». Laggiù tutto è possibile, qualcuno scompare e poi ricompare; è un luogo di epifanie, di rivelazioni e di fluorescenze che si sprigionano dal fondo e lasciano intravedere delle verità che restano sospese.

A seguire l’acqua però non sono soltanto i personaggi e le immagini ma anche la struttura temporale che, senza raggiungere la complessa architettura di Il tempo è un bastardo, riserva comunque sorprese interessanti. La narrazione si dipana tra presente e passato, muovendosi tra ricordi, flashback e ricostruzioni dell’esistenza dei personaggi di Anna, Eddie e Dexter. Proprio come lo scafo di una nave solca la superficie del mare e apre sempre almeno due linee che si allargano e divergono fino a essere riassorbite e disperse nuovamente nell’immensa distesa d’acqua, anche la scrittura di Egan porta le storie dei suoi personaggi a separarsi per poi re-intrecciarsi in modo al contempo inatteso e necessario. Il sibillino Follow the water! assume così i tratti dell’estasiato «Ammira il mare!» che Anna grida a Lydia la prima volta che la porta sulla spiaggia, per condividere con lei la purezza di un’emozione.

Infine, nella sua storia di mare, Egan rende omaggio anche ai grandi modelli del passato, riprendendo alcuni elementi delle atmosfere apocalittiche di Melville o delle avventure raccontate da Stevenson, fino ai dissidi e alle profonde indagini sull’animo umano che si trovano nel Conrad di Cuore di tenebra e Linea d’ombra. Si concede persino l’apparizione di un albatros dopo un naufragio, anche se sembra più una trovata divertita e compiaciuta che simbolica. Ad ogni modo, il mare, le navi e i porti descritti in Manhattan Beach diventano dei luoghi iniziatici per molti dei personaggi, i centri misteriosi in cui affrontare se stessi senza le maschere sociali: in mare – e sotto il mare – vigono altre leggi, e ognuno è solo di fronte a sé. Non è però una storia di redenzione o riscatto ma soltanto uno spaccato di vita che si apre e si chiude sullo sfondo di un periodo tanto difficile quanto affascinante. Parlare di allora per parlare di oggi, certo; ma Egan non trae una morale e non erge i suoi eroi – e la sua eroina – a paladini, difensori e simboli di battaglie di qualche tipo: semplicemente lascia che le loro storie si disperdano nuovamente nella nebbia di tempo che le ha generate, sempre in attesa di una nuova lettura che ne delinei il profilo e ne faccia rivivere ancora una volta le profondità.


 

manhattan beachJennifer Egan, Manhattan Beach, trad. di Giovanna Granato, Mondadori, Milano 2017, pp. 510 € 22,00