Continua la pubblicazione della serie di articoli dedicati all’esperienza delle giornate poetiche padovane “Convergenze”, tenutesi lo scorso giugno e organizzate in collaborazione con il CEST (Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari) di Padova.


 

La più invalsa tra le partizioni della scena poetica italiana, messa a punto in sede critico-storiografica, è quella che tripartisce il campo distinguendo un’area lirica, un’area di esperienze afferenti in vario modo all’oralità, e un’area di scritture e pratiche testuali anomale e degenerizzanti identificate come “di ricerca”. Tale partizione presuppone una riconoscibilità di base e una pacificità di attribuzione che, al di fuori delle semplificazioni utili a certe sistemazioni manualistiche, non cessano di collassare a contatto con la materialità delle scritture, con il loro funzionamento e statuto concreto.

A partire da queste premesse, ritengo necessario innanzitutto smantellare la rappresentazione fin troppo diffusa che presenta l’area delle “scritture di ricerca” come una singolarità compatta e omogenea, di stretta filiazione avanguardista, distinta da caratteri come ipoassertività, ironia, eccesso procedurale, freddezza e soprattutto da un’avversione furente per la lirica, l’io, e quel grado anche minimo di spettacolarizzazione implicito nelle pratiche spiccatamente performative. Abbiamo a che fare piuttosto con una moltitudine, una pluralità di scritture e pratiche differenziate, spesso conflittuali e polemiche tra loro, che viene immobilmente contrapposta a un’identità della lirica in egual modo spacciata come uniforme e statica. Indice di un approccio alternativo, che trovo significativo anche perché raramente espresso da qualcuno che non sia un militante delle cosiddette “scritture di ricerca”, è invece un saggio recente di Fabrizio Maria Spinelli, Verso uno spazio antilirico della lirica[1]. Aggirando la posizione di Guido Mazzoni, che nel suo La lirica moderna[2] pone al centro del campo poetico la lirica di matrice espressivista e relega in una periferia tutte le esperienze a questa non conformi, Spinelli ricorda prima di tutto che la lirica è un concetto storico, quindi mutabile, e non un’invariante metastorica fissa; in secondo luogo, sottolinea la necessità di liquidare il feticcio romantico dell’autoespressione, il mito dell’interiorità e una concezione della lirica come intensità emotiva, monolinguismo, antinarratività, trascendenza. Nel farlo porta come esempio, tra gli altri, un libro di Claudia Rankine, recentemente tradotto in Italia: Citizen. An american lyric[3], testo paradigmatico dello statuto metamorfico del lirico, ossia testo in cui l’idea tradizionale e dominante di lirica viene riformulata per contaminazione col memoir, con il saggismo socio-politico, con la fotografia. Allo stesso modo si potrebbe parlare di interferenze liriche all’interno dell’area di ricerca, un fenomeno tanto interessante quanto taciuto. Infatti ogni volta che si citano le “scritture di ricerca”, o antologie rappresentative e seminali come Prosa in prosa ed EX.IT 2013 – Materiali fuori contesto, si omettono sistematicamente alcuni testi, e alcuni autori, perché farebbero problema, sbriciolerebbero le categorie già incerte per mezzo delle quali si cerca di rendere intellegibile l’esistenza stessa di qualcosa come un’area di scritture di ricerca. Penso alla produzione di Andrea Raos, Daniele Bellomi, Fiammetta Cirilli, Luigi Severi, Manuel Micaletto, Alessandra Cava, Renata Morresi, Vincenzo Ostuni, Mariasole Ariot, ma anche a una parte di quella di Fabio Teti e Marco Giovenale. Proprio in merito alla scrittura di Raos, Andrea Inglese aveva coniato la definizione di lirismo geneticamente modificato[4] per metterne in risalto la dinamicità, l’ibridazione, quella qualità metamorfica nemica di ogni irreggimentazione che complica di molto la ripartizione lirico/antilirico.

Ora, cosa succede se dentro l’antilirica c’è la lirica e viceversa? Cosa succede se all’interno della pratica di uno stesso autore possono coesistere e amalgamarsi esperienze differenti? Dovremmo forse accettare che ci muoviamo in uno spazio letterario composito riluttante a una sistemazione per macro-categorie. Questo non significa arrendersi a un ecumenismo anch’esso superficiale, persino deprimente, né ignorare i conflitti reali, non necessariamente pregiudiziali, ma legati semmai ai presupposti filosofico-politici delle pratiche artistiche e alle conseguenze anche pragmatiche di questi. Proprio questo tipo di conflitto politico e filosofico ho analizzato nel mio saggio Per impotenza di lettura[5], cui rimando.

Ora, lo statuto anomalo di alcune scritture non risiede tanto nell’indifferenziazione tra verso e prosa, nella presenza di un’intonazione ironica o distaccata, o ancora nel paradigma dell’anassertività[6]. La loro anomalia risiede nel modo di formulare problemi e attivare procedure che, proprio a partire dal rifiuto dei presupposti espressivisti e artigianali di tanta tradizione poetica, impongono una riconcettualizzazione della scrittura, e il conseguente aggiornamento filosofico della critica letteraria, che forse anche per questo ha preferito migrare verso il territorio più confortevole e saldo del romanzo contemporaneo.

Partendo dal presupposto che ogni opera d’arte è inevitabilmente comunicativa ed espressiva, perché ci dice qualcosa, laddove il dire è però inteso, à la Wittgenstein, come mostrare, presentare, proporre, si sostituisce così alla volontà di dire e rappresentare, l’intenzione di mostrare e condividere. Un problema che Gherardo Bortolotti ha messo a fuoco in modo preciso in un saggio[7] sulla scrittura di Michele Zaffarano, ma che a mio avviso si può estendere alle produzioni di numerosi altri autori. Qui Bortolotti segnala un’ideologia annosa e pervicace, che presenta la scrittura come la sede dell’espressione di una volontà di dire che ha origine nella mente dell’autore. All’origine di questa volontà identifica due spinte complementari e simmetriche: la rappresentazione del mondo e l’espressione della propria esperienza. La lettura di un testo, secondo queste premesse, si muove in direzione di una decodifica di ciò che è scritto per scoprirvi l’intenzione dell’autore, il suo messaggio.

Bortolotti solleva una questione non nuova. Intenzione e autore sono stati, negli anni Sessanta, il teatro dello scontro tra la teoria accademica e la nouvelle critique. Nel 1968 Barthes pubblica un articolo dal titolo antiumanista La morte dell’autore, nel quale, come Bortolotti, denuncia il criterio accademico tradizionale che spiega «l’opera sul versante di chi l’ha prodotta»[8]. Alla nozione di autore, nel senso di un soggetto psicologico come origine del senso del testo, Barthes sostituirà quella di linguaggio impersonale e neutro, o scrittura, il cui soggetto non le preesiste, producendosi al suo interno.

Sotto queste teorie si celano però due problemi: una visione ancora teleologico-metafisica, che sostituisce l’autore con il lettore come produttore del senso del testo; e soprattutto l’idea di una scrittura autonoma e neutrale, di uno scrittore come luogo passivo in cui il linguaggio entra e si manifesta, il che comporta un venir meno di quella responsabilità etico-politica che dovrebbe invece legare l’autore alla sua opera e alle sue scelte.

Foucault ha cercato di aggirare queste posizioni problematiche a partire dalla conferenza del 1969 intitolata Che cos’è un autore?, in cui sottopone a critica i rischi impliciti nelle posizioni espresse da Barthes (e Derrida):

Attribuire alla scrittura uno statuto originario non è forse un modo di ritradurre i termini trascendentali, da una parte l’affermazione teologica del suo carattere sacro e dall’altra l’affermazione critica del suo carattere creativo? Ammettere che la scrittura è in qualche modo, per via della storia stessa che essa ha reso possibile, sottoposta alla prova dell’oblio e della repressione, non equivale forse a rappresentare in termini trascendentali il principio religioso del significato nascosto (con la necessità di interpretare) e il principio critico dei significati impliciti, delle determinazioni silenziose, dei contenuti oscuri (con la necessità di commentare)? Infine, pensare la scrittura come assenza non è nient’altro che ripetere in termini trascendentali il principio religioso della tradizione, allo stesso tempo inalterabile e mai completamente adempiuta, e il principio estetico della sopravvivenza dell’opera, della sua conservazione al di là della morte e del suo eccesso di enigma nei confronti dell’autore.[9]

Per superare la concezione intransitiva e antireferenziale di Barthes, secondo cui la letteratura parla solo di se stessa e del linguaggio, Foucault adotta in luogo di linguaggio la nozione di discorso, sostenendo che i significati sono prodotti dai/dei discorsi, e non esistono al di fuori dei discorsi che li hanno generati, cioè esistono solo all’interno di un preciso contesto storico; e propone il concetto di funzione-autore per problematizzare quello di autore come individuo. «La funzione-autore non rinvia puramente e semplicemente a un individuo reale; può dar luogo simultaneamente a molti ego, a molte posizioni-soggetto che classi diverse di individui possono occupare»[10]. Non basta dire dunque che l’autore è scomparso, bisogna piuttosto «individuare lo spazio lasciato vuoto dall’autore scomparso, seguire con lo sguardo la ripartizione delle lacune e delle crepe e scrutare i luoghi e le funzioni liberi che tale scomparsa ha reso visibili»[11].

Forse è tempo di studiare i discorsi non più soltanto nel loro valore espressivo o nelle loro trasformazioni formali, ma nelle modalità della loro esistenza; […] porre piuttosto queste domande: come, secondo quali condizioni e sotto quali forme, qualcosa come un soggetto può apparire nell’ordine dei discorsi? Quale posto può occupare […] quale funzione esercitare ed obbedendo a quali regole? In breve si tratta di togliere al soggetto o al suo sostituto il suo ruolo di fondamento originario e di analizzarlo come una funzione variabile e complessa del discorso. L’autore o la funzione-autore è probabilmente solo una delle specificazioni possibili della funzione-soggetto.[12]

Tornando al saggio di Bortolotti, vi troviamo anche una serie decisiva di domande: «cosa succede quando l’autore non vuole dire niente? Cosa succede al testo? Cosa succede all’esperienza della lettura?». Ebbene, in questo tipo di testi vige «una relazione asintotica», una latenza tra testo e intenzione, tra scriptum e voluntas; la stessa struttura compositiva impedisce di recepire quello che l’autore voleva dire, di farne il punto del testo, esaurendolo, in sede di lettura, nell’estrapolazione di un messaggio; ne deriva una concezione del significato come al tempo stesso ineludibile e irresolubile, e l’invito a una lettura “carnale”, in primo luogo letterale del testo. Con una conseguenza fondamentale: al differimento del senso, che è altra cosa rispetto alla sua dissoluzione, corrisponde un differimento del soggetto: assieme al senso, il soggetto è preso in un movimento di continua riformulazione nel testo.

Bortolotti, tuttavia, fa coincidere nel suo saggio intenzione e volontà di dire. Scrive appunto che nei testi di Michele Zaffarano «l’intenzione non viene mai conseguita». Credo invece che sia esclusivamente la volontà di dire a risultare compromessa, e non l’intenzionalità, che appare invece pienamente conseguita come un’intenzionalità operativa, ostensiva, un’intenzionalità disposale, attiva nell’inceppare, differire, disseminare l’espressione di sé e la rappresentazione del mondo. Questa precisazione ha anch’essa conseguenze di non poco conto. Prima di tutto, si esperisce che il “non voler dire nulla” permette per contrasto di mostrare tantissime cose, e di attivare numerose soggettivazioni del testo e in seno al testo; in secondo luogo, tutela la presenza del soggetto intenzionale: la stessa arte concettuale, che ha non poco influenzato queste scritture, ci dimostra del resto come l’oggetto estetico possa fondarsi esclusivamente sull’intenzionalità, riformulando così la creazione estetica in un sistema di gesti, di azioni pensanti e usi significativi di materiali la cui origine può essere indifferente. L’esperienza di lettura che ne consegue non si riduce al godimento del significato o alla ricerca del messaggio nascosto, ma evolve in termini di pratica sperimentale, produttiva, che congiunge e disgiunge, che usa il testo, l’oggetto estetico, attivamente.

Quanto detto va di pari passo, dunque, con una teoria del soggetto che ha punti di contatto trasversali e che si lega a una lunga tradizione, purtroppo marginale (da Spinoza a Nietzsche, da Marx a Wittgenstein, da Bachtin a Simondon), che affronto in maniera più approfondita nel mio saggio già citato[13].

In questa sede preferisco riprendere Dewey, laddove critica un soggettivismo risalente all’Umanesimo[14] e che attraverso Cartesio esplode poi nel delirio dell’idealismo romantico fino a produrre l’ideologema dell’autoespressione, in seguito assorbito dall’individualismo capitalista e implementato nel suo costante ritornello imperativo: distinguiti, esprimiti, godi.

Come ha dettagliatamente analizzato Andrea Inglese nel suo brillante studio L’eroe segreto[15], in letteratura l’espressivismo comporta nella maggioranza dei casi la produzione della barriera solipsistica, un ostacolo che separa il soggetto dagli altri, dal mondo e dal linguaggio. Norbert Elias definisce questo tipo di soggetto homo clausus, un “io” senza “noi”, dove l’io autobiografico possiede un privilegio epistemologico e risulta al limite ingiudicabile. La lirica non risolve questo scontro tra io e altro, ma lo drammatizza, lo rinnova ritualmente, lo radicalizza. La riforma dei generi poetici avvenuta durante il romanticismo, ratificando l’identificazione tra poesia e lirica, ha radicalizzato i caratteri stessi della lirica esacerbandone la dimensione soggettiva e monologica, facendo dell’esperienza del soggetto individuale il contenuto principale del testo un’equivalente simbolico dell’estraneità dell’individuo al mondo.

Le scritture a vario titolo anomale, che sono lo sfondo concreto di queste riflessioni, rifiutano al contrario una visione unitaria e identitaria del soggetto, e mettono in campo, teatralizzano, mostrano un soggetto intermittente, complesso, poroso, spurio, eterodeterminato, in continua osmosi con l’altro, col contesto storico-ambientale transindividuale e in perenne lotta con le componenti preindividuali che lo precedono: l’anonimicità della percezione, l’impersonalità della lingua madre e l’appartenenza al general intellect, a un intelletto pubblico e comune[16].

Nell’ottica di Dewey il soggetto è infatti l’«agente di [una] nuova ricostruzione di un ordine pre-esistente», per cui «non è esatto né rilevante dire ‘io esperisco’ o ‘io penso’. ‘Si’ sperimenta o si è esperiti, ‘si’ pensa o si è pensati sono espressioni più appropriate»[17], ma soprattutto «dire in modo significativo ‘Io penso, credo, desidero, invece di limitarsi a dire ‘si pensa, crede, desidera’ significa accettare e dichiarare esplicitamente una responsabilità e avanzare una pretesa. Non significa che io sia l’origine o il creatore del pensiero o dell’affezione, né che l’io ne sia la sede esclusiva»[18].

Quanto visto sin ora vorrebbe individuare e ratificare un cambio di statuto epistemologico della figura dell’autore, che non rappresenta più l’origine del senso del testo, senza che si vada però a cadere nella teoria speculare del lettore come produttore sostitutivo di questo senso. Come ricorda Foucault, si tratta di togliere al soggetto, o al suo sostituto, il ruolo di fondamento originario e di analizzarlo invece come una funzione variabile e complessa del discorso. Si tratta di individuare lo spazio lasciato vuoto dalla volontà di dire e scrutare i luoghi e le funzioni che tale scomparsa ha reso visibili e usabili.

L’autore risulta in questo senso un mediatore, un bricoleur; volendo, anche, un postproduttore. I testi sono infatti già potenzialmente nel mondo, basta prelevarli, selezionarli, smontare e montare, costruire, trasformare. Il poeta postproduttore è attraversato, immerso, circondato dal simbolico, dal reale, dalla lingua, dall’intelletto pubblico, dai discorsi, dalle informazioni; osserva, rileva, seleziona, fa circolare un sapere, dei saperi. Non vuole dire ma mostrare, mettere in comune, sorpassando l’idea della produzione di un testo che si imponga come “forma verbale del vero” sotto il paradigma dell’autenticità. La scrittura come atto espressivo diventa un luogo di individuazione, di produzione di soggettività ed esperienze, di messa a punto di problemi, di costruzione di strumenti critici. Quindi non sembrerà una battuta affermare che alcune scritture non dicono “io” a causa di una vergogna o di una moda impersonale, ma perché dire “io” non è esatto o rilevante. Questo non significa abolire l’io, ma scegliere quale tipo di soggettività costruire e mettere in comune nella scrittura.

Quando le nozioni di funzionamento e di ostensione diventano più importanti di quella di rappresentazione, la scrittura guadagna in transitività: invece di aprire dei passaggi per un mondo noumenico, cerca di esportare delle conoscenze teorico-pratiche, di farsi strumento di analisi, intellegibilità e decrittazione dell’esistente, ossia uno strumento che permette di effettuare delle operazioni, di attivare forme di ragionamento, di ri-uso, invalidando, demistificando e sabotando la produzione di forme discorsive quali quelle messe in campo dall’industria culturale odierna. Scritture così concepite resteranno inevitabilmente ai margini del mercato ma questa è la loro forza, poiché è a partire da quei margini che è possibile produrre differenze qualitative e non quantitative, qualcosa che non sia copia dell’Uno, ripetizione e variazione della forma predatrice del bestseller romanzesco.


 

Note

[1] https://www.nazioneindiana.com/2018/03/23/verso-uno-spazio-antilirico-della-lirica/

[2] GUIDO MAZZONI, La lirica moderna, Il mulino, Bologna 2005.

[3] CLAUDIA RANKINE, Citizen. Una lirica americana, trad. it. di Silvia Bre e Isabella Ferretti, 66thand2nd, Roma 2017.

[4] ANDREA INGLESE, Un lirismo geneticamente modificato, https://puntocritico2.wordpress.com/2011/11/15/andrea-raos-un-lirismo-geneticamente-modificato/

[5] SIMONA MENICOCCI, Per impotenza di lettura. Soggetto e scritture nell’epoca del postfordismo, in PAOLO GIOVANNETTI, ANDREA INGLESE (a cura di), Teoria & Poesia, Biblion Edizioni, Milano 2018.

[6] Grossomodo esemplificabili nell’opera degli autori di Prosa in prosa (Le Lettere, Firenze 2009), dell’antologia-catalogo Ex.it 2013 (Tielleci, Colorno 2013), della collana Chapbooks di Arcipelago, e oggi Tic Edizioni, di Benway Series, del blog GAMMM, del laboratorio romano prove d’ascolto etc., ma non in essa esauribili.

[7] GHERARDO BORTOLOTTI, La meraviglia e la volontà di dire, https://www.nazioneindiana.com/2011/05/09/la-meraviglia-e-la-volonta-di-dire/

[8] ROLAND BARTHES, La morte dell’autore, in Id. Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino 1988, p.51.

[9] MICHEL FOUCAULT, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 1971, p. 6.

[10] Ibid., p.14.

[11] Ibid., p.7.

[12] Ibid., p.20.

[13] S. MENICOCCI, Per impotenza di lettura, cit.

[14] J. DEWEY, Esperienza e natura, cit., p. 159.

[15] A. INGLESE, L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità  dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature Comparate, Università di Cassino 2003.

[16] Per la questione rimando alle analisi contenute in PAOLO VIRNO, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, Roma 2002.

[17] J. DEWEY, Esperienza e natura, cit., p.175.

[18] Ibid.