L’editore Fazi comincia con questo volume la pubblicazione dei diari di Valentino Zeichen, a due anni dalla scomparsa del poeta-dandy romano di origine fiumana.

Non si capisce perché l’editore assurdamente sottotitoli ‘romanzo’ quella che è una pura sequenza di pagine diaristiche, quasi a dar ragione a quei critici che lamentano come il romanzo, artisticamente dato per morto e superato, sia però l’unico genere che vende in Italia. Si sospetta infatti che sia solo il marketing a imporre una tassonomia così comicamente grossolana: nel timore, non so quanto fondato, che il lettore italiano si tenga alla larga da qualsiasi prosa che non sia romanzesca (racconti, saggi, memorialistica)?

Ci si immagina la delicata perfidia con cui su questa fuorviante etichetta avrebbe ironizzato lo stesso Zeichen, che sotto la data del 27 ottobre 1999 annota:

“Dove sta il mio fallimento? Nel fatto che sono un poeta, anche stimato, ma povero. Se avessi avuto la costanza di sopportare una moglie noiosa e tiranna, ma capace di praticare l’editing sul romanzo, avrei potuto conquistarmi una notorietà che non ho. Pur non mancandomi la vena narrativa, ne ho scritto uno solo, perché non sopporto di avere una tutrice.”

Non solo non c’è nulla di romanzato o di romanzesco, dunque, ma neppure ci si aspetti d’addentrarsi in un oscuro e scandaloso journal intime farcito d’indicibili confessioni. Quasi tutte le pagine di questo diario hanno la misura del tweet, e anche la posa è già da social: sempre narciso anche quando pare registrare una quotidianità ottusa o squallida, sempre alla ricerca del fulmen epigrammatico, il poeta resta accortamente entro i limiti di un’ironia brillante e vagamente superficiale sistematicamente applicata alle vicende del giorno, consapevole dello sguardo del lettore futuro. Così, Zeichen (classe 1938) sembra anticipare – forse più per indole che per virtù profetica – l’odierna era del narcisismo di massa e della compulsione meccanica alla battuta.

In definitiva, lo Zeichen degli aneddoti diaristici non appare tanto differente da quello delle raccolte di versi: fascino e limiti sono i medesimi, comune è la misura, e poca differenza fa l’andata a capo, che in questo poeta è sempre scandita dalle articolazioni del concetto, più che da necessità ritmico-metriche. Queste pagine non dovrebbero perciò deludere gli estimatori della sua opera, e consentono anzi di entrare nel laboratorio dell’autore. Si vede come da un lato Zeichen provi a mettere in versi la minuta aneddotica quotidiana (spesso rielaborando poeticamente l’indomani una riflessione offerta dapprima in oratio soluta), dall’altro offra anche in prosa quelle gustose agudezas che restano il suo marchio di fabbrica e la principale attrattiva della sua scrittura (“ho notato che il mappamondo acceso fumava. Una lampadina troppo forte ha surriscaldato e bucato l’oceano Indiano”; “Siccome la scatola dei rullini fotografici di Mireille sta in frigorifero nello scomparto dei dadi da brodo, ho corso il rischio di fare un brodo di pellicola”; “Sono almeno due settimane che non mi arriva la posta, e così le vespe continuano a imbucarsi nella mia cassetta, neanche fossero lettere”).

La dimensione quotidiana e micrologica è rotta da occasionali attriti con il vasto mondo e i suoi sommovimenti: la visita, con una delegazione di scrittori, a una Cina ormai post-comunista sguarnita di bandiere rosse, o i bagliori della guerra in Kosovo che incrinano l’effimera pace di fine secolo, commentati non senza acume da uno Zeichen da sempre sensibile ai paradossi della geopolitica (che, da posizione filo-serba, rileva come l’intervento britannico offra un involontario precedente al separatismo nord-irlandese). Ma più che della grande Storia (pure magistralmente affrontata, a modo suo, nelle poesie di Gibilterra del 1991), Zeichen è cronista di una mondanità letteraria romana che riproduce i suoi riti fra cene e pranzi, premi e presentazioni. Il diario è tuttavia relativamente avaro di aneddoti sapidi o retroscena scandalosi da una scena cultural-mondana che appare frequentata con un senso di domestica routine: le frecciate più pungenti sono a spese delle capacità culinarie degli ospiti di Zeichen, apparentemente tutti alquanto imbranati davanti ai fornelli.

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Gli studiosi e gli storici dell’opera zeicheniana troveranno qui, oltre a qualche versicolo (inedito? si lamenta l’assenza di qualsivoglia paratesto critico, anche solo una brevissima introduzione), le tracce della sofferta lavorazione della raccolta di poesie su Roma, a cui uno svogliato Zeichen – che teme ormai di aver sviluppato, con l’età, maggior propensione per la gastronomia che per la scrittura – fatica a trovare una conclusione, nonché un degno titolo (sarà poi il bell’endecasillabo Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, per il volume uscito l’anno seguente per lo stesso Fazi e che resta fra le sue cose migliori).

Altro leitmotiv, i tormenti finanziari del geniale squattrinato, che continua a vivere nella sua leggendaria baracca col tetto in lamiera, e a sessant’anni è costretto dalla cronica indigenza a inquietarsi – come il giovane Baudelaire – per l’acquisto d’un paio di pantaloni; condannato dalla sua stessa vena di poeta essenzialmente d’occasione a tirare avanti con scritture ‘alimentari’ su commissione, che se in fondo non contraddicono affatto il suo estro d’epigrammista certo non rasserenano i suoi giorni.

A stemperare le angosce soccorre in parte l’erotismo lieve e libertino dell’eterno giovane che non vuole legarsi, preferendo gli episodici momenti d’intimità con le varie amiche più o meno discretamente nominate; e i frammenti delle schermaglie amorose si leggono con gusto. Sotto la sua pelle ancora intatta dalle rughe (che iniziano dalla pianta dei piedi, “il più lontano possibile dal viso”) si comincia però a intravedere la scorza dolente del vecchio orso preoccupato di restare solo nella sua tana, senza affettuose cure femminili (altro che editing dei romanzi!), ora che la vecchiaia incombe e che non solo la decadenza dei coetanei ma anche le torsioni dei visceri ricordano sinistramente a questo grande irregolare, “morto da giovane – interiormente, s’intende – perciò sfuggito al tempo” la sua umana caducità. Ma proprio questa strisciante amara consapevolezza dà concretezza e profondità melancolica a questo diario, e chissà che la pubblicazione di ulteriori volumi non giovi alla fortuna postuma di Zeichen, ombreggiando e complicando il pur memorabile personaggio che questo esteta sui generis si era caparbiamente costruito.


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Valentino Zeichen, Diario 1999
Fazi, Roma, 2018
pp. 332
18,50 €