Le assaggiatrici di Rosella Postorino, romanzo edito da Feltrinelli, nella cinquina del Campiello, affronta una pagina poco conosciuta della seconda guerra mondiale, senza però riuscire a convincere sulla resa artistica.

La storia è originale e riprende una vicenda rivelata solo nel 2013 dall’unica superstite: quindici donne tedesche furono costrette per due anni e mezzo ad assaggiare i pasti di Hitler per assicurare che non fossero avvelenati. Passo in rassegna la vicenda reale, per come l’ho potuta schematicamente ricostruire avvalendomi di alcuni articoli di giornale reperiti online e della pagina Wikipedia dedicata alla testimone.

Margot Wölk nacque nel 1917 in una famiglia che non aderì al nazismo, diventa segretaria, nel ’39 si sposa e l’anno dopo vede partire il marito per la guerra, nel ’41 casa sua viene bombardata e si trasferisce dai genitori a Gross-Partsch (oggi Parcz), vicino al fronte orientale, dove Hitler aveva fissato la cosiddetta Tana del Lupo. Viene costretta dal sindaco insieme ad altre quattordici donne del paese ad assaggiare i cibi del Führer, fino a quando nel novembre del ’44 Hitler rientra a Berlino e Margot viene aiutata da un ufficiale delle SS a nascondersi su un treno per la capitale (le altre donne coinvolte moriranno per mano dei sovietici). Nel ’46 torna anche il marito Karl, dato per disperso. Entrambi traumatizzati, si separeranno pochi anni dopo (lui morirà nel ’90). Senza mai aver raccontato il suo segreto a nessuno, Margot lo rivela solo a novantasei anni in un’intervista, poco prima di morire.

Rosella Postorino è partita da questo scheletro per rivestirlo e trasformarlo in romanzo. La sua protagonista si chiama Rosa Sauer e rispetto alla vicenda reale le differenze sono minime: a Gross-Partsch la protagonista è ospitata dai suoceri, inizia il suo lavoro forzato nell’autunno del ’43 e con il misterioso ufficiale delle SS instaura una relazione. Il grosso dell’invenzione, come ci si aspetta da un romanzo storico, è affidato alla parte che nella testimonianza risulta più opaca: il contorno umano intorno alla mensa quotidiana, dunque i rapporti tra le assaggiatrici e la storia d’amore tra Rosa e un militare.

Mi soffermo su quest’ultimo particolare perché, oltre a essere una trave portante del romanzo, concentra alcuni spunti originali, a partire dalla domanda se sia possibile, giusto, amare un’SS. Siamo inclini a negare ai nazisti un sentimento come l’amore, ma la protagonista, che cede alla passione mentre il marito è dato per disperso, risolve il suo dilemma con un’evidenza: l’SS non è un nemico, è tedesco, come lei. Entrambi dalla stessa parte, ma divisi da un abisso: lui collabora con il sistema che obbliga Rosa a rischiare di morire avvelenata tre volte ogni giorno. Da qui la contraddizione della loro relazione, che tocca anche momenti di totale abbandono da parte della protagonista a fantasie amorose, sempre giocate sull’ossimoro («una scandalosa benedizione»), e riflessioni che puntano sull’impersonalità dei sentimenti e sulla loro caducità: «l’amore accade proprio fra sconosciuti, fra estranei impazienti di forzare il confine. Accade fra persone che si fanno paura. Non è ai segreti, ma alla caduta del Terzo Reich, che l’amore non è sopravvissuto». (Che questo amore abbia qualcosa di genuino, di autentico, è dimostrato dall’opposta vicenda di una coppia speculare, un’altra assaggiatrice e un’altra SS: i due si corrispondono ma quando lei decide di tirarsi indietro lui non si frena e la violenta).

La raggiera di relazioni che Rosa instaura con le persone circostanti si muove continuamente attraverso varie opposizioni identitarie. Quella di genere corre lungo tutto il romanzo. Sono donne le altre assaggiatrici, la suocera, la giovane baronessa con cui Rosa crea una breve amicizia. Tutte in una condizione subalterna rispetto al mondo maschile e alla Storia, accomunate però dalla possibilità di incubare nuova vita in un contesto di morte: un’assaggiatrice resta incinta ma preferisce abortire; la suocera si allarma perché Rosa ha ritardi nel ciclo, destando anche nella nuora il sospetto di una gravidanza; e poi c’è la baronessa, madre di due bimbi, estremamente agiata, quasi invidiata finché non viene allontanata dopo la congiura del 20 luglio ’44.

Dunque i vari personaggi finiscono per essere raggruppati o contrapposti secondo frazionarie appartenenze identitarie. I punti di contatto, attrito e conflitto emergerebbero con più chiarezza se stilassimo una griglia in cui ogni personaggio venisse contrassegnato secondo la sua appartenenza nazionale (tedesco/non tedesco), sessuale (uomo/donna), ideologica (nazista invasato/scettico), economica (privilegiato/povero), geografica (di città/di campagna), religiosa (cristiani/ebrei). Ognuna di queste distinzioni emerge a suo tempo fornendo materia narrativa, con il risvolto negativo che molte volte la narrazione si riduce a piccoli attriti, irrilevanti rispetto al quadro generale (penso ai numerosi dialoghi tra le assaggiatrici, personaggi differenziati ideologicamente ma alla fine un po’ scialbi).

La tenuta è variabile. Alcuni colpi di scena risvegliano la curiosità, in alcuni capitoli domina la tensione (il complotto del 20 luglio è ben intrecciato al racconto della giornata della protagonista), il finale è un crescendo (ricompare un personaggio, siamo a mezzo secolo dai fatti, ci sono diversi chiarimenti), su molti momenti pesa però una certa staticità. Al netto dei tagli che avrebbero forse giovato a una maggiore densità, quello che più nuoce al libro è la mancanza di una prospettiva e di una voce originale.

L’autrice non riesce a svincolarsi dalla dimensione della testimonianza, che da risorsa diventa limite: la forma romanzesca appare più come un contenitore che come uno strumento, appiattita sul bisogno di raccontare una storia vera e drammatica. Il romanzo contiene questo flusso narrativo, limitandosi a coincidere con esso. A libro chiuso resta in mente una storia, non un romanzo, cioè non una maniera particolare di raccontare. Manca quel salto, la costruzione di una prospettiva in cui le diverse potenzialità del genere interagiscono e si rinnovano, esibendo un atteggiamento distintivo dello scrittore nei confronti della realtà (oltreché della scrittura), capace di creare spazi vergini per il lettore e di ammonimento per i futuri romanzieri.

La scrittura – e a questo punto è il peccato meno grave – è monocorde: una certa rigidità nella frase, una certa monotonia lessicale, quasi mai la parola inattesa, lo schizzo di una nuova sfumatura della lingua. Ogni tanto spiccano delle trovate sentenziose, spesso giocate sull’ossimoro, buone a recuperare l’attenzione perduta del lettore, ma un’opera non può reggersi sui guizzi, che scivolano via una volta girata pagina. Nel complesso manca quel tocco magistrale che dia prova della nascita di una scrittrice, la sua identificazione con una lingua solo sua, dalla quale il lettore possa lasciarsi trasportare verso paradisi insospettati. Risulta dunque difficile celebrare l’uscita delle Assaggiatrici, romanzo schiacciato dalla sua storia, dalla volontà di tramandare un fatto reale, mettendo le risorse letterarie in una posizione ancillare.


 

assaggiatriciRosella Postorino, Le assaggiatrici, Feltrinelli, Milano 2018, 285 pp. 17€