L’abisso dei social media, di Geert Lovink, saggista e teorico delle culture di rete olandese, è un libro d’impatto, che mette in rilievo una fetta di realtà ancora quasi del tutto ignota a molti. Pubblicato nel 2016, questo saggio si pone un obiettivo audace: diffondere l’idea che la vera sfida dei geeks del web di oggi non sia sconfiggere l’onnipresenza di internet, bensì la sua invisibilità. Ergo, il controllo sottile che esercita sulle nostre menti e sull’inconscio collettivo delle masse.

“The web is dead. Long live the Internet” diceva Chris Anderson, direttore di Wired USA dal 2001 al 2012, in uno dei suoi più famosi articoli. E’ realmente così? Davvero il web sta morendo sotto i nostri occhi? Di sicuro l’uso sempre più massiccio di app, inaccessibili ai crawler – pezzi di software che per conto dei motori di ricerca analizzano i contenuti di un database permettendo quindi l’indicizzazione delle pagine sul web – sta avvalorando sempre più l’affermazione preoccupante di Edward Snowden, informatico e attivista statunitense noto per aver rivelato pubblicamente i dettagli di alcuni programmi di sorveglianza di massa del governo statunitense e britannico: “Internet si è rotto”. In effetti, la tendenza a costruire piattaforme centralizzate e sintetizzate, l’infrastruttura di sorveglianza che monitora ogni nostro movimento online, l’attività costante di profiling e data mining esercitata sugli utenti e sui contenuti che pubblicano, contribuiscono a rendere internet un “giardino recintato”, per dirla come vuole Lovink, anziché uno spazio di condivisione libero.

Infatti qual è il sociale dei social media? Ci abbiamo mai riflettuto? Come teorizza Andrew Keen in “Vertigine Digitale”, il sociale dei social media è soprattutto un contenitore vuoto. I social creano dipendenza, e nessuno oggi può più permettersi di assumere la posizione di essere indifferente al sociale. Ma in fondo cosa ci trasmettono i contenuti che pubblichiamo e visualizziamo ogni giorno, le infinite timeline di Facebook e Instagram? Lovink assume una posizione estremamente critica su questo argomento. Nel libro afferma:

“Muovendoci nell’ambito di reti virtuali crediamo di dover aderire sempre meno al nostro ruolo all’interno di comunità tradizionali. […] Ma come perdere interesse in qualcosa che è stato progettato per essere indispensabile? Quali le tecniche più efficaci per ridurre il rumore sociale e i flussi continui dei dati che gridano per avere attenzione? […] Quello che dobbiamo superare non è la tecnologia in quanto tale bensì concrete abitudini consolidate.”

E le “abitudini consolidate” cui fa riferimento Lovink non sono difficili da immaginare. Quanti di voi controllano il cellulare in attesa che arrivi l’ascensore? O durante una lezione a scuola o all’università? Quanti di voi la sera non chiudono occhio, magari nonostante la stanchezza dopo una lunga giornata, prima di aver controllato tutti i propri profili social? Cosa sono queste, se non vere e proprie – preoccupati – abitudini consolidate?

Lovink elabora una specie di tesi dello “sfruttamento” dei social media, evidenziando il pericoloso passaggio compiuto dalle pratiche basate sul codice html del web aperto (web 2.0) al “mi piace” e alle raccomandazioni che si manifestano all’interno di sistemi chiusi, i social media appunto. Egli teorizza la cosiddetta “economia del mi piace”, le cui conseguenze più dirette e tragiche sono l’appiattimento dei contesti sociali e la riduzione codificata delle complesse relazioni umane. Insomma, il quadro delineato è tanto tragico quanto reale. Tuttavia, l’autore pone l’accento anche sui numerosi tentativi di contrasto a queste tendenze. Ad esempio, il progetto di ricerca Unlike Us, avviato nel 2011 con lo scopo di riunire artisti, attivisti, programmatori e lavorare su un’idea di “social media alternativi”, vale a dire: decentralizzati, non-profit e che garantiscano la tutela della privacy. Per poter essere una valida alternativa a Facebook, secondo Unlike Us, occorre essere anticapitalisti.

Una grande parte della trattazione è riservata al modello d’impresa su internet, basato sul “gratuito e aperto”. L’autore ci pone di fronte a un quesito importante: quando è il caso di abbracciare e promuovere la produzione gratuita? Egli afferma:

“Dal software libero alla musica gratuita è andata così imponendosi la cultura della copia, rendendo difficile ai produttori di contenuti culturali guadagnarsi da vivere tramite la vendita diretta.”

In effetti, la formula dominante del “gratuito e aperto” altro non è che un elemento di speculazione, a tutto vantaggio di imprenditori, tecnici e agenzie di investimento. Può questa essere considerata un’economia? Al contrario invece, è auspicabile la creazione di un sistema che consenta a chi lavora concretamente su un progetto online di ricevere un compenso dignitoso. Proprio questo è l’obiettivo di un altro progetto presentato ne “L’abisso dei social media”: il progetto Moneylab. Una rete di artisti, attivisti e ricercatori fondata dall’Institute of Network Cultures nel 2013 si propone di analizzare nuovi metodi di finanziarizzazione dal basso, prendendo le distanze dall’attuale modello economico dominante online neoliberista basato sul “gratuito”. Prendendo in esame anche l’attuale dibattito su Bitcoin, il progetto si propone di studiare in che modo possiamo generare valore oggi, visto e considerato il grande e moderno sviluppo di forme alternative di denaro al di fuori del sistema bancario tradizionale.

Le raccolte fondi in rete, il cosiddetto “crowdfunding”, il “denaro mobile” in Africa – formula usata per definire alcuni metodi di pagamento alternativi sviluppatisi in Africa tramite dispositivi mobili – il progetto DigiCash di David Chaum, che prevede la trasformazione del denaro in una stringa di cifre criptograficamente codificate, sono sistemi destinati ad essere inglobati nel sistema bancario tradizionale?

Rispondere a questa domanda non è affatto banale, considerato il generale reazionismo dei potenti del web, a causa del quale la massa si trova completamente disinformata su questi temi.

Lovink paragona questo scenario alla Vienna del 1910, sulla soglia del collasso dell’Impero. Quanto più le capacità tecnologiche si accresceranno, tanto più diminuirà la nostra facoltà immaginativa. E non è sufficiente fermarsi all’affermazione di McLuhan secondo la quale la tecnologia è l’estensione di noi stessi. Oggi è molto peggio. Stiamo cominciando a riversare nella tecnologia la parte peggiore di noi stessi. Il concetto di “ira online”, analizzato in particolare modo dal filosofo e saggista tedesco Sloterdijk, sta ricorrendo continuamente. Ma questo desiderio di riconoscimento espresso online è indignazione autentica? Si tratta di sdegno genuino o di culto del rancore?

Sicuramente il libro di Lovink rappresenta un buon punto di inizio per interrogarci su questi temi. Non fornisce risposte, stimola solamente al ragionamento. Di sicuro, però, un messaggio lo trasmette con fermezza: è tempo di ricognizione, di riappropriazione, di cambiamento qualitativo.

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Geert Lovink, L’abisso dei social media. Nuove reti oltre l’economia dei like, Università Bocconi Editore, 2016, pp. 304, €25