Marta Fana, studiosa di economia e politica, giornalista per Internazionale Il fatto quotidiano ha pubblicato nel 2017 un saggio intitolato Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza). Il libro riassume le ricerche e le indagini portate avanti dall’autrice, legando tra loro in una efficace prospettiva di causa-effetto gli sfaccettati aspetti che pervadono il tema del lavoro, dalle politiche fallimentari, alla scuola, al lavoro volontario.

Come siamo finiti a considerare il lavoro come “merce”?

È un po’ meno soggettivo di quel che si pensa. Nel sistema produttivo capitalistico il lavoro è merce o meglio lo è la forza lavoro da cui scaturisce. Oggi, dopo trent’anni di ristrutturazioni capitalistiche rispetto ai decenni definiti Trenta Gloriosi, viviamo una fase di aggressività del capitale che prova con tutti i mezzi (organizzativi, legali, politici) ad estrarre quanto più valore-merce dal lavoro per aumentare i propri profitti. Se questo è intrinsecamente quel che i capitalisti hanno avuto come obiettivo, la sua realizzazione è dipesa sostanzialmente dalle scelte politiche che l’hanno permesso.

Si riferisce al Jobs act?

Il Jobs Act è l’ultimo tassello di un processo di flessibilizzazione e liberalizzazione del mercato del lavoro. Ma vanno considerati anche tutti quegli interventi che hanno permesso il dilagare delle esternalizzazioni, dell’intermediazione profittevole di manodopera ecc.

C’è un modo per estrarsi culturalmente dalla realizzazione di se stessi attraverso il consumo?

Certamente un modo è capire che il consumo è solo un’azione individuale, mentre la società vive di fenomeni collettivi su cui possiamo incidere e che possiamo determinare. Capire che la democrazia non è un orpello ma è il mezzo con cui siamo in grado di incidere sulle nostre realtà, dai quartieri ai luoghi di lavoro. In secondo luogo, bisogna sempre ricordarsi che dietro il consumo c’è il lavoro di qualcuno. Quindi, ostentare la propria realizzazione attraverso un consumo, possibile solo se in saldo o a prezzi stracciati, non è che un modo per nascondere la realtà: siamo impoveriti e quindi dobbiamo sperare nello sfruttamento di altri lavoratori per far finta di non esserlo.

Nel 2013 a Genova si verificano cinque giorni di sciopero del trasporto pubblico. Gli autisti decidono di prendere l’iniziativa contro l’azienda, senza autorizzazioni in quello che è stato definito dai giornali “sciopero selvaggio”. Credo che la definizione lessicale dell’evento sia utile a cogliere l’accezione sminuita che il concetto ricopre oggi. Lo sciopero è ancora uno strumento efficace o dovremmo trovare una nuova chiave per non ridurre la protesta a palcoscenico?

Lo sciopero e tutte le forme che bloccano la produzione e quindi possibilità di accumulare fatturato e quant’altro rimangono strumenti privilegiati per le lotte dei lavoratori. Ma oggi non sono le uniche, anche perché milioni di lavoratori non godono del diritto di sciopero: potrebbero astenersi dal lavoro rischiando semplicemente di essere “licenziati”.

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Appunto. Ci sono due problemi in questo ordine di cose. Il primo è che manca la solidarietà a livello sociale: il consumatore, l’utente, spesso non solidarizza con lo scioperante perché impegnato a cogliere i danni che il blocco di un servizio/produzione possano arrecargli. Allo stesso tempo, il lavoratore è minacciato nel suo diritto alla protesta. Esiste un modo per districarsi in questo ginepraio?

Creare consenso sulle cause dei processi e essere chiari negli impatti collettivi che questi producono in varia dimensione sugli individui come soggetti di una comunità.

Il mito del lavoro digitale, svincolato dall’orario aziendale è un traguardo spesso agognato, ma spesso nasconde lati oscuri. Le professioni digitali e simili sono un’involuzione della condizione del lavoratore?

Le professioni digitali sono un’evoluzione tecnica di molte professioni. Non esiste lavoro svincolato dall’orario aziendale nell’era digitale, semplicemente il digitale (ma ormai anche la manifattura, attenti a non rimuoverlo) produce h24. Quindi la questione verte su altri aspetti, ad esempio quando finisca il proprio orario di lavoro, quando si sia realmente disconnessi e quando si abbia diritto di farlo. Con le norme sulla reperibilità questo diritto è stato fortemente indebolito. Poi c’è tutto il tema dell’economia delle piattaforme, una parte del mondo di produzione a trazione digitale. Ad oggi il lavoro per le piattaforme digitali è tra i più sfruttati: forte rigidità e controllo del lavoratore, paghe a cottimo, orari molto lunghi, zero diritti dati i contratti applicati. La questione risiede nel come si usa la tecnologia, se per liberare i lavoratori da un’organizzazione gerarchica o meno, se la si usa per ridurre la fatica ma anche gli orari di lavoro o meno.

Il capitalismo è fondato sul mito del benessere collettivo, eppure, anche oltre le disparità interne alla società, sappiamo che per fruire della ricchezza e dei suoi servizi, ci deve essere qualcheduno che la generi e che sia servizievole, ad ogni livello: dal portapizze in bici, alla delocalizzazione. Quali prospettive abbiamo per il futuro in questo frangente?

No, il capitalismo è fondato sulla proprietà privata e sulla divisione in classi tra chi possiede i mezzi di produzione e ha l’interesse ad ampliare il proprio raggio di influenza economica e chi non li ha e per campare vende la propria forza lavoro. Il benessere collettivo e il progresso sono prerogative di altri sistemi economico-sociali. Bisogna ragionare dei modi per erodere il capitalismo: partiamo da una condizione in cui i rapporti di forza sono troppo sbilanciati, ma è necessario riflettere su come aggredire le contraddizioni che si aprono, per il breve e lungo periodo.

A quali contraddizioni fa riferimento?

Non esiste progresso sociale e giustizia in un contesto in cui viene eliminato il diritto a una vita dignitosa. Si permette il lavoro gratuito ma nel capitalismo questo è in piena contraddizione con la funzione di realizzazione del valore delle merci attraverso il consumo. Quindi il capitale ha bisogno di realizzarsi altrove, ad esempio nella finanza. Terreno in cui il conflitto viene eliminato ma che indirettamente torna nella sfera della produzione reale.

Da quando il grande modello alternativo al capitale ha mostrato le sue congenite debolezze, fallendo, le sinistre si sono orientate nella battaglia per i diritti sociali, perdendo di vista quelli del lavoro e del ceto di riferimento. I risultati nelle elezioni degli ultimi anni sono una prova lampante dello spaesamento della sinistra. Quale direzione dovrebbe assumere e quale ruolo giocare la sinistra di domani?

Il comunismo reale è stato un modo alternativo e che si basava su una forma di capitalismo di stato, quindi ad oggi non possiamo considerarlo un modello alternativo al capitale. Le sinistre occidentali, invece, hanno pensato soprattutto a partire dagli anni Settanta, che bastasse del riformismo per ottenere un capitalismo dal volto umano, ma sappiamo che questo è un processo che non dà risultati. Infatti la controrivoluzione che da lì è iniziata ha reso plasticamente palese quanto il capitalismo sia incompatibile con i sistemi democratici (in senso sostanziale non formale).

La disintermediazione è anche la causa della “scomparsa della società”. Il crollo della politica come ambito associativo segna la fine, nel nuovo millennio, dell’ideologia condivisa e la vittoria dell’individualismo, ed ogni giorno è fomentato dalla società digitale e dalle nuove modalità di rapporto interpersonale. Come si può contrastare questa tendenza?

Facendo notare che le uniche battaglie democratiche vinte sono quelle in cui un soggetto collettivo ha preso parola in modo unito. Non ci sono scorciatoie, nessuno si salva da solo a meno che non abbia una buona eredità ad aspettarlo.


Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento

Laterza 2017, pp. 192, 14€