È proprio vero che i libri richiamano altri libri, in una sorta di catena immaginaria che si allunga continuamente se sappiamo ascoltare ciò che ci comunicano. Pensavo proprio a questo quando, dopo aver letto il bellissimo Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere di Giuseppe Pontiggia (edito nel 2016 da Belleville), ho acquistato due libri che avevano lo stesso tema, pubblicati da un piccolo e raffinatissimo editore dalla lunga tradizione, Mattioli 1885.

Parlavo di una catena immaginaria perché questi libri si rifanno al tema trattato da Pontiggia – l’attività della scrittura – e anche perché uno dei due è stato scritto da un autore molto amato dallo scrittore lombardo e citato proprio in quelle pagine, ossia Sherwood Anderson.

I libri dell’editore Mattioli sono spesso di piccolo formato, anderson2degli eleganti tascabili di poche pagine con un’impaginazione e una grafica di copertina dal bel sapore retrò. Aprendoli pare di immergersi in un’avventura nuova, come se ci trovassimo di fronte a dei manoscritti un po’ ingialliti scoperti nel polveroso baule di una soffitta. Il libro di Anderson, Il romanzo perduto, raccoglie cinque brevi racconti, scritti tra il 1920 e il 1940, i cui protagonisti sono alle prese col demone dell’attività creativa. Esistenze ordinarie, spesso provinciali, che tentano attraverso l’arte (in qualunque modo essa sia poi declinata) di trovare quel “qualcosa” che le riscatti dalla consuetudine e dalla dignitosa routine in cui tutti possiamo trovarci imbrigliati. L’arte diventa allora un modo di esprimere l’inesprimibile, più esattamente di provare a farlo: perché è un obiettivo irraggiungibile, ci dice l’autore, cui ci si può solo più o meno efficacemente avvicinare:

“Sembri sul punto di raggiungere qualcosa, in certi momenti”, disse. Concordammo che nessuno è mai abbastanza bravo per raggiungerlo quel qualcosa. Non so davvero se mai sia esistito un uomo capace di riuscirci, a svelare le carte sul tavolo, se capite cosa intendo: prendere il toro per le corna (Il romanzo perduto, p. 10).

Ma questo bisogno apparentemente nobile, potremmo anche dire “metafisico” perché inerente a qualcosa che non si può facilmente osservare o definire, può diventare anche una malattia. L’individuo finisce per isolarsi nella speranza di trovare la concentrazione giusta per osservare più chiaramente questo “qualcosa”. Poiché però si tratta di uno sforzo che tende all’infinito – come si diceva a scuola studiando la matematica – e poiché i mezzi posseduti sono spesso inadeguati, l’individuo che vi si cimenta si trova a vivere in uno stato di frustrazione permanente e in un rapporto di amore-odio verso l’attività artistica: «la volontà, quasi fisica, di esprimere un concetto, servendosi di tutto il corpo, come per aprirsi un varco attraverso un muro di pietra» (Noi, ragazzini delle arti, p. 23) Non di rado questa tensione creativa, una volta che quel “demone” si impossessa della mente, porta alla follia o al completo isolamento. Per Anderson la scrittura è l’esito di  una coerenza necessaria tra vita e arte e di una passione semplice e profonda che riesca a trasmettere in modo autentico, attraverso l’opera, la vitalità del mondo immaginativo di chi scrive, aspetti certo lontani dai  vezzi e dal narcisismo che spesso attanagliano il cosiddetto mondo letterario, cui Anderson non risparmia sagaci stilettate:

Di recente un mio amico scienziato mi ha detto – ed era impacciato nel rivelarmelo, gli scienziati non sono gente sfacciata come noialtri scrittori che oltre a scrivere ce ne andiamo in giro a ciarlare e tener conferenze: gli uomini di scienza non sopportano compromettersi… (Quando qualcosa ci sta a cuore, p. 44).

Non mancano infine, sparse qua e là, annotazioni più tecniche sulla scrittura, in particolare sul delicato e difficile equilibrio da mantenere tra realismo, immaginazione e stile nella costruzione di una storia. L’opera deve essere autentica, nel senso di esprimere qualcosa di vitale, che abbia cioè un legame profondo coi sentimenti e l’esperienza di chi scrive allontanandosi dalla descrizione pura e semplice della realtà – da una sorta di realismo fotografico più consono al giornalismo che all’arte del narrare. Ma al contempo deve nutrirsi di realtà, senza la quale rischierebbe di trasformarsi in lirismo fine a sé stesso:

L’immaginazione deve continuamente nutrirsi di realtà perché la vita immaginativa possa continuare ad avere un significato […] la vita dell’immaginazione resterà sempre divisa da quella della realtà. Si nutre della vita reale, è vero, ma non coincide con la vita stessa – non potrà mai (Appunti sul realismo, p. 65).

Credo che il merito di Sherwood Anderson sia soprattutto quello di non indulgere in facili idealizzazioni dell’esperienza creativa – cosa in cui oggi collettivamente, complice la facilità di pubblicazione, troppo spesso si cade –, ma di sottolinearne piuttosto i fallimenti, l’alienazione e a volte la miseria che le sono connessi. Il suo stile, fatto di frasi concise e di una punteggiatura martellante, che, come sottolinea Pontiggia nel libro citato, ha influenzato tanta narrativa americana successiva (Hemingway, Faulkner e altri), collabora in modo incisivo a trasmettere questo messaggio di assoluto realismo.

D’altro tenore il libro di Filippo Tuena, come si intende già dal titolo: Manualetto pratico a uso dello scrittore ignorante. Si tratta di una sorta di lettera indirizzata ad un novello e improvvido aspirante scrittore, in cui vengono raccontate in modo spassoso le peripezie di chi, ad un certo punto della sua vita, si mette in testa di pubblicare un romanzo. Un percorso costellato di aspettative velleitarie, tentativi fallimentari (in cui molta parte ha l’imperizia scrittoria dell’aspirante), spese inutili, partecipazione a fatui eventi mondani, pressione a stabilire amicizie nel mondo editoriale, problemi che la scelta di scrivere implica per chi ha una famiglia e deve dar conto ad altri del proprio tempo e della propria vita:

Dunque ti asterrai dallo sbandierare ai quattro venti questo tuo folle proponimento [di scrivere un romanzo] e sceglierai la saggia via della clandestinità che eviterà, qualora il tuo manoscritto non venisse mai pubblicato – perché esiste davvero questa orribile eventualità e ne sentirai il respiro sottile ogni notte prima di addormentarti – d’essere oggetto di scherno e di commiserazione da parte di coloro che, venuti a saperla per caso, avranno sempre considerato come sciagurata questa tua impresa (p. 15).

Chi è quindi lo “scrittore ignorante” di Tuena? È un personaggio talmente sprovveduto da risultare reale (si sa, la realtà supera spesso la fantasia) e nelle cui ossessioni e manie chiunque abbia nutrito almeno una volta aspirazioni analoghe potrà facilmente riconoscersi:

Uno dei più grossi equivoci in cui potrebbe incorrere uno scrittore ignorante sarà quello di ritenere d’aver scritto storie molto originali e appetibili da altri. Appetibili non nel senso della lettura ma in quello del furto. Una volta che avrai terminato il tuo romanzo, una volta che clandestinamente ne avrai fatto delle copie, subito dopo averle inviate a un qualsiasi editore, incomincerai ad avere paura. La paura che ti attanaglierà sarà quella che qualcun altro avendo letto il tuo scritto rubi la tua idea e ne approfitti pubblicandola a sua volta col suo nome (pp. 57-58).

Il racconto è pieno di verità e di considerazioni non scontate – come quando, ad esempio, si pone l’accento sul contrasto tra la lentezza dei tempi di un’eventuale pubblicazione e il tempo interiore di un autore, che finisce per non riconoscersi più ormai in ciò che ha scritto qualche tempo prima. L’ansia dell’aspirante scrittore trova il suo corrispettivo in uno stile caratterizzato da un uso molto soggettivo della punteggiatura, che rende la narrazione veloce e concitata. Colpisce la presenza di una sintassi molto articolata, il cui peso però viene alleggerito, oltre che dalla punteggiatura, dal lessico quotidiano e dal tono ironico del discorso. Impreziosiscono il testo i tre sogni posti ad epilogo del libro, che mettono in scena alcune delle angosce più grandi di un autore.

Un libro, quello di Tuena, che tratta dello scrivere in termini meno “filosofici” e introspettivi rispetto ai racconti di Anderson, ma che prova a togliere con lucidità e sarcasmo le croste di ipocrisia che ancora ricoprono la scrittura “di mestiere” nell’immaginario collettivo (specie tra gli aspiranti), riuscendo ad essere – aspetto decisivo per un testo di narrativa, al di là di eventuali imperfezioni – sempre molto godibile per il lettore.

Se da un lato quindi la scrittura, per Anderson, può proporsi come un’attività nobile e credibile solo se rimane intimamente legata alla vita e all’esperienza interiore dello scrittore e se al contempo riesce, prendendo spunto dalla realtà concreta di ogni giorno (di cui comunque deve nutrirsi), a trascendere quest’ultima attraverso il filtro dell’immaginazione soggettiva (lanciando così un messaggio che superi la soggettività dell’artista per raggiungere molti), per Filippo Tuena – che ha un’idea altrettanto nobile di quest’arte, basti pensare a quanto insiste sull’importanza del labor limae, dell’esercizio e della lettura dei classici al fine di acquisire “lo stile”, l’unico aspetto che contraddistingue veramente uno scrittore – è importante evidenziare e irridere le attese idealizzate di tanti aspiranti che oggi scambiano le loro idee vagamente romantiche sull’arte e sull’ispirazione (spesso imbevute di narcisismo) per capacità e passione autentiche.

Due libri che sottolineano aspetti diversi dello “scrivere come mestiere” e che provano entrambi a distruggere i falsi miti, le attese e l’ignoranza puerili, l’inclinazione alla mondanità e infine la scarsa comprensione della funzione dell’arte che in misura diversa, ma ugualmente deleteria, allontanano che si cimenta nella scrittura dalla possibilità di raggiungere una concezione matura e intellettualmente fondata dell’arte dello scrivere.


andersonSherwood Anderson, Il romanzo perduto, Mattioli 1885, 2011, pp. 70, 10€.

 

 

 

 

 

 

tuena 2

Filippo Tuena, Manualetto pratico a uso dello scrittore ignorante, Mattioli 1885, 2010, pp. 110, 12€.